Fratel Biagio Conte quel giorno a Brolo. Un bambino mi disse: “Somiglia a Gesù”.

Anno 2016. Era in viaggio per Roma, per incontrare il Papa. Lungo tutto il suo pellegrinaggio arricchì la vita di chi lo incontrava.

Io ero impegnato fuori dalla parrocchia. Una telefonata del sindaco, Irene Ricciardello, mi avvisava che Biagio Conte era alle porte di Brolo e mi invitava a raggiungerlo insieme a lei, e fare con lui il tratto di strada attraverso la nostra cittadina.

Non fu possibile per me. Fu tutto così improvviso. Il sindaco gli andò incontro e lo raggiunse alla rotonda del centro commerciale. Io riuscì a raggiungerlo quando era già arrivato alla Chiesa e cercava il parroco.

Arrivato in chiesa, trovai una piccola folla e genitori che tenevano sulle spalle i loro bambini per fargli vedere l’uomo di Dio.

Non dette nessuna benedizione, un laico non ha questa facoltà ma ovunque passò, ebbe una parola e una carezza per tutti. Si inginocchiava davanti a tutti i sacerdoti che incontrava lungo la strada chiedendo la benedizione.

Non ho vissuto quel gesto come un privilegio personale. Quel giorno ci sentìmmo tutti piccoli. Compreso me. Mi sentivo piuttosto, in quanto sacerdote, parte di quella grande chiesa che, con tutti i suoi limiti e fragilità, avvolgeva col suo abbraccio il pellegrino missionario diretto a Roma.

Un bambino volle venire in braccio a me e mi disse: “Somiglia a Gesù”. È proprio vero che dalla bocca dei bambini viene la verità. Quella frase è così innocente mi scosse molto. Era vero. Quell’uomo somigliava a Gesù in ogni senso.

Quel giorno ci sentimmo più piccoli, più uniti.

Lascio alle foto il compito di raccontare le emozioni e la bellezza di un incontro.

don Enzo Caruso

Benedetto XVI, l’intervista inedita: «La Chiesa non è un’organizzazione per il miglioramento del mondo»

02 gen 2023

Alcune delle dichiarazioni rilasciate a Manfred Schell su Die Welt, che saranno pubblicate integralmente nell’Opera Omnia del papa emerito che sarà edita in primavera

Pubblichiamo uno stralcio dell’intervista inedita (in italiano) rilasciata nel 1988 da Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, a Manfred Schell, su Die Welt (traduzione di Pierluca Azzaro). L’intervista comparirà nel nuovo volume dell’Opera Omnia di Joseph Ratzinger che sarà pubblicato in primavera da Libreria Editrice Vaticana.

Lei ha denunciato la stanchezza della fede in Occidente. Quali sono le cause?
«Penso si tratti di una stanchezza che nel complesso risulti da una saturazione dell’esistenza di conoscenza e capacità di fare e nella quale emergono dubbi riguardo all’uomo stesso. Siamo talmente concentrati su questioni relative all’autoaffermazione economica e politica che la fede appare come un’offerta da aggiungere per così dire a forza da qualche parte. I dubbi su sé stessi portano alla fuga, al volere scendere. Ma qui sta anche la possibilità di una riviviscenza della fede, se dà risposte alle domande del proprio tempo».

La Chiesa deve diventare più attiva, più critica, forse anche più politica?
«Più attiva e più critica certamente. Negli ultimi anni la Chiesa è stata troppo occupata con sé stessa. Negli ultimi decenni la Chiesa in Germania in ambito politico ha fatto sentire con forza la sua voce — e a ragione — a favore dei valori fondamentali. È importante, ma non deve nascere l’impressione che la fede si esaurisca in una specie di moralismo politico. Il messaggio centrale di Dio, di Gesù Cristo, della salvezza temporale ed eterna deve nuovamente percepirsi di più, perché la Chiesa non è un’organizzazione per il miglioramento del mondo».

Resta da questione del se la Chiesa debba caratterizzarsi di più politicamente.
«È molto importante che la Chiesa non diventi essa stessa attore di uno gioco di forze politiche e in esso soccomba. Ma deve badare all’anima della politica, al suo fondamento etico».

fonte: https://www.corriere.it/cronache/23_gennaio_02/chiesa-non-eun-organizzazioneper-miglioramentodel-mondo-424a3680-8a5c-11ed-8b19-cdc718310dd5.shtml?refresh_ce

Uganda. Rosemary, la suora che ricuce la speranza

Una madre di speranza e di coraggio

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Considerate rifiuti di nessun valore, pronte per essere gettate nella spazzatura, quelle linguette ricavate da lattine e tenute insieme da un filo sottile erano diventate delle graziose borsette che offrivano una possibilità di vita nuova alle ragazze che le avevano realizzate. Ma quelle linguette, insignificanti e gettate via, assomigliavano in qualche modo proprio a quelle ragazze.
Un tempo giovani e belle, erano state rapite, violentate, usate, ridotte a schiave. O costrette a commettere atti terribili. E ora considerate come spazzatura. Sopravvissute per miracolo – e spesso incinte o madri giovanissime –  venivano rifiutate anche dalle loro stesse famiglie. Vittime innocenti trattate come scarti di una storia crudele.
Siamo nel Nord Uganda, terra insanguinata per lunghi anni da un conflitto che ha provocato oltre trentamila morti, due milioni di profughi e sfollati e circa centomila minori rapiti e reclutati a forza. Un conflitto fatto soprattutto sulla pelle dei bambini. Era tra i più piccoli, infatti, che il terribile Lord’s Resistance Army (“Esercito di resistenza del Signore”, Lra), la sanguinaria milizia di Joseph Kony, reclutava i propri effettivi, drogati e indottrinati, costretti a commettere i peggiori crimini o, nel caso delle bambine, ridotte a schiave: sessuali e non solo.
Ma è sempre in questa terra martirizzata e violentata che sono maturati anche segni e iniziative straordinari di resistenza, riscatto e speranza. Uno dei più significativi è rappresentato da suor Rosemary Nyirumbe, religiosa delle Suore del Sacro Cuore di Gesù, che ha strappato oltre duemila ragazze ai miliziani del Lra, restituendo loro libertà e dignità.
Un lavoro lungo e difficile, che le è valso nel 2007 il riconoscimento di “eroe dell’anno” da parte della Cnn. E, nel 2014, il settimanale Usa Time l’ha inserita tra le “100 persone più influenti al mondo”. Istruzione e lavoro sono al centro dell’opera di questa straordinaria donna che, a quindici  anni, decide di diventare religiosa per dedicarsi ai poveri. Il noto medico missionario Giuseppe Ambrosoli la vuole come prima assistente ostetrica in sala parto nell’ospedale di Kalongo. In seguito suor Rosemary si laurea e prende un master in Etica dello sviluppo.
Nel 2001,  decide di dedicarsi specialmente alle ragazze vittime del Lra e prende la guida della St. Monica Girls Tailoring School di Gulu. «Fuori dalla nostra scuola – racconta – ci sono ancora molte ragazze afflitte da un grande dolore. Noi saremo sempre qui per loro, per aiutarle a rialzarsi e a ricostruire la loro dignità con amore, affetto e accettazione. Abbiamo così tante donne e così tanti bambini di cui prenderci cura. Non c’è tempo da perdere».
Suor Rosemary si mette al lavoro e non smette più. Ascolta i racconti agghiaccianti di moltissime ragazze rapite quando erano ancora delle bambine, usate come oggetti sessuali dai miliziani, brutalizzate per farle diventare a loro volta capaci delle peggiori efferatezze. La maggior parte, però, non racconta. Vuole solo dimenticare. Ma tutta quella violenza è qualcosa che rimane dentro.
C’è voluto più di un anno a Sharon per trovare il coraggio di parlare. E di chiedere perdono. «Perché avresti bisogno del mio perdono?», la ha chiesto suor Rosemary. «Perché mi hanno fatto uccidere mia sorella». Quello di Sharon non è un caso eccezionale, anzi. È proprio attraverso l’uccisione di genitori, fratelli, parenti, sangue del proprio sangue, che i ribelli del Lra “iniziavano” i più piccoli alla guerra, cercando di strappare dal loro cuore ogni pietà, senso etico, umanità.
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I testimoni di quella guerra, ormai da molti dimenticata, raccontano di atrocità e nefandezze. Ma il dopoguerra – come ricorda il giornalista Toni Capuozzo nell’introduzione al libro Cucire la speranza (Emi, 2017) – è talvolta «peggiore della guerra stessa. Con i sospetti e i rancori che si trascinano specie nelle guerre civili, dove vittime e carnefici vivono fianco a fianco, è una sfida più sottile».
Per questo il lavoro che suor Rosemary continua a fare tenacemente con le sue scuole di cucito e cucina ha un significato che va oltre la vita delle singole ragazze a cui sta restituendo il futuro. È un messaggio di tenacia e di speranza che spesso appartiene soprattutto ai grandi sognatori. «Non smetterò mai di sognare!» ripete suor Rosemary.
Ma nello stesso tempo non smette mai di darsi da fare perché i suoi sogni diventino realtà. «Mi comporterò come se potessi», è l’altro slogan di questa religiosa che non si è mai lasciata frenare dal senso di inadeguatezza di fronte all’enorme compito di cui si è fatta carico. In questa sua avventura ha incontrato e coinvolto molti amici. È stata supportata da missionari e missionarie italiani, ma soprattutto da gruppi e associazioni americani come Pros for Africa, fondata dall’avvocato americano Reggie Whitten che è anche coautore del libro.
Grazie al supporto di molti sostenitori, suor Rosemary ha fondato la Sister United e la Sewing Hope Foundation per l’esportazione di borse e oggetti prodotti alla St. Monica School, che oggi vengono venduti in tutto il mondo come pezzi unici di artigianato di pregio. Rifiuti trasformati – in tutti i sensi – in qualcosa di bello e prezioso.
Anna Pozzi
(articolo tratto da www.mondoemissione.it)

  

Pedro Poveda: storia di un martire della carità

Il ritratto di un santo che, nei momenti cupi della Guerra civile spagnola, è stato “un sacerdote a tutto tondo”, dedito ai poveri e alla pace

Spagna. Primi anni della Guerra civile. Il sacerdote Pedro Poveda sente il dovere, come cristiano e come sacerdote, di aiutare materialmente e spiritualmente i poveri che vivono nelle grotte alla periferia di Guadix (Granada). Ottenuto il permesso dal suo vescovo, riesce ad attivare una cappella di fortuna e anche a dare una prima formazione scolastica ai bambini del luogo.
Allontanato da quell’incarico perché, a giudizio del vescovo, la fama da lui raggiunta, aveva attirato le invidie di alcuni, si trasferisce nelle Asturie dove cerca di porre in atto il suo progetto: costituire della accademie che si occupassero di dare una preparazione cristiana agli insegnanti laici nelle scuole pubbliche, soprattutto donne.

Agli inizi della Guerra si trova a Madrid, dove ormai la sua iniziativa aveva suscitato l’ostilità del governo della seconda repubblica che voleva una educazione non confessionale. Catturato dai repubblichini, venne fucilato nel 1936. Pedro è sconsolato. Il suo progetto educativo ha trovato pochissimi sostenitori. Va in cappella e chiede alla Madonna un segno e un aiuto. Uscito dalla chiesa, , si imbatte in tre professoresse della scuola normale di Oviedo che aveva conosciuto in un’altra occasione. Sono tutte interessate al suo progetto ma don Pedro interrompe per un attimo la conversazione e corre di nuovo alla cappella.

Rivolto alla statua della Madonna, le dice semplicemente: “grazie!”. E’ uno dei tanti, piccoli e grandi episodi che disegnano il ritratto di un uomo che è stato un sacerdote “fin nelle ossa”. Con un atteggiamento sempre mite ma sereno, portò sempre avanti, senza scoraggiarsi, i progetti che riteneva fossero giusti per guadagnare più persone al Signore: prima vivendo in mezzo ai poveri di Guadix; poi occupandosi dei suoi progetti di formazione, sempre ubbidiente al suo vescovo, sereno e predicatore di pace nei momenti bui della guerra civile.

Don Pedro era convinto che la diffusione di una cultura cristiana fosse un’arma insostituibile subito dopo la preghiera. Il suo impegno era rivolto soprattutto alle donne in una Spagna di quel tempo, dove l’analfabetismo femminile raggiungeva il 40% e c’erano ancora molti pregiudizi sulla necessità di una estesa istruzione per le donne. Il suo programma di costituire delle residenze universitarie femminili anticipò gli stessi governi socialisti del tempo.

La sua iniziativa finì preso per scontrarsi con quei movimenti che propugnavano un’educazione pubblica rigorosamente non confessionale e le stesse ragazze, che avevano aderito al suo progetto, come viene mostrato nel film, non avevano vita facile. Vennero spesso ostacolate dai propri padri e fidanzati, che le vedevano allontanarsi dai loro compiti casalinghi.

Il film ha fatto molto bene a evitare di mostrarci la sequenza della sua fucilazione: non era necessario aggiungere della commozione a un racconto che con molta lucidità ha raccontato la storia di un sacerdote che è stato aderente alla sua missione fino alla fine.

L’istituzione Teresiana da lui fondata, continuò a svilupparsi senza interruzione: dopo il riconoscimento ufficiale di Papa Pio XI nel 1924, si è diffusa in trenta nazioni d’Africa, Asia, Europa, Medio Oriente e America e conta attualmente circa 4000 membri.

Il film sviluppa bene, senza enfasi e con realismo, l’opera di don Pedro Poveda e lo sviluppo dell’Istituzione Teresiana. Particolarmente riuscita l’interpretazione di Alejandro Arroyo nella parte di don Pedro

Don Pedro Poveda è stato beatificato e poi canonizzato da Papa Giovanni Paolo II nel 2003. È stato riconosciuto dall’Unesco come “pedagogo e umanista”. Dispiace solo che il film non faccia cenno agli incontri che avvennero fra don Pedro e l’altro grande santo spagnolo del tempo: Josèmaria Escrivà, fondatore dell’Opus Dei.

Entrambi si trovavano a Madrid all’inizio della guerra civile e si possono riconoscere, nelle loro vocazioni, molte affinità: entrambi si sono concentrati nell’apostolato dei laici; entrambi hanno avuto come modello la vita dei primi cristiani. Nei confronti della guerra civile, come traspare sia nel film Poveda che in There be dragons sulla vita di san Escrivà, entrambi hanno avuto parole decise contro ogni forma di odio e della necessità di “avere pace e dare pace”.

Il film Poveda è disponibile in DVD con sottotitoli in italiano.

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Titolo Originale: Poveda
Paese: Spagna
Anno: 2016
Regia: Pablo Moreno
Sceneggiatura: Pedro Delgado, Pablo Moreno
Produzione: Goya Producciones
Durata: 116
Interpreti: Alejandro Arroyo, Miguel Berlanga, Natalia Bilbao

per ogni approfondimento http://www.familycinematv.it/

 

 

Fonte: https://it.zenit.org/articles/pedro-poveda-storia-di-un-martire-della-carita/

DA SBATTEZZATO A EVANGELIZZATORE

Crocifisso

Capello corto, barba incolta, occhio vispo e un abbigliamento decisamente alternativo, semplice ma fuori dagli schemi dettati dalla moda e dalla società. Ha una parlantina vivace e nell’ascoltarlo sembra di trovarsi di fronte a quegli oratori dell’antica Grecia che con zelo e passione affascinavano le piazze con il loro sapere. Quest’arte, a differenza di oggi che viene spesso affibbiata alla classe politica con un’accezione negativa, era un vero e proprio mestiere e Maurizio Elia Spezia oggi 34enne potrebbe essere uno di quei retori che lungo la strada della conoscenza ha fatto una vera e propria inversione di marcia.

All’età di 21 anni decide di andare a vivere da solo, lavora come metalmeccanico e cura il blog “Il bisbetico indomabile”, un nome che la dice lunga sul suo temperamento frizzante ed energico. In quegli anni, affascinato dal mondo della politica, delle ideologie moderne e da quanto i media proponevano come “verità assoluta”, Maurizio si allontana dalla Chiesa iniziando a nutrire un vero e proprio odio per essa. “Credevo non ci fosse nulla di buono, anzi al contrario ero certo che fosse un istituzione cattiva, che Dio fosse un invenzione e Gesù solo un personaggio che non avesse nulla a che fare con la mia storia”.

Così, mentre le domande nella sua vita si moltiplicavano e le risposte diminuivano, nel 2010 decide di compiere un gesto concreto per prendere definitivamente le distanze dalla Chiesa. Attraverso internet riesce ad ottenere dei moduli con i quali si può chiedere lo “sbattezzo”, si tratta fondamentalmente di una pratica burocratica che non ha il potere di togliere il sacramento ma permette alla persone che lo desiderano di rivendicare il proprio “ateismo”.

Dal momento in cui ha ricevuto la conferma del buon esito di questa procedura, in Maurizio inizia a farsi sempre più pressante il bisogno di approfondire quel desiderio di verità che lo animava e che si scontrava continuamente con un razionalismo spietato, non sempre capace di soddisfare la sua sete di senso. Intanto con alcuni giovani della sua età portava avanti il gruppo “Lo sai”, uno spazio dedicato a temi di attualità che aveva ed ha l’unico obiettivo di informare. E’ in questo frangente che avviene quella che Maurizio chiama una “conversione di logica”, uno schiaffo a chi ritiene che la fede sia solo una questione di rosari e preghiere; certamente ne fanno parte, ma la religiosità coinvolge l’uomo nella sua totalità, toccando non solo il cuore ma anche la mente. Preparando un tema che avrebbe dovuto affrontare con i suoi amici, intuisce di trovarsi di fronte ad una scelta profonda e radicale. “Dovevo scegliere da che parte stare, quale strada intraprendere, se quella del bene o del male”.

L’incontro con il Signore per Maurizio è avvenuto nell’intimità della coscienza: Dio lo attendeva ad un bivio, quella decisione che è alla radice della storia, dell’uomo e della sua esistenza. Una possibilità apparentemente banale ma potentissima nei suoi effetti. Così qualcosa in lui comincia a muoversi e gradualmente si risveglia nel suo cuore il desiderio di tornare alla Chiesa, quella stessa che aveva combattuto con forza sembrava essere ora il posto dove il bene, il sommo bene, aveva origine.

Nell’arcidiocesi di Milano conosce Don Piero, un sacerdote che accompagnerà lui e la sua fidanzata in un cammino di riammissione alla Chiesa Cattolica. Questo percorso culminerà il 13 settembre 2014, data in cui Maurizio, proprio come nella parabola del Figlio Prodigo, torna a casa da quel Padre che gli aveva lasciato prendere la sua parte di eredità: i talenti dell’intelligenza e della sapienza con cui in qualche modo ha cercato la felicità. Sperimentando che da solo però non era capace di trovarla pienamente, Maurizio, col passo di chi sa tornare si avvia verso “casa”.

Quel giorno è solo l’inizio di una conversione che quotidianamente si rinnova e che, come dice lui “non finisce mai”. Ha avuto inizio mettendo da parte l’orgoglio, di chi crede di aver capito tutto, e si è concretizzato affidando la propria vita nelle mani di Qualcun’altro. La speranza, sottolinea Maurizio “è quella di poter riuscire ad imitare Cristo” che ha saputo amare totalmente, fino alla fine.

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fonte: http://www.interris.it/2015/07/14/66297/posizione-in-primo-piano/schiaffog/da-sbattezzato-a-evangelizzatore.html

Fu martirio, Oscar Romero sarà beato

Il postulatore monsignor Paglia: ecco la verità storica su un pastore fedele

da Avvenire (http://www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/Il-postulatore-monsignor-Paglia-ecco-la-verita-storica-su-un-pastore-fedelebr-.aspx)

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«Romero è il primo grande testimone della Chiesa del Concilio. Il riconoscimento sancito dal Papa del suo martirio in odio della fede è dirimente, non lascia più spazio né a riserve sulla natura del suo agire, né a interpretazioni strumentali della sua figura». Lo afferma monsignor Vincenzo Paglia, postulatore della causa dal 1996, in questa intervista esclusiva ad «Avvenire» che sarà pubblicata nell’edizione di mercoledì 4.

Papa Francesco ha autorizzato oggi, martedì 3 febbraio, la promulgazione del decreto di beatificazione di Romero. Sono passati ventidue anni dall’inizio della causa. Perché è trascorso così tanto tempo?
«La figura del vescovo Romero divenne da subito oggetto di strumentalizzazioni politiche. Una simile situazione comportò pertanto la necessità di esaminare contestualmente la condotta e soprattutto gli scritti di Romero per arrivare alla verità storica della sua azione nella difficile e controversa situazione salvadoregna del suo tempo. Il percorso, quindi, è stato segnato da soste, sospensioni e altre misure dilatorie».

Ci sono state riserve di carattere dottrinale?
«Dopo l’inizio della fase romana del processo, nel 1998 la Congregazione per la dottrina della fede prese l’esame del caso».

E quali sono stati i risultati?
«Il risultato finale dello studio delle testimonianze processuali, dei documenti e delle oltre cinquantamila carte dell’archivio di Romero è che il suo pensiero teologico era “uguale a quello di Paolo VI definito nell’esortazione Evangelii nuntiandi”, come rispose egli stesso nel ’78 a chi gli chiedeva se appoggiasse la teologia della liberazione. E che, in sostanza, in un contesto storico caratterizzato da estrema polarizzazione e da cruenta lotta politica, si scambiò per connivenza con l’ideologia marxista la difesa concreta dei poveri, che Romero sosteneva non per vicinanza alle idee socialiste ma per fedeltà alla Tradizione, la quale da sempre riconosce la predilezione dei poveri come scelta stessa di Dio».

Come si è arrivati a stabilire che la sua uccisione è stata in odio della fede?
«Si è dimostrato che l’odio profondo della repressione oligarchica che armò la mano dell’assassino di Romero (“ex parte persecutoris”) era motivato solo dall’amore mostrato dal vescovo per la giustizia e la difesa dei poveri, degli indifesi e degli oppressi. Un odio che si riversò barbaramente anche su altri membri della Chiesa. In definitiva Romero pagava non una partecipazione politica in un contesto violento di guerra civile, ma una opzione totalmente evangelica. Si è inoltre dimostrato (“ex parte Servi Dei”) che Romero è stato un vero pastore che ha dato la vita per il suo gregge e subì la morte per coerenza con la fede, con la dottrina e il magistero della Chiesa. La sua disposizione a dare la vita si è compiuta all’altare della mensa eucaristica. E questa immagine finale di Romero è quella che lo qualifica. San Giovanni Paolo II affermò a riguardo: “Lo hanno ucciso proprio nel momento più sacro, durante l’atto più alto e divino… mentre esercitava la propria missione santificatrice offrendo l’Eucaristia”».

Dopo l’icona del Romero “militante” non c’è però il rischio di farne ora una solo “spirituale”?
«Il riconoscimento sancito dal Papa del suo martirio in odio della fede è dirimente, non lascia più spazio né a riserve sulla natura del suo agire, né a interpretazioni strumentali della sua figura. Un ritratto di Romero aderente alla realtà è quello che mi ha lasciato in una testimonianza scritta Gustavo Gutierrez: “Monsignor Romero è stato anzitutto un pastore, questa è la prima condizione che appariva fin dal primo contatto con lui. È stato un testimone autentico della verità evangelica, con una formazione spirituale e teologica che possiamo dire tradizionale. Non era una persona che stava alla mercé delle opinioni altrui, non era manipolabile. La sua fede lo portava a discernere i punti di vista e le realtà che gli si presentavano. È stato un uomo libero. La ragione di questa libertà stava nel suo senso di Dio, che gli permise di conservare la serenità anche davanti alla morte”».

Si parlò allora di una “conversione” di Romero: da prete conservatore a rivoluzionario…
«Subito dopo la sua elezione ad arcivescovo di San Salvador, Romero assistette a un’escalation della violenza: quella repressiva del governo militare e quella eversiva dei gruppi di guerriglia rivoluzionaria. I suoi preti vengono trucidati, torturati. Di fronte a questo clima di violenza e di persecuzione della Chiesa, Romero reagisce da vescovo e chiede con forza giustizia alle autorità, il rispetto per i diritti umani e comincia a denunciare pubblicamente le atrocità e le ingiustizie. Protegge gli oppressi, il clero e i fedeli perseguitati, e lo fa proprio in forza degli insegnamenti dei Padri della Chiesa e attraverso il magistero conciliare e pontificio. Pochi mesi prima di morire, quando un giornalista venezuelano gli rifà l’ennesima domanda sulla sua conversione da “prete in talare” a pastore militante sbilanciato in politica, risponde: “La mia unica conversione è a Cristo, e lungo tutta la mia vita”. Certamente l’assassinio di padre Rutilio Grande, suo amico fraterno, determinò in lui uno spirito di “fortaleza”, come la chiamò egli stesso. Una coscienza di dover agire in quel momento con più coraggio come “defensor civitatis”, richiamando all’amore evangelico nella vita sociale».

Chi era questo prete?
«Era un gesuita. Ma non apparteneva al gruppo dei gesuiti intellettuali, accademici, che teorizzavano il cambiamento culturale e politico del Paese. Padre Rutilio aveva scelto la periferia, viveva in mezzo ai campesinos. Romero sottolineava particolarmente la motivazione d’amore che aveva guidato Rutilio nel suo lavoro pastorale: “L’amore vero è quello che porta Rutilio Grande alla morte mentre dà la mano a due contadini. Così ama la Chiesa. Non per ispirazione rivoluzionaria ma per ispirazione d’amore”. Quello che Romero fece proprio di quel sacerdote missionario è la conversione pastorale conforme al paragrafo 28 della “Evangelii nuntiandi”. “Finché non si vive una conversione del cuore tutto sarà debole, rivoluzionario, passeggero, violento. Non cristiano” aveva detto nell’omelia al funerale del gesuita. Quando incontrai Papa Francesco, poco dopo la sua elezione, egli mi sollecitò subito ad andare avanti con la causa di Romero, anzi mi disse di correre… e mi parlò anche dell’importanza di padre Rutilio Grande, che egli aveva conosciuto, attraverso il quale si comprende a fondo l’azione pastorale di Romero».

Un’agire pastorale che spesso però incontrava opposizioni da parte del nunzio e di altri nell’episcopato…
«Come scrive Romero nel diario, riferendosi ad alcuni confratelli, “la fedeltà a questo popolo così paziente che essi non riescono a comprendere è tra le cose essenziali”, e sulla quale egli non poteva cedere. Il rapporto con il Papa costituiva un riferimento essenziale e decisivo per identificare le sue responsabilità e modellare la sua fisionomia di vescovo sulle esigenze del Vangelo, del Concilio e del magistero. Fin dal primo incontro con Paolo VI egli ricevette sostegno a proseguire con coraggio nella sua difficile missione, ostacolata da incomprensioni, contrasti e calunnie verso la sua persona. Venti giorni prima della morte aveva detto in una predica: “Per me il segreto della verità e dell’efficacia della mia predicazione è stare in comunione con il Papa”. Anche con l’espressione di questa fedeltà ha vissuto pienamente il suo motto episcopale: “Sentire cum ecclesia”».

Che cosa caratterizza il caso di Romero rispetto ai tanti martiri del Novecento?
«La Chiesa ha canonizzato molti martiri dei regimi totalitari del comunismo e del nazismo. La vicenda martiriale di Romero s’inserisce nelle persecuzioni della Chiesa dell’America latina negli anni Settanta-Ottanta. Romero, come altri sacerdoti, è stato ucciso da un sistema oligarchico formato da persone che si professavano cattoliche e che vedevano in lui un nemico dell’ordine sociale occidentale e di quella che già Pio XI, nella “Quadrigesimo anno”, chiama “dittatura economica”. È stato il primo esempio noto in questo senso».

Qual è oggi l’opportunità di questa beatificazione? Cosa può significare per il tempo presente e futuro della Chiesa?
«Mi ha sempre impressionato il fatto che Romero pur essendo arcivescovo, primate della Chiesa salvadoregna, preferì abitare non nella residenza episcopale ma nella casa del portiere di un ospedaletto. Penso che la sua beatificazione, se dopo tante vicende, trova proprio in questo tempo ecclesiale il suo compimento, ciò risponda a un disegno provvidenziale. Romero è un vescovo che con spirito di fortezza ha messo in pratica le beatitudini evangeliche. Ha perseguito la giustizia, la riconciliazione e la pace sociale. Ha sentito l’urgenza di annunciare la Buona notizia e proclamare ogni giorno la Parola di Dio. Ha amato una Chiesa povera per i poveri, viveva con loro, pativa con loro. Ha servito Cristo nella gente del suo popolo. La sua fama di uomo di Dio oltrepassa i confini della stessa cattolicità. È il primo grande testimone della Chiesa del Concilio Vaticano II. Un esempio di Chiesa in uscita. In questo senso credo rappresenti una figura emblematica per la Chiesa di oggi e ne illumini il ministero presente e futuro».

Il Papa ha detto che non celebrerà la sua beatificazione. È stata già fissata la data?
«Papa Francesco, come sua consuetudine, non celebra beatificazioni. Con certezza sarà celebrata prossimamente a San Salvador dal prefetto della Congregazione per le Cause dei santi, il cardinale Amato. La data esatta però non è stata ancora definita».

 

Poveri e diaconia: la testimonianza di Fratel Biagio Conte

fattoria solidale

 

Giovanni Chifari – Dpsa 16 settembre, 2014

 

I poveri li avrete sempre con voi (cf. Mc 14,7; Gv 12,8). Le parole del Maestro, di Colui che ha svuotato se stesso (cf. Fil 2,8) per farsi servo e povero tra i poveri (cf. 2 Cor 8,9) e inizierà il suo ministero terreno fra gli hammei ha aretz “i poveri della terra”, delineano il profilo di una Chiesa, che come ha auspicato Papa Francesco, intende essere “povera per i poveri”.

In un tempo di maggiore consapevolezza della corresponsabilità dei laici alla missione della Chiesa, non mancano le testimonianze profetiche che provocano le nostre coscienze e interpellano il livello della nostra conversione.

Fra le diverse segnalazioni, intendiamo qui parlare di quella di Biagio Conte, laico, che nel 1993 ha  fondato a Palermo la missione “Speranza e carità”. Oggi, 16 settembre, giorno in cui il missionario compie 51 anni.

Una scelta frutto di un intenso cammino spirituale, che lo ha visto nel 1990, all’età di 27 anni, lasciare il lavoro all’impresa edile di famiglia per la vita eremitica nelle montagne siciliane. Successivamente andrà a piedi in pellegrinaggio ad Assisi, per cercare luce e conforto presso il Poverello stigmatizzato. Al suo ritorno a Palermo, diviene chiaro il progetto. Il Signore non gli chiedeva di partire missionario per l’Africa ma di essere missionario presso il popolo palermitano e quanti versavano in situazioni di marginalità. Si farà povero con i poveri, abitando con loro presso la stazione centrale del capoluogo siculo, condividendo il loro disagio, la loro marginalizzazione. Ben presto si uniranno alcuni volontari. La difesa dei diritti dei poveri, gli scioperi e le richieste, porteranno qualche anno dopo la concessione di alcuni locali in Via Archirafi, dove sorgerà la missione che oggi ospita centinaia di poveri. Una diaconia della speranza, che solleva chi è nella polvere e rialza chi è oppresso e sfiduciato, ma anche di carità, di aiuto concreto perché nel povero c’è Cristo.

I poveri con la loro oppressione e marginalizzazione, con lo scandalo umano e sociale che vivono e testimoniano, non solo a livello civile ma anche sul versante ecclesiale esercitano un’opera di risveglio della memoria, rafforzando la consapevolezza di un’identità, come auspica Papa Francesco, da vivere in modo più autentico. In un certo modo essi sono strumenti della grazia divina, contribuendo a quella fastidiosa opera di puntellamento di una coscienza troppo assopita che a volte tende a manifestare tutto il suo disagio nel legare insieme i valori percepiti con chiarezza nella fase del discernimento con la scelta dei comportamenti corrispondenti sul piano etico.

A riguardo scrive Léon Bloy, commentando un noto passaggio evangelico: «“Voi avrete sempre dei poveri fra di voi”. Dopo l’abisso di questa parola, nessun uomo ha mai potuto dire che cosa sia la povertà… Quando si interroga Dio, egli risponde che è proprio lui il Povero: “Ego sum pauper”» (Léon Bloy, La donna povera, II, 1). L’unione con Dio, ci fa allora poveri. Essa si manifesta gradualmente attraverso la conversione, l’esser trovati umili (cf. Lc 1,48), la spoliazione e l’abbassamento che rendono la preghiera del discepolo, una preghiera povera: «La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata» (Sir 35,21). Ogni certezza e consolazione proveniente da una giustizia terrena, essendo paragonabile al valore quasi idolatrico di una ricchezza, e occupando ogni spazio nel cuore (cf. Mt 6,21), rallenta l’opera di conversione. A chi confidava nelle ricchezze, giustamente il profeta Amos può gridare: «Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria!» (Am 6,1). Gli spensierati sono appunto i ricchi e i potenti che non considerano il grido dei poveri.

6aUna Chiesa povera per i poveri, come auspica Papa Francesco, vive allora in una permanente spiritualità eucaristica. Guidata dalla sana e costante custodia della Parola, riesce a riconoscere il sacrificio di Cristo e lo vive come memoriale, trovando in questo mistero d’amore la sorgente della propria diaconia, imparando a dividere il pane con l’affamato, a introdurre in casa i miseri e senza tetto, vestire gli ignudi, senza trascurare nessuno (cf. Is 58,7). Un legame tra Parola, altare e servizio che, secondo le parole del Maestro, trova come paradigma ancora una volta i poveri.

«Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,35-36).

L’oggi della missione

Dopo ventuno anni, proprio in questi giorni, di fronte all’indifferenza delle pubbliche istituzioni e dinanzi alla ricezione di una cartella esattoriale con un ingente debito da pagare, Biagio Conte ha deciso di lasciare la missione e tornare sulla montagna per pregare, per ricercare la comunione con il Signore, sul Monte Grifone, sopra la parte orientale della città. Lì cercherà di discernere la volontà di Dio in questi tempi difficili e complessi per quanti si trovano a convivere con una crisi sempre più avvolgente. È andato via non senza lasciare un segno. Si è caricato di una croce e ha attraversato a piedi la città, di fronte agli attoniti cittadini, fino a disperdersi sull’ascesa al monte. Un segno che intende scuotere città e istituzioni. Prontamente un equipe costituita dal Sindaco Leoluca Orlando, il Card. Romeo e altri hanno aperto un tavolo di trattative per farsi carico dei poveri della missione. Il Card. Romeo il 6 gennaio del 2011 ha consegnato alla Missione il decreto di erezione ad associazione pubblica di fedeli

L’accoglienza in Missione

la Missione accoglie ed assiste circa 800 persone grazie all’operato  dei missionari: Fratel Biagio, Don Pino, Fratello Giovanni, Sorella Mattia, Sorella Alessandra e Sorella Lucia, alla collaborazione fattiva degli stessi fratelli e sorelle accolti e il grande aiuto di oltre 400 volontari.

Ogni comunità è dotata di una cucina e di una mensa dove vengono distribuiti tre pasti al giorno (complessivamente circa 2.400 pasti al giorno); è inoltre garantita un’assistenza medica e farmaceutica per tutti i fratelli accolti e dei servizi docce e vestiario per i tanti poveri che ogni giorno bussano alla porta della Missione.

Una Missione tre comunità

la Missione di Speranza e Carità opera in tre comunità: due destinate all’ accoglienza maschile e una per l’accoglienza di donne singole o mamme con bambini.Le strutture in cui opera la Missione si trovano a Palermo, vicino alla Stazione centrale, sono state trovate in uno stato di grave incuria e degrado, in quanto abbandonate e inutilizzate da decenni (alcuni locali erano dei veri e propri ruderi con il tetto crollato!). Gli stessi fratelli accolti e tanti volontari, gruppi e associazioni, con grande spirito di solidarietà hanno iniziato “una pietra dopo l’altra”, come insegna San Francesco, il restauro e la ricostruzione dei locali, trasformando dei ruderi, in case di accoglienza, pace e speranza.

Giovanni Chifari

La lettera di James Foley, soldato USA decapitato dall’ISIS

 

di Benedetta Frigerio – Tempi 21 agosto 2014

Il giornalista americano James Foley, decapitato dai jihadisti, era stato prigioniero nel 2011 delle forze filo governative libiche. Detenuto a Tripoli fu liberato dopo 45 giorni di carcere, decidendo poi di scrivere una lettera per la rivista dell’università cattolica Marquette di Milwaukee, da lui frequentata.

«COME MIA MADRE». Nato in una famiglia cattolica di Boston, Foley raccontò: «Io e i miei colleghi fummo catturati e detenuti in un centro militare di Tripoli». Ogni giorno, spiegava il giornalista, «aumentava la preoccupazione per il fatto che le nostre mamme potessero essere in panico». E anche se «non avevo pienamente ammesso a me stesso che mia mamma fosse a conoscenza di quello che mi era successo», Foley ripeteva a una collega che «mia mamma ha una grande fede» e che «pregavo che sapesse che stavo bene. Pregavo di riuscire a comunicare con lei». Il giornalista raccontò di quando «cominciò a dire il rosario», perché «era come mia madre e mia nonna avrebbero pregato (…). Io e Clare (una collega, ndr) iniziammo a pregare ad alta voce. Mi sentivo rinfrancato nel confessare la mia debolezza e la mia speranza insieme e conversando con Dio, piuttosto che stare solo in silenzio».

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LA FORZA DEGLI AMICI. I giornalisti poi furono trasferiti in un’altra prigione dove si trovavano i prigionieri politici, «da cui fui accolto e trattato bene». Dopo 18 giorni accadde un fatto che Foley non si seppe spiegare, fu prelevato dalla cella dalle guardie e portato nell’ufficio del guardiano «dove un uomo distinto e ben vestito mi disse: “Abbiamo pensato che forse volevi chiamare la tua famiglia”. Dissi una preghiera e composi il numero». La linea funzionava e la madre del giornalista rispose: «Mamma, mamma sono io, Jim», disse il ragazzo. «Sono ancora in Libia, mamma. Mi dispiace di questo. Perdonami». La donna incredula rispose al figlio che non doveva dispiacersi e gli chiese come stava: «Le dissi che mi nutrivo, che avevo il letto migliore e che mi trattavano come un ospite». Foley aggiunse: «Ho pregato perché sapessi che stavo bene. Hai percepito le mie preghiere?». La donna rispose: «Jimmy tante persone stanno pregando per te. Tutti i tuoi amici Donnie, Michael Joyce, Dan Hanrahan, Suree, Tom Durkin, Sarah Fang che ha chiamato. Tuo fratello Michael ti vuole molto bene». Poi la guardia fece un cenno e il ragazzo dovette salutare la madre.

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«LA MIA LIBERTA’». «Ho ripetuto la chiamata nella mia testa centinaia di volte, la voce di mia madre, i nomi dei miei amici, la sua coscienza della situazione, la sua assoluta certezza nel potere della preghiera. Mi disse che i miei amici si erano riuniti per fare tutto quello che potevano per aiutare. Sapevo di non essere solo». Infine, concluse Foley: «Nella mia ultima notte a Tripoli mi sono potuto connettere a internet dopo 44 giorni e sono riuscito ad ascoltare un discorso di Tom Durkin fatto per me (…). In una chiesa piena di amici, alunni, sacerdoti, studenti e docenti ho visto il miglior discorso che un fratello potrebbe fare per un altro (…). Era solo un assaggio degli sforzi e delle preghiere di tante persone. Se non altro, la preghiera è stato un collante che ha permesso la mia libertà, una libertà interiore prima e dopo il miracolo di essere rilasciato».

Torturato e ucciso perché non si converte all’Islam

Non si converte all’islam: cristiano irakeno torturato e ucciso da miliziani dello Stato islamico

Da oltre tre settimane Salem Matti Kourk era barricato in casa per sfuggire agli islamisti. Terminate le scorte, egli è uscito in cerca di cibo ed è stato fermato, picchiato a morte e abbandonato in strada. Per il Patriarcato caldeo è “un altro martire, vittima della follia estremista”. Nella capitale un’autobomba uccide un giovane studente della comunità siro-cattolica.

 

AsiaNews 02/09/2014

 

Baghdad  – In Iraq nuovo sangue cristiano viene versato per mano delle milizie dello Stato islamico, che hanno avviato da tempo una “persecuzione continua” contro civili inermi, fra cui bambini. Fonti del Patriarcato caldeo riferiscono ad AsiaNews che ieri a Bartalah, una cittadina a maggioranza siriaca della piana di Ninive occupata da settimane, i fondamentalisti sunniti hanno torturato e ucciso un cristiano; egli era parte di un piccolo gruppo, che ha deciso di rimanere nelle proprie case all’arrivo dei miliziani jihadisti. Secondo quanto riferisce un testimone, il “martire” – come viene definito dal Patriarcato – è un uomo di 43 anni, Salem Matti Kourki, deceduto ieri in seguito alle torture e alle violenti percosse subite dai terroristi, per essersi rifiutato di convertirsi all’islam.

Uno dei familiari di Salem spiega che l’uomo, affetto da problemi cardiaci, non ha potuto abbandonare la cittadina di Bartalah assieme alla famiglia, al momento dell’invasione degli islamisti, l’8 agosto scorso. Egli è rimasto rintanato all’interno della propria abitazione per oltre tre settimane, alimentandosi grazie alle poche scorte accumulate nella dispensa. Ieri, 1 settembre, avendo terminato cibo e acqua, egli è uscito di casa dopo un lungo periodo per recuperare qualche genere alimentare con cui nutrirsi.

Tuttavia, egli si è imbattuto in un punto di controllo dell’Is di fronte alla chiesa della Vergine Maria, in pieno centro cittadino, ed è stato subito arrestato. I miliziani hanno cercato di convertirlo (a forza) all’islam, ma egli ha opposto un netto rifiuto. I fondamentalisti lo hanno picchiato e torturato, fino a provocarne la morte, per poi abbandonarlo in strada. Il suo cadavere è stato rinvenuto qualche ora più tardi da alcuni arabi della cittadina, che lo hanno prelevato e sepolto.

Per onorare al meglio la memoria del “martire” Salem, il prossimo 5 settembre nella chiesa siro-ortodossa di Oum El Nour ad Ankawa, sobborgo cristiano di Erbil, nel Kurdistan irakeno, si terrà una cerimonia funebre.

Intanto si contano nuove vittime cristiane anche nella capitale, Baghdad. Secondo quanto riferisce mons. Pius Qasha Khoury, della chiesa siro-cattolica di Mansour/Baghdad, uno dei parrocchiani è stato ucciso nell’esplosione di un’autobomba. L’ordigno è esploso nell’area di Bayaa, alle 9 di sera di ieri, primo settembre. Il prelato ha inoltre aggiunto che il giovane “martire” Fadi Nabil Ibrahim Abbush era nato nel 1994 e frequentava il secondo anno del college. Il ragazzo era conosciuto all’interno della comunità della capitale per il buon carattere, l’impegno e la partecipazione assidua – assieme a tutta la famiglia – alle attività della chiesa locale.

Mirella Solidoro. Comincia il processo di canonizzazione.

Alle radici della santità

Mirella Solidoro era di Taurisano, nel Salento. Visse un lungo calvario, a causa di un tumore. Si spense ad appena 35 anni. Un’esistenza intessuta di fede e di speranza, nonostante tutto. Domenica una Messa per ricordare la sua nascita avvenuta il 13 luglio 1964. Comincia il processo di canonizzazione.

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Nicola Lavacca – Famiglia Cristiana 11/07/2014

 

La sua giovane esistenza è stata logorata dal martirio. Antonia Mirella Solidoro vissuta soltanto 35 anni, lungo il suo tormentato cammino di sofferenza si è consegnata completamente nelle mani del Signore dando agli altri conforto e coraggio. Nata il 13 luglio del 1964 a Taurisano, cittadina del Salento, è stata un fulgido esempio di santità per quella straordinaria e immensa forza interiore che, pur fra tanti patimenti, era per molti l’ancora di salvezza.

Domenica 13 luglio, in occasione del 50° anniversario della sua nascita, nella chiesa parrocchiale Santi Martiri Giovanni Battista e Maria Goretti verrà celebrata una Messa in suffragio da monsignor Vito Angiuli, vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca che il 4 marzo scorso ha emanato un editto per la causa di canonizzazione che comincerà il primo ottobre prossimo. Mirella Solidoro, che la Chiesa ha già riconosciuto essere  “Serva di Dio”, ha sempre avuto una spiritualità profonda che cominciò a manifestare sin da piccola. A 9 anni i primi segnali della malattia, con continui e forti mal di testa. Cominciò così il suo calvario. Il 28 settembre del ’79 venne sottoposta a un intervento di craniotomia il cui esito rivelò una diagnosi impietosa: aveva un tumore congenito praticamente impossibile da esportare. Era appena quindicenne quando le sue condizioni si aggravarono fino alla perdita della vista. Fu così costretta per vent’anni a stare in un letto, accudita da mamma Maria, dalle sorelle Anna Rita e Maria Lucia, dai fratelli Antonio e Cosimo tuttora viventi.

Il male che l’affliggeva era inesorabile, lacerante. Eppure, viveva la malattia “non come un castigo del Signore, ma come una grazia di Dio”. Meditava su Gesù, componeva preghiere e poesie, riceveva la gente comune e si faceva carico dei loro problemi, delle loro sofferenze infondendo speranza. Mirella, per un paio di anni poco prima della sua morte avvenuta il 4 ottobre del 1999 affermò anche di aver ricevuto alcuni messaggi da parte del Signore e della Madonna. La salma di Mirella Solidoro, traslata dal cimitero l’8 aprile del 2011, si trova in un sarcofago della chiesa parrocchiale Santi Martiri Giovanni Battista e Maria Goretti di Taurisano diventata meta di pellegrinaggio di tanti devoti provenienti da ogni parte d’Italia e persino dalla Spagna, dagli Stati Uniti, dalla Russia. Ogni anno il 5 ottobre viene celebrata una Messa in suffragio.

Don Napoleone De Seclì fu il confessore di Mirella negli ultimi cinque anni della sua vita. “Il 5 agosto del ’95 mi venne affidata la parrocchia anche se la chiesa Santi Martiri Giovanni Battista e Maria Goretti non era stata ancora costruita (i lavori durarono cinque anni e venne consacrata nell’ottobre del 2003, ndr.). Svolgevo la mia attività ecclesiale nella chiesetta della Madonna della Strada. Avevo sentito parlare di una ragazza non vedente che parlava al cuore della gente. Andai a trovarla senza farmi annunciare. Appena entrai nella sua stanza, la salutai e lei pur non conoscendomi rispose: “Ciao don Napoleone”. Rimasi sbalordito. Aveva il sorriso sulle labbra ed emanava tanta serenità. Poi aggiunse: “Pregherò per la gente della sua parrocchia e per far costruire la nuova chiesa. Quando Papa Francesco dice che dobbiamo piegarci sulle fragilità umane mi sembra di risentire e rivedere quello che faceva Mirella. Lei spesso mi confidava di essere orgogliosa di unire le sue sofferenze a quelle di Cristo per la salvezza del mondo. Il giorno del suo funerale avvenne un fenomeno straordinario che mi fu raccontato da alcune persone. Al cimitero, prima della sepoltura, la bara fu scoperchiata per l’ultimo saluto. In quel momento si sprigionò un intenso profumo di rose”.

La sua grande testimonianza di fede, la sua generosità verso gli altri, l’amore per il prossimo nonostante il calvario ha lasciato un segno profondo in quanti l’hanno conosciuta. Il 15 dicembre 2007 la Conferenza episcopale pugliese ha dato parere favorevole per avviare la causa di canonizzazione e beatificazione, mentre il 3 marzo del 2008 è arrivato il nulla osta da parte della Congregazione per le Cause dei Santi. Il 12 marzo 2009 l’allora vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, Vito De Grisantis nominò come postulatore diocesano per la causa in corso padre Cristoforo Aldo De Donno. Mirella Solidoro diventò Serva di Dio. “In questi anni, insieme a don Napoleone, ho raccolto tutti i documenti necessari per il processo di canonizzazione” – spiega padre Cristoforo del Convento San Francesco di Manduria.

“Ho messo insieme gli scritti di Mirella quando dettava alle persone più care i suoi versi, le sue poesie. Ci sono poi le testimonianze di coloro che l’hanno conosciuta ricevendo conforto e anche alcune grazie. Il primo ottobre prossimo, con una solenne cerimonia, si aprirà ufficialmente la causa di canonizzazione in cui saranno ascoltati una settantina di testimoni. Tutti coloro che sono in possesso di documenti riguardo Mirella possono consegnarli sia a me che al vescovo Vito Angiuli. Mirella è stata una ragazza davvero eroica, soprattutto nella sofferenza. Non si risparmiava mai, era instancabile nell’ascoltare gli altri, specialmente quando incontrava i giovani e i bambini. Con la sua dolcezza conquistava tutti”.

Africa, «oggi terra di martiri»

cristiani-martiri in africa

Continua la strage dei cristiani. Il Direttore di Missioni Consolata: riscoprire questa storia di fede nel sangue, sulla scia di Paolo VI che canonizzò i Santi d’Uganda GEROLAMO

FAZZINI – Vatican Insider 9/07/2014

MILANO Il 9 luglio 1989, esattamente 25 anni fa, nei pressi della cattedrale, veniva ucciso monsignor Salvatore Colombo, vescovo di Mogadiscio, capitale della Somalia. Con ogni probabilità il responsabile (a oggi impunito)  va cercato nelle file dei fondamentalisti musulmani. A un quarto di secolo di distanza, sono gli estremisti islamici del famigerato gruppo Boko Haram a seminare morte in Nigeria e nelle zone confinanti. L’ultima strage è di pochi giorni fa: un centinaio di vittime sono morte dopo l’incendio di alcune chiese dei villaggi nei dintorni di Chibok, la stessa località (nel nord-est del paese) dove lo scorso aprile sono  state rapite 270 studentesse. Insomma: «L’Africa di oggi è terra di martiri». Lo scrive a chiare lettere padre Gigi Anataloni, direttore di Missioni Consolata nell’editoriale dell’ultimo numero del mensile. Continua Anataloni, che in Africa ha svolto lunghi anni di ministero, sempre nel campo dei media: «Dall’Egitto alla Libia, dalla Somalia al Centrafrica, dalla Nigeria al Kenya, dal Sudan alla Sierra Leone, dal Rwanda alla Rd Congo (e l’elenco non è completo), migliaia di cristiani testimoniano, a prezzo della vita, la loro fede nel Dio di Gesù Cristo».

Poi il j’accuse: «Ogni tanto qualche nome attira l’attenzione dei media, come quello di Meriam, la madre sudanese, o quelli dei due missionari rapiti e liberati in Cameroon. La maggior parte, centinaia (forse addirittura migliaia) di cristiani spariscono nell’anonimato dei massacri di massa o dell’indifferenza generalizzata». In effetti, a parte alcune pubblicazioni specialistiche (da ricordare quelle a firma del comboniano Neno Contran, missionario e giornalista), il martirologio africano è poco noto. «Per anni l’Africa è stata timida a parlare dei suoi martiri – osserva Anataloni – Chi ha mai sentito parlare dei 149 “martiri di Mombasa”, uccisi nel 1631? Chi ha mai considerato come martiri gli innumerevoli cristiani uccisi nei secoli in Egitto o quelli rapiti, venduti e schiavizzati in Etiopia? E le vittime dei Simba (1964) in Congo? I 70 martiri Kikuyu uccisi dai Mau Mau tra il 1951 e il 1954? E i martiri di Guiua in Mozambico (uccisi tra il 1975 e il 1992)?».

Ora – sottolinea padre Anataloni – si presenta un’occasione speciale per riscoprire questa storia luminosa di fede e di sangue. «L’8 ottobre 1964, cinquanta anni fa, papa Paolo VI dichiarava santi i 22 martiri d’Uganda, uccisi tra il 1885 e il 1887 per ordine di re Mwanga II, e scriveva: “Questi Martiri Africani aggiungono all’albo dei vittoriosi, qual è il Martirologio, una pagina tragica e magnifica, veramente degna di aggiungersi a quelle meravigliose dell’Africa antica, che noi moderni, uomini di poca fede, pensavamo non potessero avere degno seguito mai più. […] Questi Martiri Africani aprono una nuova epoca; oh! non vogliamo pensare di persecuzioni e di contrasti religiosi, ma di rigenerazione cristiana e civile. L’Africa, bagnata dal sangue di questi Martiri, primi dell’èra nuova (oh, Dio voglia che siano gli ultimi, tanto il loro olocausto è grande e prezioso!),  risorge libera e redenta”». Commenta Anataloni: «Paolo VI si augurava un’Africa risorta, libera e redenta. Un auspicio che si scontra ancora oggi con una dura realtà di violenza, sfruttamento, ingiustizie e guerre. Che il sangue di tanti uomini e donne pacifici, nonviolenti, inermi e innamorati di Dio, sia davvero fecondo di pace, giustizia e armonia per tutta l’Africa».

40 Seminaristi Martiri Burundesi

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http://www.santiebeati.it/dettaglio/38100

Buta, Burundi, 30 aprile 1997

Il 30 aprile 1997 vennero assassinati 40 giovanissimi allievi del Seminario di Buta (diocesi di Bururi), appartenenti alle etnie hutu e tutsi, per non essersi voluti separare gli uni dagli altri. Jolique Rusimbamigera, studente nel Seminario di Buta, seppur ferito gravemente scampò al tragico massacro. Un anno dopo rese la seguente testimonianza:”Erano tantissimi, mi sono sembrati cento.

Sono entrati nel nostro dormitorio, quello delle tre classi del ciclo superiore, e hanno sparato in aria quattro volte per svegliarci… Subito hanno cominciato a minacciarci e, passando fra i letti, ci ordinavano di dividerci, hutu da una parte e tutsi dall’altra. Erano armati fino ai denti: mitra, granate, fucili, coltellacci…Ma noi restavamo raggruppati! Allora il loro capo si è spazientito e ha dato l’ordine: “Sparate su questi imbecilli che non vogliono dividersi”.

I primi colpi li hanno tirati su quelli che stavano sotto i letti… Mentre giacevamo nel nostro sangue, pregavamo e imploravamo il perdono per quelli che ci uccidevano. Sentivo le voci dei miei compagni che dicevano: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Io pronunciavo le stesse parole dentro di me e offrivo la mia vita nelle mani di Dio”.

* * *

Dopo i martiri per la fede, quelli della purezza e della carità, dal 30 aprile 1997 abbiamo anche i “martiri dell’amicizia”. In quella data, infatti, 40 seminaristi del Burundi sono stati massacrati in nome dell’amicizia e della fratellanza che volevano difendere a tutti i costi, offrendo così una testimonianza preziosa per il nostro tempo, ancora caratterizzato dalla divisione etnica, dall’odio razziale e dalle discriminazioni.

La “Svizzera dell’Africa” (come un tempo era considerato il Burundi) negli Anni Novanta è attraversata da profondi e sanguinosi scontri tribali, che oppongono la maggioranza etnica prevalente degli Hutu ai minoritari Tutsi. Scandalosamente ciò avviene in un paese al 99% cristiano e per oltre il 75% cattolico. Inevitabile che la situazione dell’intero paese si rifletta anche nelle scuole e nei seminari, con una rigida suddivisione dei dormitori, degli spazi di gioco e delle aule tra le due etnie.

Mentre molti istituti devono chiudere i battenti per le forti tensioni interetniche, il seminario di Buta, nel sud del Burundi. diventa un’isola felice e un concreto esempio di serena convivenza, grazie al nuovo rettore che lavora molto per abbattere le frontiere e per creare un clima di amicizia tra gli studenti. Il suo sapiente accompagnamento spirituale riesce pian piano a far superare il clima di odio e di vendetta che si respira ovunque.

Inutile dire che, se da un lato l’esperienza di questo seminario dimostra con i fatti che l’amore di Cristo è più forte delle barriere razziali, dall’altro finisce per rappresentare il più solenne smacco per i “signori della guerra”, che proprio sull’impossibilità dell’intesa tra hutu e tutsi fondano il loro infernale progetto di violenza e di morte. “Dio è buono e noi lo abbiamo incontrato”, cantano e ripetono i seminaristi, al ritorno da un ritiro nella loro ultima Pasqua che ha fornito basi ancor più solide alla loro spiritualità.

In un clima surreale, con il seminario costantemente presidiato dai militari tutsi, sotto la martellante istigazione alla violenza propagandata dalla televisione, con le notizie a raffica di massacri e genocidi della popolazione civile che fanno vivere in un clima di costante terrore e di preoccupazione per la sorte delle loro famiglie, i seminaristi cercano di farsi vicendevolmente forza e coraggio, cercando di mantenere pressoché inalterato il ritmo delle loro attività e soprattutto la loro unione, al di là dell’odio etnico che la politica cerca di instillare. Tutto questo fino all’alba del 30 aprile 1997, quando i ribelli hutu, ubriachi e drogati, irrompono nel dormitorio in cui tutti i seminaristi si sono rifugiati: stanno attuando non solo un’operazione di rappresaglia e di pulizia etnica, piuttosto vogliono dimostrare come sia stata fallimentare l’idea di far convivere le due etnie, convinti come sono che l’esperimento non possa reggere di fronte alla minaccia di morte. Per questo ordinano ai ragazzi, armi in pugno,  di dividersi in due gruppi, Hutu da una parte e Tutsi dall’altra.

I ragazzi non si muovono: non perché paralizzati dalla paura, piuttosto perché convinti che di fronte all’amicizia non si possono fare distinzioni etniche: l’amico resta tale, indipendentemente da come te lo vogliano rappresentare. Scornati e forse disorientati dalla inaspettata reazione, gli assassini scatenano l’inferno, mentre i ragazzi, tutsi e hutu indifferentemente, restano abbracciati tra loro, si sostengono a vicenda, si aiutano come possono. “Padre, perdonali, perchè non sanno quello che fanno”, li sentono anche sussurrare Alla fine, su quel pavimento, immersi nel loro sangue, si contano 40 morti: tutti ragazzi tra i 15 e i 20 anni, crivellati di colpi, sventrati dalle granate, finiti con il machete. La loro non è stata una morte casuale, piuttosto il risultato “di un’atmosfera, della cultura, dell’educazione che erano state forgiate da mesi…. Non è in quella notte tragica che quegli studenti hanno scoperto il dramma del loro Paese.

Vi avevano già riflettuto sopra. Il loro comportamento è il prodotto di quella maturazione” , dicono adesso di loro. È per questo che dei “martiri dell’amicizia” o della “fratellanza”  è stata introdotta la causa di beatificazione, mentre sulle loro tombe e nella cappella di quel seminario, da allora intitolata a Maria Regina della Pace, proseguono ininterrottamente i pellegrinaggi dei burundesi che vengono ad invocare la pace per il loro Paese.

Autore: Gianpiero Pettiti

* * *

Ecco i nomi dei 40 seminaristi martiri:

– Jean-Thierry Arakaza
– Bernard Bahifise
– Gilbert Barinakandi
– Alain-Basile Bayishemeze
– Sébastien Bitangwaniman
– Remy Dusabumukama
– Robert Dushimirimana
– Eloi Gahungu
– Léonidas Gatabazi
– Willermin Habarugira
– Désiré Ndagijimana
– Audace Ndayiragije
– Pie Ndayitwayeko
– Pascal Hakizimana
– Joseph Harerimana
– Jean-Marie Kanani
– Pacifique Kanezere
– Adronis Manirakiza
– Jules Matore
– Longin Mbazumutima
– Joseph Muhenegeri
– Jimmy-Prudence Murerwa
– Emery Ndayumvaneza
– Alexis Ndikumana
– Boniface Nduwayo
– Désiré Nduwimana
– Phocas Nibaruta
– Prosper Nimubona
– Diomède Ninganza
– Patrick Nininahazwe
– Egide Niyongabo
– Prosper Niyongabo
– Protais Niyonkuru
– Pasteur Niyungeko
– Alphonse Ntakiyica
– Pierre-Claver Ntungwanayo
– Gédéon Ntunzwenimana
– Lénine Nzisabira
– Oscar Nzisabira
– Gabriel Sebahene


Autore: 
Fabio Arduino

* * *

Il Burundi è un paese dalle dimensioni di una provincia italiana, con una popolazione di 6 milioni di abitanti appartenenti a 3 diverse etnie : Hutu (85%), Tutsi (14%) e TWA (1%). La lingua nazionale è il kirundi. Il 75% della popolazione si professa cattolica, il 24% protestante, mentre i rimanenti sono mussulmani ed animisti.
Il dramma sta nel fatto che coloro che si dicono cristiani si uccidano tra loro per ragioni politico-etniche. Vale a dire che non hanno nel Vangelo un punto di riferimento.
La guerra che imperversa dal 1993 ai giorni nostri a toccato tutti i settori della vita nazionale. I cristiani che tentano di testimoniare la loro fede sono le prime vittime delle sue barbarie. Questi testimoni della fede sono numerosi in un paese che muore in silenzio, dove un genocidio in stile ruandese è sempre rampante.
Questo paese, come tutti gli altri paesi del mondo, ha il diritto di essere amato, ma ahimè, è stato abbandonato nel dimenticatoio della storia.Aldilà dell’odio, della vendetta e dell’ingiustizia, si assiste inoltre alla riuscita dell’opera di Cristo nei suoi piccoli fratelli seminaristi della Chiesa Burundese, martiri della fratellanza cristiana.
Al sorgere dell’alba del 30 aprile 1997, verso le ore 5,30, una banda armata del Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia (C.N.D.D.) attaccò il seminario di Buta percuotendo a morte 40 allievi in un dormitorio in cui le varie etnie erano mescolate.
Si verificò un interessamento generale in tutto il paese e nel mondo intero. Il Santo Padre Giovanni Paolo II inviò un messaggio di condoglianze al vescovo della diocesi di Bururi, rivolte anche a tutta la Chiesa del Burundi in lutto.

In effetti questi 40 seminaristi, di età compresa tra i 15 ed i 20 anni, selvaggiamente assassinati nel sonno mattutino, appartenevano a varie diocesi burundesi. Questo attacco suscitò tante più emozioni di quanto il Seminario di Buta si era reso celebre per la salvaguardia dell’unità tra le due etnie (Hutu e Tutsi) dopo l’inizio della guerra civile, nell’ottobre 1993.
Mentre molte scuole chiudevano le porte ed altre vivevano ossessionate delle stragi interetniche, il Seminario di Buta grazie al particolare sforzo degli educatori e degli stessi allievi restò un’isola di pace nell’oceano di odio e di vendetta in cui viveva il paese.
Ciò che ha stupito molti è il modo in cui questi allievi sono morti. E’ per tale motivo che vengono chiamati i “martiri della fratellanza”.
Un mese prima dell’attacco, tutti i seminaristi ritornavano da un ritiro di particolare profondità svoltosi durante il Triduo Pasquale. La Pasqua era stata celebrata in un clima di euforia e gioia fuori del normale.

Dopo le vacanze, dal 20 al 24 aprile 1997, la classe seconda come ogni anno aveva un ritiro di discernimento vocazionale con i membri Focolare della Carità di Giheta. Al termine del ritiro, questa classe animata da uno spirito del tutto nuovo sembrò aver lanciato il colpo d’inizio della preparazione a questa morte santa di questi innocenti. Pieni di allegria e di gioia, essi non avevano che queste parole sulla bocca: “Dio è buono, noi l’abbiamo incontrato”. Parlavano del Paradiso come se né arrivassero, del sacerdozio come avessero essere ordinati immediatamente. Il loro impegno indefettibile al servizio della Chiesa fino alla morte fu il loro canto.
Qualcosa di molto forte passò dai loro cuori, rendendosene conto, ma senza sapere esattamente cosa. Presero la decisione di parlarne sistematicamente ai loro compagni in modo formale con l’accordo dei superiori. Il Movimento di preghiera abbraccia tutto il seminario. Da tal giorno essi pregheranno, canteranno, danzeranno alla Chiesa felici di aver scoperto un tesoro, il Paradiso come essi dicevano. La vigilia della loro morte molti non lavorarono; piuttosto pregarono, incoraggiando quelli che avevano paura di morire, dicevano che era l’unico modo di arrivare al cielo.

Quando l’indomani gli assassini li sorpresero a letto, ordinarono loro di separarsi, gli “Hutu da una parte ed i “Tutsi” dall’altra. Essi volevano ucciderne solamente una perte, ma i giovani seminaristi si rifiutarono categoricamente, preferendo dunque morire insieme. Il loro progetto diabolico era arenato, gli uccisori si scagliarono dunque sui ragazzi e li massacrarono a colpi di fucili e di granate. Allora si sentirono alcuni allievi cantare Salmi di lode ed altri parlare in lingua madre dicendo: “Perdona loro Signore, perché non sanno quello che fanno”. Altri ancora, anziché combattere o tentare di salvarsi, cercarono piuttosto di aiutare i loro fratelli agonizzanti, sapendo bene che in tal modo li avrebbe attesi la medesima sorte. Coloro che sono scampati a questo massacro testimoniano che i loro compagni morirono in una serenità fuori del comune, in pace, senza angoscia.

La loro morte fu come un passaggio dolce e leggero, senza dolore, senza rumore e senza quella paura che avevano provato alla vigilia. Essi sono morti come “martiri della fratellanza”, onorando così anche la Chiesa del Burundi, che ha perso molte figlie e molti figli a causa dell’odio e della vendetta etnici.

Il 2 maggio 1998 il Seminario Minore di Buta celebrò il termine del lutto per i 44 seminaristi uccisi un anno prima. Sempre in tale giorno, il vescovo di Bururi consacrò durante la Messa una chiesa dedicata alla loro memoria in presenza di una folla immensa composta da parenti delle vittime, preti, religiosi e religiose, amici e conoscenti del Seminario di Buta.
Il memoriale di questi martiri della fratellanza” è stato dedicato a “Maria Regina della Pace”.Erano inoltre presenti a questa festa il Presidente della Repubblica, il Nunzio Apostolico e tre vescovi di altre diocesi.

Da quel giorno il nuovo santuario è divenuto un luogo di pellegrinaggio in cui i burundesi vengono a pregare per la riconciliazione del loro popolo, per la pace, la conversione e la speranza universali.Possa la loro testimonianza di fede, di unità e di fratellanza portare lontano ed il loro sangue divenire un seme per la pace in Burundi e nel mondo intero.
Jolique Rusimbamigera, studente nel Seminario di Buta, seppur ferito gravemente scampò al tragico massacro. Un anno dopo rese la seguente testimonianza, che fu letta anche duarante la commemorazione ecumenica dei Testimoni della Fede del XX secolo presieduta da Giovanni Paolo II il 7 maggio 2000 al Colosseo: “Erano tantissimi, mi sono sembrati cento. Sono entrati nel nostro dormitorio, quello delle tre classi del ciclo superiore, e hanno sparato in aria quattro volte per svegliarci… Subito hanno cominciato a minacciarci e, passando fra i letti, ci ordinavano di dividerci, hutu da una parte e tutsi dall’altra. Erano armati fino ai denti: mitra, granate, fucili, coltellacci… Ma noi restavamo raggruppati!

Allora il loro capo si è spazientito e ha dato l’ordine: “Sparate su questi imbecilli che non vogliono dividersi”. I primi colpi li hanno tirati su quelli che stavano sotto i letti… Mentre giacevamo nel nostro sangue, pregavamo e imploravamo il perdono per quelli che ci uccidevano. Sentivo le voci dei miei compagni che dicevano: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Io pronunciavo le stesse parole dentro di me e offrivo la mia vita nelle mani di Dio”.

Marcello Candia, l’industriale amico dei lebbrosi diventa venerabile

Firmato da Papa Francesco il decreto sulle virtù eroiche dell’imprenditore milanese che negli anni Sessanta vendette la sua azienda per andare a vivere tra i lebbrosi in Amazzonia

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GIORGIO BERNARDELLI

Vatican Insider 9/07/2014

Un imprenditore alla guida di un’impresa florida, che a un certo punto decide di lasciare tutto per mettersi lui stesso, in prima persona, al servizio dei lebbrosi sul Rio delle Amazzoni. È il profilo di Marcello Candia, laico milanese e icona del mondo missionario italiano degli anni Settanta, di cui questa mattina Papa Francesco ha firmato il decreto che riconosce le virtù eroiche. Diventa così venerabile, compiendo il primo importante passo verso la beatificazione. Era nato nel 1916 a Portici, Marcello Candia, in una famiglia dell’alta borghesia milanese: suo padre, il dottor Camillo Candia, era il fondatore della «Fabbrica italiana di acido carbonico dottor Candia & C».

E proprio in quella fabbrica lombarda il giovane Marcello era cresciuto, fino a prenderne il timone dimostrando notevoli capacità imprenditoriali. Ma il successo non gli impedì mai di vedere i bisogni dei poveri: «Io ho ricevuto molto – annotava giovanissimo sul suo diario -, chi ha ricevuto molto deve dare molto». E in questo «dare molto» ci fu fin dall’inizio anche la missione, che aveva scoperto nel 1937, durante una crociera in Brasile. Nella Milano del secondo dopoguerra il dottor Candia fu in prima fila nel sostenere i bisogni degli ultimi, in particolare quelli degli orfani di guerra; ma si fece promotore anche di realtà al servizio dei poveri dei Paesi lontani. A poco a poco – però – in lui cominciò a farsi strada l’idea che il sostegno economico alle missioni non bastasse più: doveva partire anche lui per andare ad aiutare chi aveva più bisogno. Decisivo fu un nuovo viaggio in Brasile, compiuto nel 1957, durante il quale avvenne l’incontro con mons.

Aristide Pirovano, missionario del Pime, vescovo nella prelatura di Macapà in Amazzonia. Fu lì che Candia diede forma alla sua idea: avrebbe venduto tutto per costruire là un grande ospedale. E poi sarebbe andato a vivere anche lui lì, in mezzo ai poveri. La costruzione dell’ospedale a Macapà iniziò nel 1961, ma lui poté arrivarci solo nel giugno 1965; da bravo imprenditore – infatti – si preoccupò prima di sistemare tutti i lavoratori delle sue aziende. Non voleva, però, che l’ospedale fosse considerata la sua nuova impresa: così nel 1975 lo cedette ai Camilliani della provincia del Brasile, affidando interamente a loro la responsabilità della gestione. Lui intanto si era spostato tra i lebbrosi a Marituba, l’«anticamera dell’inferno» che aveva scoperto attraverso i malati di lebbra che arrivavano all’ospedale. Così mobilitò di nuovo i suoi tanti amici in Italia (compresi molti suoi ex operai) per costruire il lebbrosario. E proprio qui nel 1980 ebbe la gioia di accogliere in visita Giovanni Paolo II.

Rientrò in Italia ormai gravemente malato poche settimane prima di morire, il 31 agosto 1983. A padre Piero Gheddo – missionario del Pime, grande amico di Candia e suo biografo – Adalucio Calado, il presidente dei lebbrosi di Marituba, descrisse così l’ex imprenditore milanese in un’intervista: «Il dottor Candia non solo ci ha aiutati economicamente e con le opere sanitarie e sociali, ma ci ha voluto bene: in lui vedevamo l’amore di Dio anche per noi lebbrosi, rifiutati da tutti. Lo ricordiamo ancora come un santo, perché faceva tutto per amore di Dio. Lui ricco, colto e importante nel mondo, veniva a spendere la sua vita tra noi che non potevamo dargli nulla in cambio. E pensavamo: se lui è un uomo così buono, quanto più buono dev’essere Dio che ce l’ha mandato».

 

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Marcello Candia, l’industriale per i poveri

 

Dal Blog di Piero Gheddo 15 luglio 2014

L’8 luglio 2014, la Congregazione dei Santi ha promulgato il decreto sul riconoscimento delle virtù eroiche del servo di Dio dott. Marcello Candia, missionario laico in Amazzonia brasiliana dal 1965 al 1983, dove ha speso la sua vita di volontario fra i poveri e i lebbrosi e tutte le sue sostanze. Marcello Candia (1916-1983), figlio di un industriale milanese, nato a Portici (Napoli), eredita dal padre la fabbrica di acido carbonico la dirige per 18 anni con successo, fondando tre nuovi stabilimenti. Ma Dio lo chiamava ad essere “l’industriale della carità”. Fin da giovane studente (tre lauree in chimica, biologia e farmacologia), divideva il suo tempo fra l’industria paterna e le opere di carità nella sua Milano: il “Villaggio della madre e del fanciullo”, l’assistenza ai profughi dai campi di concentramento tedeschi, un dispensario medico gratuito per i poveri, l’aiuto ai baraccati delle periferie milanesi (dove da adolescente mamma Luigia portava i cinque figli alla domenica pomeriggio), il “Collegio degli studenti d’Oltremare” voluto dal Card. Montini.

Non si era sposato per fare opere di bene e sentiva profondamente anche la chiamata alle missioni. Fonda la scuola di medicina per missionari (all”Università di Milano) e sostiene i primi organismi di laicato missionario in Italia. Nel 1949 incontra mons. Aristide Pirovano, missionario del Pime e fondatore della diocesi di Macapà alle foci del Rio delle Amazzoni, che lo invita ad andare con lui per fondare un ospedale per i poveri. Marcello va in Amazzonia e si appassiona di quel popolo, ma solo nel 1964, a 49 anni, riesce a vendere la sua fiorente industria e va a Macapà con i missionari del Pime, donandosi totalmente a quella missione. La sua vita, nei 19 anni di Amazzonia (muore nel 1983 di cancro al fegato, è tutta una corsa contro il tempo per realizzare e finanziare molte opere di bene: l’ospedale di Macapà, allora il più grande e moderno dell’Amazzonia brasiliana, il rifacimento del lebbrosario di Marituba (con 2000 lebbrosi), nella foresta presso Belem, centri sociali e casette per i poveri, scuola per infermiere, aiuti a tutte le missioni del Brasile povero che ricorrevano a lui.

All’inizio, in Amazzonia aveva più d’un miliardo di lire (del 1964), spende tutto e incominciano ad arrivargli le offerte dei suoi ex-dipendenti, di molti amici e di tanti altri che venivano a conoscenza della sua avventura. Marcello mandava foto e lettere e tornava un mese l’anno in Italia per rispondere a inviti di conferenze e interviste. Avendo venduto anche la sua casa a Milano, in Italia era ospite del Pime, che gli organizzava gli incontri e le interviste a giornali, radio e televisioni.

Dove sta la grandezza di questo “santo” del nostro tempo, modello per i laici missionari? Nella sua profonda vita di fede e di pietà e nella sua carità. Si definiva “un semplice battezzato”: non apparteneva ad alcuna associazione o movimento ecclesiale; un uomo libero, con una spiritualità profonda ma elementare, che s’è santificato con le preghiere del “Manuale del buon cristiano”. Era il santo della carità, il santo della Croce e il santo della gioia. In quel tempo di dittatura in Brasile, i militari sospettavano di questo riccone che va a spendere i suoi soldi in una regione ai confini del Paese e vive poveramente. Lo sorvegliavano, ostacolavano, umiliavano e lui sopportava con pazienza. Il governatore militare di Macapà dice al vescovo mons. Giuseppe Maritano: “”Mi spieghi lei questo mistero. Vedo che il dottor Candia s’interessa solo dell’ospedale e spende tutto quel che ha per i poveri.. Però, quando gli parlo mi sembra una persona normale”. Mons. Maritano ha testimoniato: “Voleva che l’ospedale fosse per i poveri, perchè questo era l’unico scopo per il quale l’aveva costruito. Diceva: ‘Se c’è un malato povero e uno ricco, prima ospitiamo il povero e poi, se c’è posto, il ricco, che può rivolgersi all’ospedale governativo. Io voglio un ospedale missionario per i poveri e quindi dev’essere per forza passivo. Se è in attivo vuol dire che non è più missionario e per i poveri’. Marcello pagava tutte le spese e i passivi”.

Il mistero della sua vita sta tutto nella sua preghiera. Pregava molto, una preghiera semplice e continua, aveva sempre il pensiero rivolto a Dio e ha portato in Brasile le Carmelitane di Firenze, costruendo due loro conventi, perché diceva: “La preghiera è il carburante delle opere di bene”.

Ho accompagnato Marcello nella visita a diversi lebbrosi. Si inginocchiava vicino al letto, baciava quei malati e mi diceva: “In ogni malato c’è Gesù”. Faceva una vita di grandi rinunzie e sofferenze, anche per visitare le sue opere in tutti il Brasile dei poveri (quando è morto finanziava 14 opere da lui fondate). In Brasile ha avuto cinque infarti e un’operazione al cuore, non avrebbe dovuto tornare in Amazzonia, ma lui è stato fedele alla chiamata di Dio.

Nel 1975 il presidente del Brasile dà a Marcello Candia l’onorificenza più importante del paese “Cruzeiro do Sul” e il più importante settimanale illustrato brasiliano, “Manchete” di Rio de Janeiro, gli dedicò un articolo intitolato: “L’uomo più buono del Brasile”, che incominciava con queste parole: “Il nostro Paese è terra di conquista per finanzieri e industriali italiani. Molti vengono da noi ad impegnare i loro capitali allo scopo di guadagnarne altri. Marcello Candia, ricco industriale milanese, vive in Amazzonia da dieci anni, vi ha speso tutte le sue sostanze, con uno scopo ben diverso: aiutare gli indios, i caboclos, i lebbrosi, i poveri. L’abbiamo eletto l’uomo più buono del Brasile per l’anno 1975″.

Nel 1982, un anno prima di morire, Marcello ha istituito la Fondazione Candia per continuare a mantenere le opere da lui fondate; oggi la Fondazione finanzia più opere di quante ne ha lasciate Marcello. Indirizzo: Fondazione dott. Marcello Candia – Via P. Colletta, 21, 20135 Milano, tel. 02.546.37.89. Chiedere DVD e filmati, immaginette e il bollettino “Lettera agli Amici di Marcello Candia”.

Per conoscere Marcello Candia: P. Gheddo, “Marcello dei lebbrosi”, la biografia che è un romanzo d’avventure e le sue “Lettere dall’Amazzonia”, una lettura appassionante e commovente. Chiedere questi libri a P. Piero Gheddo, Pime, Via Monterosa,81 – 20149 Milano – Tel. 02.43.82.04.18.

Paolo VI, la modernità del pensiero

 

L’attualità della figura di Montini sta nell’importanza di formare i giovani al bene comune e ad una sensibilità alla politica

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di Luca Rolandi |VinoNuovo 08 luglio 2014

Il 19 ottobre avremo un nuovo Papa beato, Giovanni Battista Montini, il Papa del dialogo, del Concilio e della ricerca, del dubbio e della fatica di coniugare modernità e vangelo. Qualche giorno fa – in occasione dell’anniversario della sua elezione – la Fuci e la Fondazione Fuci, memori del profondo legame con Montini, hanno ricordato Paolo VI, facendo memoria di del portato culturale e spirituale della traccia indelebile lasciata dall’allora prete bresciano all’esperienza federativa. Giovanni Battista Montini ha, infatti, accompagnato generazioni di fucini nella maturazione di una vera e propria “coscienza universitaria”, nel riconoscere cioè il tempo dello studio quale occasione di vita piena, luogo di responsabilità e di preghiera.

Una consapevolezza, ancora oggi quanto mai necessaria, per volgere le fatiche, la crisi del pensiero e della conoscenza, finalizzata alla promozione umana e non al consumo indiscriminato di beni, per uno sviluppo armonico e la costruzione di una società nella quale la pace e la speranza siano unite. Nell’Italia della metà del Novecento che sentiva l’esigenza di molte necessità materiali e opere sociali, Paolo VI ha ritenuto prioritaria l’importanza della carità dell’intelligenza, proponendo un aiuto di pensiero; sentendo che questo era un modo per dare testimonianza della fede cristiana e per rispondere alle istanze del momento. La modernità e l’attualità del pensiero di Paolo VI sta nell’importanza di formare i giovani al bene comune e ad una sensibilità alla politica: oggi, più che mai, c’è bisogno di ripartire dalla formazione delle coscienze. Lo ricordano i presidenti attuali della Federazione ed è patrimonio di coloro che hanno avuto la possibilità e il dono di impegnarsi nel tempo universiatario nell’associazione.

E di Montini vorrei ricordare anche la dimensione presbiterale, il ruolo del prete nella comunità. L’altissima concezione montiniana del sacerdote – uomo dell’incontro, del dialogo, del servizio: in una parola, dell’amore pastorale – può ancora aiutare i preti e i laici ancora oggi. E anche coloro che vivono un momento di disagio nella sublime dignità loro conferita. Gli scritti di Montini ai preti ambrosiani e a quelli di tutto il mondo possono aiutarci a ritrovare una viva coscienza del mandato e una rinnovata tensione morale. Paolo VI è un esperto ricercatore vocazionale e un educatore sensibilissimo e le sue indicazioni per i giovani – ricche di tante sottolineature anche psicologiche, sulle quali è stato davvero un antesignano – sono tuttora piene di freschezza e di slancio per il futuro.

In missione, giorno dopo giorno, per 76 anni

 Heleen Voorhoeve

La straordinaria storia di Heleen Voorhoeve, missionaria evangelica olandese, scomparsa ieri in Egitto a 102 anni. Dal 1937 a oggi ha svolto ininterrottamente il suo servizio educativo tra i bambini di una scuola

di Giorgio Bernardelli – Missionline 08/05/2014

 

È morta ieri all’età di 102 anni in Egitto la missionaria evangelica olandese Heleen Voorhoeve, protagonista di una storia in qualche modo da record: è stata missionaria nello stesso posto – una scuola elementare a Tima, nell’Alto Egitto – per più di settant’anni.

Era arrivata in Egitto nel 1937 per conto dell’Assemblea dei Fratelli, una congregazione evangelica che conta numerose comunità in Olanda. E dopo appena un anno e mezzo trascorso a studiare l’arabo al Cairo era giunta a Tima, una città della regione di Assiut, dove aveva preso in carico una piccola scuola elementare. Nel 1941, quando la Seconda Guerra mondiale toccò l’Africa, la sua congregazione l’invitò a rientrare in Olanda. Ma lei scelse la fedeltà a quell’Egitto a cui aveva deciso di donare la sua vita. E ha ripetuto costantemente questa scelta durante tutte le guerre e le rivoluzioni che si sono susseguite in tre quarti di secolo in Egitto.

Così per tutti – cristiani e musulmani – in un angolo periferico dell’Egitto, Heleen Voorhoeve è diventata al Sitt, la Signora. E la sua scuola elementare – dalle settanta bambine degli inizi – è arrivata a ospitare oggi mille alunni, in un centro che significativamente si chiama Nour, la Luce. Una scuola aperta a tutti nella quale questa missionaria cristianese olandese proprio con la sua fedeltà alla gente – e in particolare ai più poveri – si è guadagnata la stima di tutti, islamisti compresi. La riprova la si è avuta nell’estate scorsa quando anche la zona di Assiut è stata colpita dall’ondata di devastazioni anticristiane, ma la scuola di Tima non è stata toccata.

Un’altra delle iniziative promosse da Heleen Voorhoeve sono gli «incontri di Tabità», ispirati alla pagina del capitolo 9 degli Atti degli Apostoli nella quale Pietro ridona la vita a una discepola chiamata Tabità che era morta. Gli Atti raccontano che questa donna veniva pianta dalle vedove a cui confezionava tuniche e mantelli, come gesto di carità; proprio mosso da quel pianto Pietro disse alla salma «Tabità, alzati». Ispirandosi a questa pagina della Scrittura Hellen Voorhoeve ha dato vita, già a partire dagli anni Cinquanta, a corsi di sartoria per le donne più bisognose di Tima. Un modo per donare anche a loro un’occasione di resurrezione.

Il riferimento biblico non è un caso: la Scrittura è stata il punto di riferimento costante della vita di Heleen Voorhoeve. In un libro a lei dedicato due anni fa – in occasione del suo centesimo compleanno – 100 Years. Life, Love, Giving – il giornalista cristiano egiziano Essam Khalil racconta la giornata tipo di Heleen, che cominciava immancabilmente alle sette della mattina con la preghiera silenziosa su un brano della Parola di Dio. Preghiera che poi – alle otto – si trasformava immediatamente in una breve parola semplice, trasmessa al gruppo degli alunni cristiani della scuola, prima di iniziare le giornate di lezioni. L’ha fatto per più di settant’anni. E siamo sicuri che questo seme gettato con pazienza anche senza di lei continuerà a portare tanti frutti.

Quel Ratzinger dimenticato dai «ratzingeriani». Dal blog di Andrea Tornielli

Il pontificato di Benedetto XVI fu un’ondata di luce sulla Chiesa e sul mondo. E questa luce continua ad irradiare. Il problema, come si sentiva dire anche allora, erano i “ratzingeriani”.

(E.C.)

* * *

In alcuni circoli intellettuali continua l’acceso dibattito sulla continuità-discontinuità tra Benedetto XVI e Francesco. Ma l’immagine del Papa tedesco troppo spesso non corrisponde alla realtà

ANDREA TORNIELLI
CITTÀ DEL VATICANO

Weltjugendtag

Nel dibattito dai toni spesso accesi (e talvolta autoreferenziali) sulla continuità-discontinuità tra i Papi Benedetto XVI e Francesco, nella foga di contrapporre, di sottolineare ogni diversità di stile o di accenti, c’è il rischio di finire col presentare delle caricature dei protagonisti. Il fenomeno finisce per incasellare in un cliché artificioso innanzitutto la ricca figura di Papa Ratzinger, come se tutto il suo magistero fosse identificabile con la strenua e reiterata difesa dei «principi non negoziabili» nello spazio pubblico.

Nel suo primo viaggio internazionale, incontrando i giovani della GMG di Colonia, nell’estate del 2005, Benedetto XVI scelse di non parlare di castità, di rapporti pre-matrimoniali, etc. etc. Concentrandosi invece sull’annuncio della bellezza del fatto cristiano. Un anno dopo, qualcosa di simile accadde durante il suo viaggio della Spagna divenuta culla del «relativismo zapateriano», patria delle nozze gay. Benedetto XVI andò a incontrare le famiglie venute da tutto il mondo a Valencia per testimoniare la bellezza delle loro esperienze, e scelse di non contrapporsi al governo spagnolo e di non pronunciare condanne, preferendo parlare in positivo.

Ancora, si può richiamare alla memoria la coraggiosa ed evangelica risposta dello stesso Papa Ratzinger nel pieno della bufera per lo scandalo della pedofilia, quando invece di puntare il dito contro i nemici esterni, disse (2010) che la persecuzione più grande per la Chiesa non viene dall’esterno, ma dal suo interno, dal peccato all’interno della Chiesa stessa. Allora, proprio ai giornali che oggi innalzano la bandiera «ratzingeriana», questo atteggiamento non piacque. E la «Chiesa penitenziale» di Benedetto divenne uno slogan per segnalare la nostalgia di più nerborute pubbliche prese di posizione.

Si possono poi citare le parole, passate sotto interessato silenzio, che Benedetto XVI ha pronunciato nel 2011 a Friburgo, nel suo ultimo viaggio in Germania da Papa regnante, quando ha parlato di una «Chiesa soddisfatta di se stessa, che si accomoda in questo mondo, è autosufficiente e si adatta ai criteri del mondo». Una Chiesa che non di rado dà così all’organizzazione e all’istituzionalizzazione un’importanza maggiore che non alla sua chiamata all’essere aperta verso Dio e ad un aprire il mondo verso il prossimo». Una Chiesa che dovrebbe liberarsi «dai fardelli e dai privilegi materiali e politici» per «dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero» ed essere «veramente aperta al mondo».

E che dire, infine, di altri due filoni del magistero ratzingeriano, dimenticati o manipolati? Il primo è rappresentato dalle sue parole contro il carrierismo ecclesiastico (e qui ognuno può trarre le sue conclusioni su quanto poco siano state prese sul serio). Il secondo è quello riguardante la liturgia. Con il motu proprio «Summorum Pontificum» Benedetto XVI voleva favorire la riconciliazione tra la stragrande maggioranza dei fedeli che seguono il rito romano ordinario e i pochi rimasti legati alla messa antica. Voleva favorire l’arricchimento reciproco fra i due modi di celebrare. Il suo messaggio è stato molto spesso ignorato e invece di riconciliare o arricchire reciprocamente, la liberalizzazione ha finito per polarizzare e spesso per dividere ulteriormente.

Ci vorrebbe, dunque, qualche attenzione in più, per non ridurre Papa Ratzinger, per non schiacciare la ricchezza del suo magistero facendolo coincidere con certe gabbie ideologiche, per non rinchiuderlo in uno schema precostituito. Del resto, è esemplare quanto accaduto nel novembre 2010, quando una risposta minimamente aperturista sul preservativo contenuta nel libro intervista con Peter Seewald «Luce del mondo», provocò la forte reazione dei custodi dell’etica sessuale, pronti a insegnare con le loro «eruzioni di dottrina» anche a Ratzinger come essere veramente «ratzingeriano».

Don Puglisi, il prete che faceva paura a Cosa nostra

 

di Jolanda Bufalini – “l’Unità” del 16 settembre 2013

 

PPP, Padre Pino Puglisi, a vent’anni dall’assassinio del parroco di Brancaccio, ci fulmina

l’acronimo uguale all’altro, di Pier Paolo Pasolini, ammazzato pure lui, tanto tempo prima, a Ostia,

nella protesta estrema contro il degrado materiale e morale dei ragazzi delle borgate.

Padre Puglisi, raccontano quelli che lo avevano conosciuto, non era un leader, era un prete del

territorio, non stava in chiesa, girava con la sua Panda rossa e parlava con tutti, con il sorriso sulle

labbra. Cioè non era uno che si atteggiava a leader ma leader lo era, cioè guida e pastore, tanto che

ha cambiato la vita delle persone, persino quella di Spatuzza che lo ammazzò ma, prima di vederlo

cadere, colse il suo sorriso e quella frase: «Vi aspettavo».

Fra le testimonianze che portarono alle condanne, per l’omicidio di Don Puglisi, dei Graviano, di

Gaspare Spatuzza, di Antonino Mangano e di Salvatore Grigoli, c’è quella di Giuseppe Carini,

allora un giovane specializzando in medicina legale. Le sue parole danno la misura di cosa possa

significare l’azione pacata e cocciuta di un sacerdote in una realtà profondamente mafiosa.

«Essendo nato in quell’ambiente, in quella situazione particolare del quartiere di Brancaccio

Ciaculli, posso dire di avere, praticamente, condiviso per certi aspetti quella cultura, quella mentalità, all’interno della quale o ti facevi forza da solo oppure iniziavi un po’ a soccombere, anche moralmente, psicologicamente … Essendo nato in quel quartiere, sono stato anche cresciuto con quel modo di pensare e frequentavo persone colluse con la criminalità … Ho vissuto con loro, ho giocato con loro e ho condiviso tutto quello che avevano condiviso con Cosa Nostra… Anzi posso dire di avere desiderato anch’io di entrare in quel mondo e posso dire che a poco a poco ci stavo riuscendo. Poi… ho saputo di questo sacerdote, padre Puglisi, che venne a Brancaccio … lui mi ha accettato così per come ero. Qualche volta lui mi guardava, cioè capiva questo disagio interiore e ne sapeva la provenienza».

Carini, sintetizza il magistrato, ha riferito che prima di frequentare padre Puglisi, egli, in occasione

delle consultazioni elettorali, si era adoperato per raccogliere consensi per i candidati favoriti,

distribuendo buoni benzina o pacchi di pasta. Si organizzavano pranzi e cene per 200-300 persone,

tutto pagato. Brancaccio – continua il racconto – era sempre stato un serbatoio democristiano, tranne

nel 1987, allorché si doveva votare partito socialista perché «doveva far uscire la gente dalle

carceri».

C’era anche, prosegue il testimone, «don Pietro Romano che diceva che bisognava fare

propaganda». Con padre Puglisi, invece, «si respirava tutt’altra aria». Una signora, facente funzioni

di segretaria del Consiglio di Quartiere, aveva organizzato una recita, alla quale avevano

presenziato l’on. Mario D’Acquisto ed alcuni consiglieri comunali, tra cui una signora chiamata la

«madrina di Brancaccio». In quella occasione padre Puglisi aveva preso la parola ed aveva avuto il

coraggio di dire: «Il quartiere è disagiato al massimo, senza una scuola media, gente disoccupata, …

situazioni familiari assurde, promiscuità incredibile e voi venite qui a chiedere voti, ma con quale

faccia vi presentate qui?».

Il padre non aveva buoni rapporti con il consiglio di quartiere. È interessante notare che nel

ventennale della morte, ora che Puglisi è stato beatificato, la circoscrizione si è dimenticata di

convocare l’assemblea per la commemorazione. Il consigliere Pd Ignazio Cracolici si è dimesso per

protesta. Puglisi è stato ammazzato la sera del suo compleanno, il 15 settembre 1993, sotto casa,

con le chiavi per aprire il portone in mano, un colpo secco alla nuca, dopo che gli assassini si erano

fatti consegnare il borsello. Per questo si poté pensare, all’inizio, a una rapina finita male. Ma le

testimonianze rivelarono le minacce di cui il prete era stato fatto segno nei mesi precedenti. «Negli

ultimi mesi di vita padre Puglisi era cambiato di umore: era divenuto molto riservato, aveva

cominciato ad allontanare coloro che gli erano stati più vicini, evitando che rimanessero con lui fino

a tarda sera. Proprio al Carini, il quale frequentava da interno l’istituto di Medicina Legale di

Palermo, aveva detto con tono serio: «Se dovesse succedere anche a me una cosa del genere, ti

Card. Ersilio Tonini, erede e testimone della grande tradizione popolare cristiana

Tonini - Graziani

Nella foto, il Card. Tonini, di venerata memoria, e il vescovo Mons. Domenico Graziani.

Due cari amici, due pastori innamorati di Dio, della Chiesa e della gente. (E.C.)

 

 

Marina Corradi – Copyright 2013 © Avvenire 28 luglio 2013

Ersilio Tonini, cardinale e arcivescovo emerito di Ravenna. era nato il 20 luglio 1914 a Centovera di San Giorgio Piacentino, figlio contadini: suo padre Cesare era capobracciante in una grande cascina. Pochi giorni fa aveva dunque compiuto 99 anni, e ancora ricevendo i giornalisti, benché costretto a letto da alcune settimane. E’ morto questa notte alle due, nel suo letto all’Opera Santa Teresa, dove alloggiava fin da quando, nominato a Ravenna, aveva rinunciato allo splendido palazzo apostolico per lasciarlo a una comunità di tossicodipendenti sulla via del recupero. Non era malato, spiegano al Santa Teresa, “ma semplicemente aveva 99 anni”. Dei quali ben 76 di sacerdozio, un primato difficilmente eguagliabile. La fede trasmessagli dalla madre Celestina, amatissima, scaturisce infatti in una vocazione precoce: a 11 anni Tonini entra in seminario. L’ordinazione è del 18 aprile 1937, a neppure ventitré anni. Studia Diritto civile e canonico alla Lateranense, a Roma. (Il diritto, e in particolare i suoi fondamenti, cioè il diritto romano, rimangono sempre una sua passione; affascinato com’è dal primo organizzarsi della comunità degli uomini, in cui intravede l’impronta di un anelito a una originaria giustizia). Assistente della Fuci – gli universitari cattolici – negli anni giovanili, dal 1953 è parroco a Salsomaggiore. Fin da allora ha un vivo interesse per il giornalismo, e dirige giornali diocesani (agli amici confida: se non fossi diventato sacerdote, senz’altro avrei fatto il giornalista).

E’ Paolo VI, nel 1969, a nominarlo vescovo di Macerata e Tolentino. Sei anni dopo Tonini viene spostato a Ravenna-Cervia. Sceglie, come si è detto, di vivere al Santa Teresa, una sorta di cuore della carità della Romagna che accoglie i vecchi e i disabili.

Conoscendo la sua profonda passione per la comunicazione, Paolo VI nel 1978 lo vuole presidente del Consiglio di amministrazione della NEI, la società editrice di «Avvenire». E ancora pochi giorni prima della sua morte, Montini gli affida anche i mezzi materiali necessari per dare nuovo vigore al quotidiano cattolico. Nello stesso anno, grazie all’opera di Tonini, può riaprire le sue porte il seminario ravennate, che aveva chiuso nel periodo più aspro della contestazione, che aveva investito il ruolo stesso del sacerdote nella Chiesa.

Nel 1986 Tonini accoglie Giovanni Paolo II nella sua visita apostolica in Romagna. Nel settembre ’90, raggiunta l’età di 76 anni, l’arcivescovo rassegna le dimissioni, ma rimane a vivere al Santa Teresa e scrive ai ravennati: “Permettetemi di continuare ad amarvi”, parole che restano impresse nel cuore della città. Sempre in quegli anni si appassiona alla causa degli indios della foresta amazzonica minacciati dalle multinazionali dell’esproprio delle loro terre. Con la campagna “Uma vaca para o indios”, cui dà il suo contributo anche il Papa, si propone di fermare l’annientamento delle comunità indios, giacché per legge in Amazzonia non si può espropriare il terreno adibito a pascolo.

Nel febbraio ’91 lo stesso Giovanni Paolo II, cui ormai lo unisce un intenso rapporto, lo chiama a predicare gli Esercizi spirituali per la Curia romana. L’amicizia e la collaborazione televisiva con Enzo Biagi ne “I dieci comandamenti” lo rendono molto popolare al grande pubblico italiano.

Nel 1994 Giovanni Paolo II lo nomina cardinale. Anche allora Tonini resta l’uomo semplice di sempre, appassionato al destino degli uomini, lettore, ogni mattina, di numerosi quotidiani anche stranieri. Si impegna sui temi della bioetica e della fecondazione artificiale, che ritiene la frontiera di un “mondo nuovo” che la Chiesa non può trascurare; scrive su “Avvenire”, collabora a riviste, appare spesso in tv a dare il suo contributo al dibattito pubblico: con un accento raro e inconfondibile di pietas cristiana, sempre pronta a abbracciare nella misericordia più che a condannare.

E’ ciò che il cardinale continua a fare fino agli ultimi mesi di vita. Ancora il 20 luglio scorso, nel giorno del suo 99esimo compleanno, dialoga con i giornalisti venuti a incontrarlo, scambia battute e fa raccomandazioni. Erede e testimone fino all’ultimo di una grande tradizione popolare cristiana; principe della Chiesa con in fondo al cuore un’ansia di annuncio di verità e giustizia, che sta alla radice della stessa missione.

Don Pino Puglisi, Martire di Cristo ucciso “in odio alla fede”

Perché padre Pino Puglisi è stato proclamato martire

Ucciso dalla mafia «in odium fidei»

Puglisi

Don Pino Puglisi 1937-1993), il parroco del quartiere palermitano di Brancaccio ucciso dalla mafia, è stato proclamato beato, perché riconosciuto martire dalla Chiesa, in quanto l’omicidio è avvenuto in odium fidei.

Il fatto costituisce un’assoluta novità riguardo alla plurisecolare tradizione della Chiesa in ordine al riconoscimento del martirio. Don Puglisi è stato assassinato, infatti, da un killer che ha ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana e che appartiene a un’organizzazione criminale — la mafia — la quale fa proprio del paludamento religioso una peculiare caratteristica, pur essendo, in realtà, un’organizzazione atea e antievangelica. Puglisi è stato un presbitero ucciso per avere vissuto fino in fondo le virtù richieste da una vita coerente con la fede cristiana. Vita evangelicamente inerme, condotta con la chiara consapevolezza che questa modalità di esistenza avrebbe potuto comportare l’uccisione da parte di un’organizzazione che non accetta il messaggio cristiano, nelle sue variegate sfaccettature.

Il suo delitto, ravvisato come martirio, fa sì che la Chiesa tutta possa togliere definitivamente la maschera a quella forma idolatrica di religiosità che è la mafia. Il suo sacrificio ha ribadito con forza alla compagine ecclesiale che non si possono servire due padroni e che non esiste una sequela Christi, e una consequenziale testimonianza della fede e delle realtà spirituali da parte di un pastore, che non si coniughi strettamente con la promozione della dignità della condizione umana dei credenti a lui affidati.[1]

 

Nel cuore di Brancaccio

Don Pino nasce a Palermo, proprio nel quartiere di Brancaccio, il 15 settembre 1937, da famiglia semplice e povera. A sedici anni entra in seminario e il 2 luglio 1960 riceve l’ordinazione presbiterale. Dopo aver svolto per alcuni anni il ministero di vicario parrocchiale, inizia l’insegnamento della religione. E proprio a scuola incontra una collega di lettere che gli fa conoscere il movimento di ispirazione francescana Presenza del Vangelo, che pone al centro della propria spiritualità la Parola, al quale don Pino si legherà particolarmente. Negli anni a venire, il giovane presbitero presterà il suo servizio ministeriale anche in un centro sociale di ispirazione cattolica e ricoprirà alcuni incarichi all’interno dell’Azione cattolica e di alcuni organismi diocesani. Il 1° ottobre 1970 è inviato parroco a Godrano, paesino con forte presenza di cristiani pentecostali e, soprattutto, dilaniato da faide familiari. In questo piccolissima realtà del palermitano, don Pino si spende per la riconciliazione tra le famiglie e per l’annunzio della Parola, organizzando anche missioni popolari.

Nell’agosto del 1978 ritorna a Palermo e, alla fine del 1979, per mandato dell’arcivescovo card. Pappalardo, dà vita a una comunità vocazionale per giovani in discernimento e viene anche nominato direttore del Centro diocesano vocazioni. In questo ambito don Pino si prodiga generosamente coinvolgendo decine di realtà ecclesiali palermitane, stimolando l’intera Chiesa a prendere consapevolezza della dimensione vocazionale di ogni scelta di vita e organizzando decine di campi vocazionali per giovani. Nel secondo quinquennio degli anni Ottanta i vescovi siciliani lo nominano direttore del Centro regionale vocazioni, servizio che don Pino esplica lodevolmente, senza per questo venir meno alla preziosa opera di accompagnamento spirituale rivolta a tantissimi credenti e a diverse realtà e movimenti ecclesiali. Nel marzo 1990 l’arcivescovo lo nomina assistente diocesano della Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI). In settembre accetta di andare parroco a Brancaccio, quartiere ad altissima densità mafiosa, dove verrà ucciso, dopo appena tre anni di ministero svolto evangelizzando e promuovendo il riscatto dei parrocchiani, proprio il giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno.

 

Puglisi: un prete

La vita e, soprattutto, l’esercizio del ministero di don Puglisi, possono costituire, a nostro avviso, un punto di riferimento per i presbiteri italiani.

Don Pino ha vissuto pienamente la conformazione a Cristo amandolo nella sua Parola, incontrandolo nella celebrazione sacramentale e servendolo nei fratelli e nelle sorelle, specie se ultimi e/o più deboli. Il servizio ai credenti lo ha portato a prendersi cura, fin da giovane presbitero, della loro vita, in tutte le sue dimensioni: da quella più propriamente spirituale ai tanti bisogni emergenti, combattendo strenuamente, con le sole armi del Vangelo, ogni forma di lesione e offesa della dignità umana.

Uomo della Parola e servitore del Vangelo, quotidianamente annunciato, Puglisi ha accompagnato centinaia di credenti nella vita secondo lo Spirito, aiutandoli, se giovani, nel discernimento vocazionale e facendosi prossimo con tutti nel paziente ascolto e nell’assistenza concreta per affrontare le tante difficoltà e traversie che la vita riserva a ogni uomo e donna.

Presbitero profondamente intriso dello spirito del Vaticano II, ha accolto pienamente la riflessione conciliare sulla soggettualità della Chiesa locale, che in lui si è concretizzata nella partecipazione attiva agli organismi diocesani e nella generosa disponibilità verso chiunque, singola persona e/o realtà ecclesiale, bussasse alla porta del suo cuore. E tutto questo in una radicale scelta della povertà, lontano dai riflettori e nella generosa disponibilità nei riguardi di ogni proposta ricevuta, anche quando venne inviato in zone «difficili», quali Godrano e Brancaccio.

Alla luce del riconoscimento del suo martirio — giunto al termine di una vita vissuta interamente al servizio di Cristo e degli uomini – don Puglisi può rappresentare un modello e uno sprone per i tanti presbiteri italiani che vivono, con fatica e sacrificio, il loro impegno ministeriale in tante zone torbide di molte regioni del nostro paese (dalla Lombardia alla Sicilia), perché attingano da lui quella fermezza evangelica e quel diuturno coraggio, che sempre hanno contraddistinto la vita e l’operato del parroco palermitano.

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La causa di beatificazione

Subito dopo la morte di don Pino, diversi membri della Chiesa di Palermo — ma anche donne e uomini non credenti – hanno parlato di lui come di un martire della fede. Sia le persone che lo avevano conosciuto in vita, apprezzandone le qualità umane e presbiterali, sia coloro che lo hanno «scoperto» post mortem, in diverse occasioni hanno manifestato, verbalmente e per iscritto, il desiderio di vedere presto canonizzato dalla Chiesa don Puglisi, proprio per la sua ferma e intrepida testimonianza evangelica.

Già il 29 dicembre 1998 l’allora arcivescovo di Palermo, card. De Giorgi, facendosi interprete del sentire dell’intera Chiesa palermitana, manifestò l’intenzione di compiere i necessari passi in vista dell’apertura del processo canonico per il riconoscimento del martirio di don Puglisi. Il 22 febbraio dell’anno seguente fu istituita la Commissione diocesana per la beatificazione del parroco di Brancaccio col compito di fungere da parte attrice. Il 23 maggio 1999, i vescovi della Conferenza episcopale siciliana dettero il parere favorevole per l’introduzione della causa. Il giorno dopo, mons. Domenico Mogavero[2] fu nominato postulatore e, il 25 maggio, fece richiesta all’arcivescovo d’istruire la causa per il riconoscimento, da parte della Chiesa, del martirio di don Puglisi.

L’11 settembre 1999 la Congregazione delle cause dei santi concesse il necessario nihil obstatper l’apertura del procedimento canonico diocesano. Quattro giorni dopo, nella chiesa cattedrale di Palermo si insediò il Tribunale diocesano e si aprì il processo super vita et martyrio servi dei Iosephi Puglisi, sacerdotis dioecesani, in odium fidei, uti fertur, interfecti. Il 6 maggio 2001 si celebrò l’ultima sessione del processo e tutto il materiale fu inviato a Roma.

Il 16 gennaio 2004 la Congregazione delle cause dei santi emise il decreto di validità del processo celebrato nella fase diocesana e assegnò la causa al relatore, padre Daniel Ols. Il domenicano francese nominò (8 novembre 2004) chi scrive suo collaboratore esterno per la redazione della Positio super martyrio. Il 10 ottobre 2006 i consultori teologi della Congregazione vaticana espressero unanime risposta affermativa. L’11 novembre 2006 mons. Giovanni Paolo Benotto[3] fu nominato ponente della causa, in vista del congresso ordinario dei cardinali e dei vescovi membri della Congregazione delle cause dei santi (12 dicembre 2006). Nel corso della seduta, i padri rilevarono alcuni aspetti che andavano ulteriormente chiariti in vista della prosecuzione della causa. La Congregazione formulò così alcune domande (23 maggio 2007), alle quali ha fornito risposta esauriente il nuovo postulatore (nominato il 6 agosto 2010), il religioso bocconista mons. Vincenzo Bertolone.[4]

Il 28 giugno 2012, infine, papa Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione delle cause dei santi a promulgare il decreto sul martirio in odium fidei del presbitero palermitano ucciso dalla mafia.

 

Mario Torcivia

 


[1] Sulle motivazioni teologiche che hanno portato al riconoscimento del martirio di don Puglisi e sull’incompatibilità tra Vangelo e mafia, rimandiamo al nostro: Il martirio di don Giuseppe Puglisi. Una riflessione teologica. Editrice Monti, Saronno 2009

[2] Allora presbitero della Chiesa palermitana e sottosegretario della CEI; dal 31 marzo 2007 è vescovo di Mazara del Vallo.

[3] Allora vescovo di Tivoli; dal 2 febbraio 2008 è arcivescovo metropolita di Pisa.

[4] Allora vescovo di Cassano all’Ionio; dal 2011 è arcivescovo metropolita di Catanzaro- Squillace.

“Stava morendo per la bomba atomica, chiese solo la Comunione”

hiroshima

La storia della giovane Nakamura San venne raccontata da padre Arrupe. Nei prossimi giorni il cardinale Turkson in Giappone per le commemorazioni dei bombardamenti atomici

domenico agasso JR – Vatican Insider 3/08/2013

torino

L’ultimo desiderio prima di morire agonizzante a causa della bomba atomica? Fare la Comunione. Anche in mezzo ai disastri e alle tragedie provocati dall’ordigno nucleare, la grandezza cristiana è emersa. La studentessa Nakamura San, con il corpo devastato dall’esplosione atomica, non ha avuto dubbi per la richiesta espressa con le ultime esili forze a padre Pedro Arrupe (Bilbao, 1907 – Roma, 1991), futuro Preposto generale dei Gesuiti, che in quel momento era missionario in Giappone, proprio a Hiroshima.

Sarà lo stesso padre Arrupe a raccontare la storia di Nakamura San. Mattino del 6 agosto 1945: “Alle 8,15 precise vidi scoppiare sulla città la bomba atomica, la prima della storia… In quell’istante io mi trovavo nel mio ufficio, insieme con un altro padre. Vedemmo la vampa sterminata dapprima: io balzai in piedi correndo alla finestra e in quel momento giunse fino a noi uno scoppio, non una gigantesca detonazione, ma qualcosa di assolutamente diverso, lo ricordo come una sorta di enorme muggito… Guardammo verso la città. Hiroshima non c’era più. Al suo posto ardeva un compatto braciere…”. Così i Gesuiti missionari a Hiroshima sono dovuti diventare medici, infermieri, chirurghi. Si sono trovati di fronte piaghe terrificanti, corpi consumati dal calore, deformazioni mostruose e orribili. Sono venuti a contatto con centinaia di vicende drammatiche.

Una è stata quella di una ragazza cattolica. “La studentessa universitaria Nakamura San, della mia parrocchia di Yamaguchi, era a Hiroshima il giorno della bomba. Mi mandò a chiamare. La trovai in una baracca, nessuno aveva voluto accompagnarmi fin lì, si limitavano a indicarmi dov’era. Prima di vederla, avvertii l’odore nauseabondo della carne devastata. Nakamura San giaceva al suolo, braccia e gambe stese, piedi e mani orribilmente gonfi. La carne ustionata lasciava vedere soltanto ossa e pelle. Era rimasta in quelle condizioni per quindici giorni. Nakamura San aprì gli occhi, mi riconobbe e mi disse solo queste parole che non dimenticherò mai: ‘Arrupe shimpusama, Goseitai, o motte irasshaimashita ka?’. Le trascrivo così come le ho sentite. Volevano dire: ‘Padre Arrupe, mi porta la comunione?’”.

Pregherà anche per Nakamura San, come per tutte le vittime dei bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki avvenuti nel 1945 (a Nagasaki il 9 agosto) il cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, che si appresta a partire per il Giappone. Nel Paese del “Sol levante” sono in programma cinque giorni dedicati alla riflessione, alla preghiera e alla promozione della pace in occasione delle commemorazioni dei bombardamenti atomici. In particolare, il viaggio di card. Turkson si inserirà nell’iniziativa “Dieci giorni per la pace” promossa dalla Conferenza episcopale giapponese – tra il 6 e il 15 agosto – in memoria delle vittime delle bombe nucleari. Il Presule sarà lunedì ad Hiroshima, dove presiederà la s. Messa per la pace nella Cattedrale della città; martedì parteciperà a un incontro interreligioso dove pronuncerà un discorso sulla collaborazione reciproca nella costruzione della pace mondiale.

Mercoledì andrà a Nagasaki per prendere parte a una cena promossa dal Centro interreligioso per il Dialogo sulla Pace mondiale; giovedì, nell’ambito di una cerimonia commemorativa interreligiosa organizzata presso il “Ground-Zero Park” della città, card. Turkson reciterà una preghiera per tutte le vittime. Infine venerdì 9, sempre a Nagasaki, il presidente del Dicastero vaticano presiederà la Messa per la pace nel mondo.