Il mondo nuovo che non abbiamo il coraggio di volere

*

Vogliamo tutti un mondo diverso,
nuovo… e che sia il principio di
qualcosa di nuovo.
Un mondo per i nostri figli…
Un mondo dall’aria pulita
e con una natura amica
dell’uomo.
Un mondo senza paura,
senza fame e senza guerre.
*
Vogliamo un mondo nuovo
ma abbiamo paura che il prezzo
che ci viene chiesto sia
qualcosa che non siamo disposti
a pagare.
*
Abbiamo paura che il prezzo da pagare
sia il cambiamento…
*

… Cambiamento di ciò che vogliamo,
di ciò a cui siamo attaccati…

cambiamento della mente e del cuore,
dei desideri, degli stili di vita
e delle priorità individuali e collettive.
*
Vogliamo i nostri centri commerciali;
li vogliamo sempre a disposizione, sempre aperti,
sempre pieni e pronti a consegnare,
in un istante, i prodotti
più esclusivi, quelli più costosi,
quelli che ci distinguono dalla
massa.
*
Non ci poniamo neanche il
problema se la terra sia ancora
capace di sopportare
di essere così selvaggiamente depredata,
stuprata, strappata,
nel minor tempo possibile,
delle sue magnifiche foreste,
del suo mare cristallino,
del suo cielo luminoso,
di tutte le risorse necessarie…
…per saziare la voracità
di comprare, di comprare ancora,
di possedere, di possedere ancora,
e poi buttare tutto quando
ci siamo stancati delle cose
che abbiamo accumulato…
…e fare spazio per i nuovi
acquisti.
*
La terra sta morendo, scuoiata,
viva e svuotata delle sue
viscere, tutto perché non
sappiamo come fermare questo
delirio, oppure non vogliamo.
*
La risposta ce la sta dando
la terra stessa.
Non c’è più tempo, ma se
vogliamo, ce la possiamo fare.
*
Ma il primo è il più grande
cambiamento deve venire
dentro di noi.

 

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*

Il Prezzo di un mondo così…..

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…..E’ un mondo così

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Giovani minatori di oro in Africa:

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Ragazzi alla ricerca di oggetti utili tra le distese di rifiuti:

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La terra stuprata dopo la ricerca dell’oro:

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Il “Land Grabbing“, ossia l’accaparramento delle terre dal parte
degli Stati e delle Multinazionali, portate via agli abitanti, con la collusione dei
governi locali, per lo sfruttamento selvaggio delle risorse che si trovano
sulla superficie (acqua, coltivazioni) e nel sottosuolo:

 

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*

Disoccupazione in Europa e impoverimento di milioni di famiglie. 
Sotto, una pensionata italiana cerca cibo tra i rifiuti:

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Keynes e il rifiuto di una crescita economica senza valori umani

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L’asse portante della teoria macroeconomica dell’economista inglese degli anni Trenta John Maynard Keynes, tornato al centro del dibattito politico-economico nel pieno dell’attuale crisi economica e sociale prodotta dalla finanza internazionale libera da ogni vincolo e regola, è eliminare la instabilità del mercato e le diseguaglianze economiche e sociali per realizzare una buona vita e una buona società.

Il suo pensiero, basato sul rifiuto di una crescita economica priva di valori umani, della sostenibilità sociale e ambientale, lo portò a dire: “Noi economisti abbiamo la responsabilità non per la civiltà stessa ma per creare le possibilità che una civiltà possa realizzarsi”, ammonimento che, accolto da un nucleo ristretto di eretici della sinistra, è stato debitamente oscurato, quando non stravolto e opportunamente manipolato da una sinistra attratta dalle sirene del pensiero unico neoliberista, linfa vitale della finanza internazionale.

A fare chiarezza sull’opera e la persona di Keynes, la cui fama e importanza nel XX secolo è stata pari a quella di Carlo Marx nel XIX, togliendolo dall’uso contraffatto agito dai tutori del pensiero unico neoliberista, è l’economista dell’Università danese di Roskilde Jesper Jesperson, con un libro scorrevole e chiaro, John Maynard Keynes. Un manifesto per la buona vita e la buona società , edito da Castelvecchi e curato dall’economista Bruno Amoroso, amico e allievo di Federico Caffè, uno degli eretici più autorevoli delle sacche di resistenza che negli anni ’70 con il loro agire, di fatto, si opposero alla manipolazione e occultamento di Keynes nelle università come nei ministeri europei delle Finanze e in particolare oggi di Berlino, Londra, Roma, Copenaghen e Bruxelles.

Fautore della piena occupazione che non coincide con la crescita economica illimitata ma con l’equa ripartizione del lavoro e dei redditi, Keynes è stato ridotto – dice Amoroso – all’assunto che la causa della disoccupazione risiede nella rigidità dei salari monetari. Al contrario è l’assenza e imprevedibilità della domanda, sostiene Keynes, a causare l’instabilità del mercato, il che è in diretta opposizione alla tesi degli economisti neoclassici secondo cui l’offerta genera la sua domanda e il sistema di mercato si autoregola.

Per Keynes, non solo la disoccupazione è dovuta alla mancanza di posti di lavoro per cui seguendo il suo insegnamento è possibile invertire la congiuntura negativa con il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri dell’Ue per creare 20 milioni di posti di lavoro che mancano, ma i veri valori della società umana non si ottengono con lunghe ore di lavoro e neanche con gli acquisti di prodotti superflui e di facile invecchiamento.

E dinanzi alle sfide che l’Europa si trova ad affrontare oggi, è la conclusione di Jespersen: “La filosofia sociale di Keynes, ispirata alla costruzione di un sistema economico internazionale che coniuga regolamentazione del mercato dei capitali e libero commercio, può costituire uno straordinario contributo nella direzione di una politica coordinata e solidale che rispetti le diversità e le situazioni dei singoli Paesi”.

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FONTE: http://www.huffingtonpost.it/carlo-patrignani/keynes-e-il-rifiuto-di-una-crescita-economica-senza-valori-umani_b_8126246.html

 

Gli uomini e le donne “capaci” di futuro. Hanno il dono di aprire varchi perché tutti vi passino

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Vi sono nel mondo persone che si distinguono in mezzo alle masse perché hanno

il dono di essere animate in modo non ordinario dalla virtù della speranza.

La speranza, a sua volta, si alimenta della fede.

Queste persone hanno il particolare dono di porsi davanti alle situazioni e, più in generale, davanti alla storia, proiettando sempre in avanto lo sguardo, rimanendo ancorati sempre nella realtà.

Persone del genere hanno il carisma di indicare e saper aprire varchi di futuro. Il mezzo per farlo è sempre la loro vita. Si mettono in gioco loro stessi.

Spesso per aprire tali varchi pagano il prezzo di tasca propria.

A volte sono derisi, più spesso rimarranno nella solitudine, considerati dei superbi e illuminati, e non di rado rimangono insanguinati dalle proprie ferite, contratte mentre scavano nella dura roccia dello scetticismo e dell’incredulità di coloro che credono di sapere di più.

Sarà per la loro fede e tenacia che altri potranno attraversare, un giorno, questi varchi e incamminarsi verso il futuro senza rimanere prigionieri né del presente nel del passato.

Sarà per loro che l’umanità conosce il progresso, soprattutto spirituale.

 

Ma la cosa più straordinaria è che anche coloro che non avranno creduto, o che per convenienza avevano scelto di non credere, potranno attraversare gli stessi varchi, e goderne i benefici.

Il dono più grande che spetta a coloro a cui è dato di aprire il futuro è l’umiltà.

Ed è qui che si distingue l’uomo di Dio dall’uomo comune.

L’umiltà è la virtù in forza della quale non si avrà mai la certezza di essere sulla strada giusta… di possedere la verità… anzi, è la virtù del dubbio.

È la virtù che riunisce insieme il dolore e il timore per la possibilità di condurre gli altri nell’errore…

e, allo stesso tempo, la serenità di agire mossi solo e soltanto nell’intento di perseguire la volontà di Dio e nessun altra volontà.

Vi sono persone che non proveranno mai questa sana inquietudine:

Il “potente”, troppo impegnato a credersi Dio;

Il “dotto”, troppo impegnato a sapere tutto per lasciare che la storia gli ponga domande che interpellino la conoscenza che ancora non possiede;

“L’illuminato”, troppo fanatico e trasportato dal suo stesso entusiasmo da fermarsi per riflettere… e chiedersi se possa essere in errore;

Il “mediocre”, troppo impegnato a consumare il quieto vivere per lasciarsi inquietare da domande sul futuro;

D’altra parte, nessuna di queste categorie è mai stata, per definizione, portatrice di futuro.

E.C.

 

 

La carezza del papa che cambiò il mondo nel ricordo di un cronista

“E quando tornerete a casa stasera, date una carezza ai vostri bambini… e dite: questa è la carezza del papa!” (Giovanni XXIII, 11 ottobre 1962)

* * *

di Gian Franco Svidercoschi
in “Jesus” del gennaio 2013

È una emozione che ritorna di continuo, sistematicamente, da cinquant’anni. Ogni volta che
riascolto la voce di Giovanni XXIII, mentre pronunciava il suo «discorso alla luna», sento subito un
brivido che corre lungo la schiena. E il mio cuore entra in fibrillazione…

Quel mattino dell’ 11 ottobre del 1962, per me, era stato massacrante. Lavoravo come “vaticanista”
per una agenzia di stampa, l’Ansa. E avevo dovuto “telefonare” in redazione, praticamente in diretta,
l’intera cerimonia di apertura del Concilio Vaticano II. Una esperienza che non dimenticherò mai.
Era stato tutto così straordinario. Tutto così nel segno della novità, una incredibile novità.
Prima, in piazza San Pietro, quell’interminabile fila di mitre bianche, di facce nere e gialle, di razze
e lingue le più diverse, dove si rispecchiava anche visibilmente l’universalità del cattolicesimo. Poi,
in basilica, gli osservatori delle Chiese cristiane, gli ex eretici, gli ex fratelli-che-hanno-sbagliato da
riportare all’ovile. E i tanti capi di Stato e di governo, ma stavolta solo come invitati, e non più
come succedeva quando il potere temporale condizionava i Concili e la libertà della Chiesa. Infine,
il discorso di papa Roncalli. Un discorso aperto, coraggioso, illuminante: la critica ai «profeti di
sventura», la distinzione tra il depositum fldei e la sua formulazione, la «medicina della
misericordia» anziché le condanne e gli anatemi di una volta.

Percepivi nell’aria che era la fine di un’epoca. Ma come sarebbe maturata la nuova stagione che
stava appena sbocciando? In quel momento, nemmeno il Papa che l’aveva inaugurata, un Papa di 77
anni ma abitato dallo Spinto, poteva immaginarlo. Oltretutto, c’erano dei segni contraddittori. Un
rito fastoso, di altri tempi, e che si svolgeva al chiuso, nei “sacri recinti”, quindi lontano dal popolo
comune e dalla storia. E le aggiunte —preoccupate di riaffermare la continuità con il passato — che
il Pontefice aveva dovuto introdurre nel suo discorso ufficiale su pressione della Curia romana
conservatrice.

Ed ecco perché il Vaticano II —per me — cominciò realmente soltanto la sera. Cominciò con quelle
parole improvvisate che Giovanni XXIII rivolse alla folla in piazza. Parole semplici, trasparenti,
affettuose, le stesse parole della gente, dell’esistenza quotidiana, fatta di gioie e di dolori, di piccole
grandi cose; parole che invece la Chiesa per tanto tempo non aveva più usato. Ebbene,
pronunciandole di nuovo, Roncalli mise fine al lungo penoso isolamento della gerarchia
ecclesiastica dal popolo, dai suoi problemi, dalla sua vita. La Chiesa, cioè, riprese a camminare
accanto agli uomini e alle donne di tutto il mondo.

A quel punto, l’avventura del Concilio poteva finalmente partire, aveva davanti a sé la strada già
tracciata. E anch’io (avevo ventisei anni), tornato a casa, feci una carezza a mio figlio. E capii che,
se la Chiesa stava cambiando, anche la mia vita, e non solo quella professionale, sarebbe stata
diversa.

Gesti di amore in un mondo che non crede più all’amore

La favola di Natale del Celtic Football Club

La società di calcio fondata dal frate marista, Fratello Walfrid continua ad essere un esempio di carità

di Paolo Gulisano

Da Zenit.org, 18 dicembre 2012

La notizia ha meravigliato e indignato tutta la Gran Bretagna: dei ladri sono penetrati in uno dei più importanti ospedali di Londra, e hanno rubato i regali di Natale destinati ai bambini ricoverati nel nosocomio. Un furto particolarmente odioso.

Il Great Ormond Street Hospital for Children è un istituto medico specializzato nella cura dei bambini. Sorge nel quartiere di Bloomsbury, dove era vissuto Charles Dickens, il grande vittoriano che commosse generazioni di lettori con le sue storie, da David Copperfield a Oliver Twist fino al celebre Cantico di Natale. Fondato nel 1852 come Hospital for Sick Children, fu così il primo ospedale specifico per i bambini, e fu sempre all’avanguardia nella cura e nella ricerca.

È il più grande centro per la ricerca sulle malattie infantili in Europa, ha la più ampia gamma di specialisti per bambini di qualsiasi ospedale della Gran Bretagna ed è il più grande centro per le cure delle cardiopatie infantili, per la neurochirurgia infantile, e per i tumori dei bambini. Le più recenti scoperte di alto profilo includono la terapia genica di successo per le malattie immunitarie, dopo un decennio di ricerca.

Questo è potuto avvenire anche grazie ad un generosissimo lascito di un grande scrittore scozzese, che ha regalato peraltro a generazioni di bambini una delle più belle fiabe degli ultimi due secoli: Peter Pan. James Matthew Barrie, la cui vita non era stata allietata dalla nascita di figli, nel 1929 cedette a titolo definitivo all’ospedale, tutti i diritti d’autore di Peter Pan.

Fu un gesto di grande generosità, che ha fornito un finanziamento significativo per l’ente. Un grande gesto di amore da parte di un uomo che fu tra i più grandi, autentici, puri amici dei bambini di tutti i tempi. Barrie volle regalare loro il sorriso e la gioia con Peter Pan, e volle che la sua opera continuasse anche dopo la sua morte.

Alla generosità di Barrie, si è aggiunta, in questa spiacevole occasione, quella proveniente da oltre il confine invisibile che divide l’Inghilterra dalla Scozia.

Dalla patria di Barrie è giunta infatti l’offerta del Celtic Foot Ball Club, squadra di calcio di Glasgow, che festeggia proprio quest’anno i 125 anni di fondazione.

Il Celtic non è famoso solo per la sua inconfondibile divisa a strisce orizzontali biancoverdi (“Hoops”), e per la vittoria nella Coppa dei Campioni ottenuta – Davide contro Golia – nel 1967 sconfiggendo gli allora imbattibili campioni del mondo dell’Inter di Herrera, prima squadra britannica e nord-europea a conquistare il massimo trofeo continentale, fino ad allora appannaggio esclusivo di squadre latine, ma anche per un’altra peculiare caratteristica: il Celtic, infatti, venne fondato in uno dei più poveri quartieri di Glasgow, Calton, su iniziativa di un frate marista, Fratello Walfrid, originario della contea di Sligo, in Irlanda.

Glasgow infatti dalla metà dell’800 aveva accolto migliaia di irlandesi che cercavano lavoro, sfuggendo alla miseria che imperversava sulla loro terra, e che ricoprivano i ruoli più poveri: minatori, muratori, operai nelle fabbriche di una delle più grandi città industriali del regno. Vivevano in tuguri, in quartieri-ghetto, discriminati per la loro fede cattolica. Solo la Chiesa era accanto ai loro bisogni, attraverso la presenza di sacerdoti e religiosi, che con grandi sacrifici diedero vita a strutture parrocchiali, a chiese e scuole.

Presso una di queste parrocchie, St. Mary, nacque il Celtic Foot Ball Club, nel novembre del 1887. La finalità della squadra biancoverde (i colori dell’Irlanda) era quella di raccogliere fondi, attraverso partite e tornei, da destinare alle opere di carità della Chiesa locale, e così avvenne, ed è avvenuto per 125 anni. Tale evidente identità cattolica della squadra provocò diverse avversioni di tipo settario, proveniente da ambienti che – calcisticamente- si riconoscevano nell’altra squadra di Glasgow, i Rangers, che fino a pochi anni fa non ammetteva tra le proprie fila giocatori cattolici.

Il Celtic, invece, pur essendo nato come una sorta di squadra dell’oratorio, si aprì ben presto a giocatori di ogni confessione, e anche attualmente vi giocano atleti di ogni tipo di denominazione cristiana, oltre a qualche mussulmano e un ebreo.

La generosità di questa squadra, la cui importanza va ben oltre il calcio, e che rappresenta una vera e propria “cultura” amata e seguita in numerosi paesi oltre la Scozia, si è manifestata anche in questa spiacevole occasione del furto al Great Ormond Hospital: il Celtic Football Club infatti ha comunicato che rimpiazzerà, almeno in parte, i giocattoli rubati.

Dopo aver celebrato sul campo la propria favola un mese fa, sconfiggendo il grande Barcellona di Leo Messi, i “Bhoys” oggi hanno deciso di non far mancare ai bambini malati di Londra il sorriso che viene dal ricevere un dono, di rinnovare la fiaba di Peter Pan del loro connazionale Barrie, di tenere vivo il fuoco della Carità che era stato del suo fondatore, e di generazioni di cattolici di Glasgow che hanno sempre coltivato questa virtù.

I bambini del Great Ormond Street Hospital avranno un Natale che sarà anche un po’ biancoverde.

Questa generazione e non un altra… (E. Caruso)

A questa generazione e non ad un’altra sarà chiesto conto di cosa avrà fatto per gestire la crisi di transizione epocale che incombe sulle spalle di ogni uomo e donna. Quando i nostri discendenti ci giudicheranno, e non si tratta di quelli che verranno fra 20 generazioni, ma già dalla prossima, ci giudicheranno in base a cosa avremmo fatto concretamente per lasciare a loro un mondo su cui costruire, a loro volta, il loro futuro, e passare, a oro volta, la consegna alle nuove generazioni. E non ci giudicheranno dicendo “i potenti non hanno fatto nulla”, perché loro sapranno che le cose non stanno così. Vedranno le cose con occhi diversi da noi, e saremo noi ad essere giudicati dalla storia.

Chi crede che il mondo non possa essere cambiato è condannato a subire il trapasso epocale che l’umanità sta vivendo senza speranza.

Non c’è cosa più tragica di una vita senza speranza.

In realtà, l’idea che il mondo è immutabile e che mai nulla potrà cambiare viene dal paganesimo. In base ad essa l’uomo vive e vivrà per sempre sotto l’influsso di forze a lui superiori e imbattibili.

Se la storia ci ha insegnato una cosa, se soprattutto la vicenda di Gesù di Nazareth e la sua esperienza umana, e quella del cristianesimo ci hanno insegnato qualcosa, è proprio che Dio ha creato l’uomo libero.

L’uomo, sì, è schiavo quando un uomo più forte di lui lo assoggetta ai suoi interessi, ma questa schiavitù non può spegnere la libertà dello spirito.

Che l’uomo, oggi, però, si sia convinto che dal salotto di casa sua non può fare niente per cambiare il mondo, non solo è la reminiscenza di una visione pagana del mondo, ma è il risultato della più grande menzogna perpetrata da coloro che da sempre hanno in mano il controllo delle coscienze.

Il mondo lo si può cambiare. Un mondo migliore è possibile perché esso alberga già, come anelito a volte debole come una fiamma, a volte potente, nelle coscienze di uomini e donne, perfino di bambini, dappertutto, in ogni cultura e continente.

Ma il vero cambiamento comincia nel profondo della coscienza di ogni individuo e nelle profondità della coscienza collettiva dell’umanità, laddove, quando si ascolta la voce della coscienza, e ci si relaziona ai segni del nostro tempo, ci si accorge che è finito per sempre un modo di fare la storia e che ora, sotto i nostri occhi, con questa generazione e non un’altra, si decideranno le sorti del futuro dell’umanità.

Ora lo sappiamo. Le fonti combustibili di energia non sono infinite. Per sottrarle dalla terra, i costi stanno salendo sempre di più perché le riserve si stanno esaurendo, e anche se si scoprono nuovi giacimenti, questi non sono sufficienti a garantire neanche una frazione della domanda, visto l’aumento esponenziale dei consumi sul pianeta.

La terra non è in grado di assorbire più gli squilibri prodotti dall’uomo nell’atmosfera, nel terreno e nelle acque, e si sta lentamente e gravemente ammalando, mettendo a rischio la sopravvivenza di milioni di individui già oggi, ma soprattutto della futura umanità. Se il livello dei mari dovesse innalzarsi di soli pochi centimetri in media, per lo scioglimento dei ghiacciai causato dal riempimento dell’atmosfera dei gas serra, milioni di persone che vivono sulle coste vedrebbero scomparire le loro città per l’invasione delle acque.

Più fame e disperazione continueranno a produrre i nostri sistemi economici in Occidente, più gommoni pieni di questi disperati vedremo sbarcare sulle nostre coste. Ed è inutile dire che dietro c’è un commercio losco che guadagna sull’immigrazine clandestina e che vede implicati perfino i governi di quei paesi. Nessuno lascerebbe la sua patria se possedesse una famiglia felice, una casa, un lavoro e un terreno…. La verità è lampante come una equazione matematica: l’aumento del flusso di immigrati clandestini verso le coste dell’Europa, oppure dal Sud America verso gli Stati Uniti, è direttamente proporzionale alla povertà e alla disperazione prodotta dalle guerre e dalla sottrazione sistematica delle terre e delle sue risorse a queste popolazioni.

E l’equazione si può esprimere in quest’altro modo, come un circolo vizioso:

  • il consumatore consuma per essere felice…
  • … e mentre consuma di più, cresce la macchina della produzione … per alimentare a sua volta la macchina del consumo…
  • e man mano che cresce la macchina produttiva, chi governa l’economia e ne trae profitto deve reperire le risorse per tenere in movimento, 24 su 24, 7 giorni alla settimana, le fabbriche che producono, altrimenti si inceppa la produzione e la gente consuma di meno e il sistema guadagno di meno;
  • per reperire le risorse che servono si va dove queste risorse costano meno. Se necessario si fa la guerra per accaparrarsi le risorse che servono per produrre, e si assoggettano le vite umane di quelle terre perché la loro manodopera costerà quasi zero, senza alcun riguardo per l’ecosistema…
  • in tal modo si potrà continuare a produrre sempre e sempre di più, a costi sempre più vantaggiosi e vendere a prezzi che stabilirà chi controlla il sistema…
  • affinché tutti consumino … e consumino sempre di più … e siano felici…
  • … e chi controlla l’economia sia sempre più ricco…

Questa è l’idea fondamentale su cui poggia società civiltà occidentale oggi.

Se si continua a calcolare la crescita dell’economia in PIL e secondo una concezione di sviluppo basata sul folle consumismo dei paesi occidentali, la frattura fra ricchi e poveri nel mondo, anche all’interno dei paesi ricchi, si farebbe talmente acuta da scatenare una guerra infinita per l’accaparramento del cibo per la mera sopravvivenza di molti. E in molte parti della terra si farà la guerra solo per avere accesso all’acqua.

Se continuiamo a condurre stili di vita che alimentano una economia che permette la moltiplicazione folle dei mega centri commerciali, perché ce ne sia uno almeno ogni trenta-cinquanta chilometri da casa nostra, per venderci capi firmati dell’ultima marca della moda più recente, inevitabilmente dall’altra parte del mondo bambini e donne saranno obbligati a lavorare nei sotterranei, per pochi spiccioli e qualche biscotto, per produrre quantità sempre più enormi di prodotti per soddisfare la domanda di quelli che vogliono comprare. Chi vuole ad ogni costo un motore sempre più grosso per la sua auto, deve sapere che dall’altra parte del mondo si farà una guerra per lo sfruttamento della manodopera per produrre i pezzi di quel motore, o per conquistare il controllo dei pozzi petroliferi della benzina che andrà ad alimentare quei motori.

Dalle fonti di energia all’ecologia, da una concezione dell’economia ancora basata interamente e follemente sul PIL e sulle speculazioni finanziarie agli stili di vita iperconsumistici, oramai le sorti del futuro stanno nelle mani di ciascuno individualmente tanto quanto lo sono di tutti collettivamente.

Ciò che è cambiato è che oggi, rispetto a cinquant’anni fa, lo sappiamo. E’ nata una nuova coscienza degli uomini circa il presente e il futuro. E sappiamo che i veri destini dell’umanità non si decideranno al palazzo dell’ONU né alla Casa Bianca o nei Parlamenti del mondo, ma nelle case delle persone e delle famiglie che permettono – che permettiamo – a un sistema anti-umano di continuare ad esistere…. E’ giunto il momento di entrare in dialogo con la nostra coscienza, e di dare ascolto a quella voce.

E’ giunto il momento di una conversione interiore profonda per dare vita a un nuovo mondo, che nasca prima nel profonda dell’interiorità degli individui e della coscienza collettiva, e poi nelle strutture della convivenza civile.

E’ questa l’ora.

(EC)

I quattro peccati della postmodernità

Avverire – 11 novembre 2011

La denuncia del degrado antropologico indotto dai modelli culturali della società dei consumi e dello spettacolo è pressoché unanime. L’inerzia propositiva, però, è altrettanto generalizzata. Il sistema dominante del conformismo critico, d’altra parte, è occhiuto e minaccioso. Guai a chi è colto nel flagrante delitto di invocare forze proporzionate di reazione agli eccessi e di sviluppare forme di negazione determinata dei loro presupposti sistemici. La città brucia e impieghiamo la maggior parte del tempo a spiegarci tra noi. In ogni caso, siamo ormai in regime di dialogo permanente da un bel po’, ma l’accanimento delle parti per la pura difesa del diritto di stare in scena si aggrava ogni giorno. Devoti ossessivi e sbeffeggiatori impudenti ricavano energie parassitarie dalla nostra radiazione malinconica di fondo, che ormai si diffonde globalmente. E le investono su opposti estremismi, in nome della fede o della ragione, confondendo molti.

In un mondo che perde logos, la reazione a catena del polemos (della guerra, della violenza, dell’aggressività di tutti contro tutti) guadagna terreno e si fa incontrollabile. In un mondo che rimane senza l’audace e creativa testimonianza dell’umanesimo cristologico, il politeismo degli dèi razzisti e corporativi occupa la scena. Il tentativo di annichilire il cristianesimo lavora certamente per il nichilismo, dovunque accada. Lo svuotamento dell’incarnazione di Dio fa regredire la religione e l’ominizzazione: indisgiungibilmente. Per questo, noi per primi ci dobbiamo purificare col fuoco, pur di restituire all’Evangelo il suo onore. Non solo la sua verità. L’Occidente, del resto, ha covato a lungo il suo uovo di serpente. Puntuale, arriva la sua moria dei primogeniti. Infine, c’è del lavoro urgente da fare: riguarda beni di prima necessità per l’ominizzazione, che il mercato ha dismesso. Chi ha qualcosa da dare, e voglia di lavorare per il riscatto della generazione, a qualsiasi popolo appartenga, sarà bene accetto.

La ripresa di iniziativa culturale del cristianesimo chiede, dal canto suo, disincanto del mondo, cultura impeccabile, passione per la cosa. Non siamo nel peggiore dei mondi possibili: è un mondo che abbiamo contribuito a generare. Nel deserto del suo abbandono, il popolo si rassegna a farsi vitelli d’oro. Ormai c’è assuefazione. Ma l’idolo è sempre una faccenda di testa. L’idolo è un simbolo, un esorcismo: anche una passione vera che diventa ossessione di un dio falso. È di questi idoli «di testa» che voglio parlare. Individuo una priorità strategica. Scelgo quattro figure dell’idolatria culturale postmoderna la cui interdipendenza fa da moltiplicatore per un vasto indotto di superstizione: la fissazione della giovinezza, l’ossessione della crescita, il totalitarismo della comunicazione, l’irreligione della secolarizzazione. Evidentemente, in queste figure ci sono termini che evocano immediatamente oggetti e fatti che non hanno in sé nulla di demoniaco o di idolatrico. Questa è precisamente la serietà dell’insidia.

L’idolatria di maggiore successo si raccomanda proprio in virtù della sua apparente esaltazione di ciò che rappresenta una promessa di realizzazione buona del desiderio collettivo. Corruptio optimi pessima. L’eccellenza che si concede alla corruzione genera il peggio del peggio. La volontà di potenza che preme per travolgere il vincolo fra legame sociale e umanesimo etico, sotto il segno del progresso delle tecniche e dell’aumento delle risorse, ha individuato queste figure come simboli funzionali alla propria legittimazione. La testa del parassita, però, che ha piegato irresistibilmente verso l’idolatria il moderno umanesimo razionalistico della coscienza, ha una precisa identità. Lo indico come principio di autorealizzazione.

Nel passaggio all’autorealizzazione tecnologica dell’Io pensante, che lo ha travolto, si è innescata la deriva del nichilismo specifico della nostra contemporaneità: l’autismo etico dell’Io sentimentale. Eresia della verità cristiana della persona, il cui logos aveva aperto l’Occidente alla sua destinazione. Corruzione dell’umanesimo moderno, che ha requisito il pathos dell’immenso e felice lavoro della generazione, dirottandolo verso le tristi passioni di un ethos individualistico e predatore, che diventa nomos di massa. Le figure etiche dell’autodeterminazione (libertà di coscienza, potenza della volontà) ne sono state inquinate e stravolte: sottratte alla splendida giustizia del voler-bene; e indotte a lavorare, per la propria emancipazione, contro l’umano che è comune.

La civetteria postmoderna dell’intellettuale, che fornisce legittimazione all’individualismo etico, e giustifica criticamente l’intimidazione di ogni umanesimo difforme – soprattutto quello cristiano –, fa il lavoro della seconda Bestia. Le vittime designate per l’offerta al drago, come tutti sanno, sono ragazzi e ragazze. Non ne abbiamo mai consegnati così tanti. Noi, popoli cristiani d’Occidente, abbiamo meritato le conseguenze di questa ricaduta nel paganesimo. Ma ci è consentito un soprassalto di orgoglio: possiamo smascherare l’idiozia della cultura che pretende di rappresentarci, e aprire mille luoghi di liberazione dalla dipendenza dei signori delle tessere che ne traggono profitto. L’idolo del postmoderno non ci rappresenta. Ci sono rimasti assai più di dieci giusti, per convincere Dio, in favore delle generazioni che vengono, che non siamo così indegni dei doni ricevuti.

Pierangelo Sequeri

La vera natura della crisi del mondo è spirituale. Solo una rivoluzione spirituale potrà salvarlo.

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L’Occidente non trova gli strumenti per uscire da una crisi di senso prima che economica
Siamo davanti a un  deficit  strutturale

Il fallimento del neo-materialismo contemporaneo conferma che lo sviluppo o è spirituale o non è

È appena uscito in libreria il saggio “La grande contrazione” (Milano, Feltrinelli, 2012, pagine 325, euro 25). L’autore, sociologo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, propone una lettura della società contemporanea andando alle radici culturali e spirituali dell’attuale crisi economica. Temi affrontati anche in un articolo scritto per la «Rivista del clero» (3/2012) di cui riportiamo alcuni stralci.

di Mauro Magatti

Il XX secolo segna un passaggio di straordinaria importanza nella storia secolare della cultura occidentale. All’interno delle scienze della natura interviene infatti un cambiamento epistemologico fondamentale. Mi riferisco al fatto che l’idea che noi come contemporanei abbiamo della materia oggi è completamente diversa da quella del passato: la materia, nella sua intima costituzione è ridotta a campo energetico, viene “smaterializzata”. A partire dalla teoria della relatività di Einstein, abbiamo imparato a pensare la materia come energia. Ciò rappresenta una fondamentale soluzione di continuità nella nostra rappresentazione della realtà. La materia, infatti, diventa energia altamente condensata, energia che può essere liberata: dalla materia all’atomo, dall’atomo alle particelle subatomiche, dalle particelle subatomiche ai pacchetti di energia, dai pacchetti di energia alle superstringhe vibranti fino al vuoto quantico.

Sul piano dell’immaginario collettivo, ciò determina un effetto tutt’altro che trascurabile, dato che la materia perde la sua “materialità” in favore di una visione energetica all’interno della quale prevalgono forme instabili di organizzazione basate su campi e reti. In questa prospettiva, la materia viene definita come tutto ciò che ha massa e dimensioni (discontinuità nello spazio) ed è soggetta alla forza di gravità. La materia deve essere considerata come uno stato di riposo dell’energia: materia ed energia sono quindi aspetti diversi di una stessa entità fisica. Lungo questa strada, si arriva anche alla ridefinizione del rapporto tra materiale e spirituale: a fronte del nuovo immaginario su che cosa sia la materia è questa seconda dimensione che, in un primo momento almeno, sembra costretta a dover battere in ritirata.

Si pensi, prima di tutto, al caso delle neuroscienze, dove negli ultimi anni si è sviluppato un ampio dibattito sulla «naturalizzazione delle intenzioni». Sviluppando la prospettiva di Spinoza e Comte, si applica al cervello umano lo stesso modo di studio applicato dalle scienze sperimentali. Persa ogni differenza, il cervello è semplicemente un complesso sistema di circuiti neuronali. Dall’altra parte, si pensi alla capacità di intervenire chimicamente sul funzionamento del cervello o sullo stato psichico: non sono queste dimostrazione della pura natura materiale della nostra stessa interiorità?

Nell’ambito della spiegazione “cosmologica”, i fisici quantistici e gli astrofisici parlano di «energia di fondo» o «vuoto quantico». Si tratta di un vuoto che rappresenta la pienezza di tutte le possibili energie e delle loro eventuali densificazioni che prendono “corpo” in una infinità di forme e di esseri viventi. Per esprimere questa idea, oggi si preferisce l’espressione pregnant void, «vuoto pregno». Si tratta di qualcosa che sfugge alle categorie convenzionali di spazio-tempo, qualcosa di anteriore allo stesso spazio-tempo.

Gli astrofisici lo immaginano e la descrivono come un vasto oceano, senza margini, illimitato, ineffabile, indescrivibile e misterioso, in cui, come in un utero infinito, sono in origine ospitate tutte le possibilità e le virtualità dell’essere. È da qui che sarebbe emerso, senza che si possa sapere perché e come, quel piccolo punto estremamente pregno di energia, inimmaginabilmente caldo, che, esplodendo (big bang), ha poi dato origine al pluriverso nel quale esiste il nostro universo.

Un tale salto epistemologico sta alla base e trova riscontro anche in fondamentali applicazioni tecniche del tempo che viviamo: penso, in particolare, agli sviluppi che hanno interessato l’ambito informatico e telematico, dove si diffonde l’uso di un ossimoro come “realtà virtuale” che si definisce come realtà simulata, digitalizzata. Anche se l’uso quotidiano di queste tecnologie fa perdere la portata del loro impatto sull’immaginario contemporaneo, è chiaro che l’istantaneità di cui sono portatrici ci fa fare l’esperienza di una materialità che supera il vincolo spazio-temporale. Come nel caso del banale invio di una email che può istantaneamente arrivare dall’altra parte del mondo: non è questa un’esperienza in passato riservata a forze divine o magiche? Grazie alle risorse di calcolo, dei computer e delle altre tecnologie di interfaccia è inoltre possibile ricreare un ambiente del tutto simile alla realtà al punto che un “partecipante” non riesce più a cogliere la differenza rispetto alla “realtà reale”. In questo modo diventa poi possibile la moltiplicazione artificiale della realtà.

La nostra è dunque un’epoca profondamente neo-materialista. Neomaterialista perché l’idea del materialismo acquisisce oggi una forza che non ha mai avuto in passato. Ciò che chiamo capitalismo tecno-nichilista altro non è che la traduzione storico-sociale di questa concezione neo-materialista che domina nella epistemologia contemporanea. Il combinarsi di un tecnicismo esasperato che fonda la propria legittimazione sul mero criterio del funzionamento e di un nichilismo che vive dell’equivalenza assoluta dei significati è la principale conseguenza.
Pretendendo di vivere senza riferimento a un senso il tecno-nichilismo sostituisce l’infinito con l’infinitazione, cioè con la moltiplicazione delle opportunità, delle contingenze e delle differenze. In questo modo, il tecno-nichilismo finisce, letteralmente, per rimuovere la realtà, coincidente con ciò che l’essere umano ha la presunzione di costruire (attraverso la tecnica o la comunicazione). Per questo, esso finisce per essere un tempo fantasmagorico, dove a prevalere sono le illusioni («il-ludo»).

In questa cultura, esiste solo ciò che è visibile, ciò che viene rappresentato. Si afferma così una concezione neo-sofista dove quello che viene messo in scena in modo efficace convince e viene assunto come reale. L’unico linguaggio che non finisce nella babele contemporanea è quello matematico, linguaggio che si incarna negli apparati tecnico-economico che restano così incatenati alla numerazione e alla quantificazione. Ciò che ci deve sorprendere più di ogni altra cosa è che questo tempo, che si è dispiegato così potentemente negli ultimi decenni, arriva oggi a un punto drammatico di crisi. Trent’anni di espansione lasciano una pesantissima eredità: montagne di debiti, livelli elevati di disuguaglianza, problemi diffusi di depressione. E, ciò che più conta, è come se l’Occidente, dopo aver dominato l’intero mondo per due decenni — cioè a partire dalla conclusione che aveva caratterizzato il Novecento col modello sovietico — si ritrovasse completamente incapace di pensare e praticare il futuro.

È in questa prospettiva che si devono interpretare le bolle finanziarie che hanno caratterizzato gli ultimi anni dello sviluppo economico. Attraverso la moltiplicazione fittizia di nuovi strumenti tecnici — che hanno lavorato su una non-materia — la possibilità di indebitarsi non ha più limiti imprimendo all’economia una velocità di crescita senza precedenti basata però su un gioco di scambi fittizio. Alimentato dal circuito potenza-volontà di potenza. È questa la ragione profonda che sta alla base della grave crisi che ha investito l’Occidente: ciò che è collassato è l’idea che lo sviluppo tecnico può procedere senza limite.

Così, la materia smaterializzata, per quanto accelerata e sollevata, si ripiega su di sé, inerte. Despiritualizzata, essa non regge e non vive. Lo dimostra, appunto, la crisi nella quale ci stiamo dibattendo. Non si tratta solo di economia e finanza. È che la depressione si diffonde come malattia sociale mentre molti indicatori ci parlano di crisi del desiderio. Non male per una società che è nata proprio per “liberare” il desiderio.

Dato che c’è solo il pensiero metaforico che si muove in orizzontale e si perde l’analogia che ci permetterebbe di verticalizzare, la società dei liberi finisce per ritrovarsi in una nuova prigione fatta di istantaneità e slegamento. La sostanza della tecnica — che sfugge a qualsiasi contestazione — si separa dal reale. Il concetto, geloso della propria purezza, diventa così autoreferenziale e viene sospinto avanti solo dalla volontà di potenza. La crisi che abbiamo davanti a noi non è, dunque, semplicemente “economica”, una crisi di efficienza. È, piuttosto, una crisi di senso. Una crisi spirituale.

La cosa è quanto mai interessante, perché il neo-materialismo imperante, che ha pensato di sostituire lo spirito con la mobilità, l’accelerazione, la sensazione, finisce in un cul de sac, dal quale non sa più come uscire.

Il fallimento del neo-materialismo contemporaneo conferma che lo sviluppo o è spirituale o non è. Lo aveva già chiarito Max Weber. Il capitalismo, nel suo fondamento materialistico, sussiste e supera se stesso solo alleandosi con uno spirito. La crisi di oggi è crisi spirituale perché lo spirito individualista e materialista che si è affermato dagli anni Sessanta e Settanta è giunto al suo stesso limite. Per superare la crisi, occorre tornare all’origine del problema che è prima di tutto spirituale. La questione è molto impegnativa dato che la partita si gioca attorno alla capacità di ridire, nel tempo in cui viviamo, la parola spirito. Cioè di dire diversamente libertà.

Compito molto difficile. Mi limito dunque a uno spunto: il termine “spirito” viene dalla radice spas-spus che significa soffiare, esalare, alitare, in italiano «spirare». Il vento, infatti, spira. È interessante osservare che anche la parola speranza viene dalla medesima radice spas-spus nel senso di «a-spirare» e di spingere verso. Dunque, la speranza — come atto spirituale — indica la capacità dell’essere umano di desiderare qualche cosa di buono, di bello, di vero. Un’ulteriorità. Qualche cosa di qualitativamente differente dall’esistente.

La speranza è esattamente l’eccedenza che manca al nostro tempo, che per questo non ha futuro. La crisi dell’Occidente consiste nell’aver confuso l’espansione — materiale, quantitativa, acquisitiva, individualistica, orizzontale — con l’eccedenza — spirituale, qualitativa, donativa, relazionale, verticale.

Uscire dalla crisi significa sanare questo movimento, non riducibile alla sola orizzontalità, ma che ha bisogno anche di verticalità. È proprio tale confusione, derivante dall’attacco neo-materialista alla dimensione spirituale, che ci consegna questa crisi drammatica nella quale noi oggi rischiamo di sprofondare.

Il punto è recuperare l’idea che l’essere umano esiste non solo per via di una infinità quantitativa, ma come unicità qualitativamente infinita; esiste cioè non solo in rapporto ad alcune cose — da possedere, numerare, ridurre a sé — e non solo a cose che gli stanno immediatamente intorno; egli, infatti, risponde al mondo intero, alla totalità dell’essere, alla vita, e risponde rispetto a una interpellazione di senso che chiama in causa la dimensione spirituale, espressiva, qualitativa, relazionale — in una parola, potremmo dire, l’eccedenza propria della vita.

Questa eccedenza è essenzialmente spirituale e qualitativa, espressiva e relazionale. Non affrontare di nuovo tale questione condannerebbe l’Occidente al suo declino.

 

Istruzioni per una nuova società. Perché la collaborazione sregolata migliora il mondo

FONTE: ZYGMUNT BAUMAN – LA REPUBBLICA | 21 MAGGIO 2012

 

Anticipiamo parte dell´intervento dedicato alla solidarietà che Bauman terrà a “Dialoghi sull´uomo”, a Pistoia

Tutti i precari soffrono, ma queste sofferenze non si sommano, dividono coloro che le subiscono, negandogli il conforto di un destino comune Bisogna accettare che, in questo gioco, sia guadagnare che perdere siano concepibili solo insieme. O guadagniamo tutti o perdiamo tutti

Per quanto ne so, è stato un economista, il professor Guy Standing, a coniare (e ha colto nel segno!) il termine precariat. Lo ha fatto per rimpiazzare contemporaneamente i termini proletariat e middle class (ceto medio), ormai ampiamente giunti a scadenza e divenuti dei «termini zombi», come li avrebbe certamente definiti Ulrich Beck. Come suggerisce il blogger che si cela dietro lo pseudonimo di Ageing Baby Boomer (cioè un figlio del baby boom in là con gli anni) «è il mercato che definisce le nostre scelte e ci isola impedendo a chiunque di mettere in discussione il modo in cui tali scelte sono definite. Chi fa una scelta sbagliata sarà punito. Ma a rendere tanto crudele il mercato è il fatto di non tenere minimamente conto che certe persone sono molto meglio attrezzate di altre per scegliere bene perché possiedono il capitale sociale, il sapere o le risorse finanziarie».
Ciò che «unifica» il precariato, ciò che tiene insieme quell´insieme estremamente diversificato facendone una categoria coesa, è la sua condizione di massima frammentazione, polverizzazione, atomizzazione. Tutti i precari soffrono, indipendentemente dalla loro provenienza o appartenenza, e ciascuno soffre da solo. Ma tutte queste sofferenze sopportate individualmente mostrano una somiglianza sorprendente fra loro. Si riducono a una cosa sola: la pura e semplice incertezza esistenziale, una spaventosa miscela di ignoranza e di impotenza che è fonte inesauribile di umiliazione.
Tuttavia queste sofferenze non si sommano, anzi dividono e separano coloro che le subiscono, negando loro il conforto di un destino comune, e fanno apparire risibili gli appelli alla solidarietà.

Tale condizione, sin troppo visibile benché si tenti di dissimularla con ogni mezzo, testimonia che le autorità – quanti hanno il potere di accordare o negare diritti – hanno rifiutato a loro i diritti riconosciuti ad altri esseri umani, «normali» e quindi rispettabili. In tal modo essa testimonia, indirettamente, dell´umiliazione e del disprezzo di sé che sono inevitabile conseguenza dell´avallo, da parte della società, dell´indegnità e dell´ignominia che colpisce alcune persone.

La politica emergente – l´auspicata alternativa a meccanismi politici ormai screditati – tende a essere orizzontale e laterale, anziché verticale e gerarchica. A me essa ricorda uno sciame: come sciami di insetti, alleanze e raggruppamenti sono creazioni effimere, facili da mettere insieme, ma difficili da tenere insieme per il tempo necessario a «istituzionalizzarsi», cioè a costruire strutture durevoli. Possono fare senza quartieri generali, burocrazia, leader, supervisori o caporali. Si unificano e si disperdono pressoché spontaneamente e con la stessa facilità. Ogni momento della loro vita è intensamente appassionato, ma notoriamente le passioni intense svaniscono presto. Non si può erigere una società alternativa sulla sola passione: l´illusione della sua fattibilità consuma gran parte delle energie che costruirla richiederebbe.

Se le rivoluzioni non sono prodotti della disuguaglianza sociale, i campi minati sì. I campi minati sono aree disseminate di esplosivi sparsi a casaccio: si può star certi che una volta o l´altra qualcuno di essi esploderà, ma quale, e quando, non si può stabilire con qualche grado di certezza. Poiché le rivoluzioni sociali sono eventi con uno scopo e con un obiettivo, è possibile fare qualcosa per localizzarle e sventarle in tempo, mentre ciò non vale per le esplosioni dei campi minati. Qualora il campo minato sia stato predisposto da soldati di un esercito, si possono spedire altri soldati, appartenenti a un altro esercito, per estrarre le mine e disarmarle: un lavoro rischioso quant´altri mai, come ci rammenta incessantemente l´antica saggezza del soldato: «L´artificiere sbaglia una volta sola». Ma questo rimedio, per quanto insidioso, non è disponibile nel caso dei campi minati predisposti dalla disuguaglianza sociale: a seminare le mine e poi a estrarle deve essere lo stesso esercito, che non può smettere di aggiungere nuovi ordigni ai vecchi né evitare di metterci il piede sopra più e più volte. Seminare mine e cadere vittime delle loro esplosioni fanno tutt´uno.

Tutte le varietà di disuguaglianza sociale scaturiscono dalla divisione fra ricchi e poveri, come osservava già mezzo millennio fa Miguel Cervantes de Saavedra. Tuttavia, in epoche diverse, possedere o non possedere oggetti diversi sono rispettivamente la condizione più appassionatamente desiderata e quella più appassionatamente sofferta. Due secoli fa in Europa, ancora pochi decenni fa in alcuni luoghi distanti dall´Europa, e ancor oggi su alcuni campi di battaglia di guerre tribali o parchi-giochi delle dittature, l´obiettivo primario che poneva in conflitto ricchi e poveri era il pane o il riso. Grazie a Dio, alla scienza, alla tecnologia e a certi espedienti politici ragionevoli, non è più così. Ma ciò non significa che la vecchia divisione sia morta e sepolta: al contrario… Oggigiorno, gli oggetti del desiderio la cui assenza è più acutamente sentita sono molti e vari, e il loro numero aumenta giorno per giorno come anche la tentazione di ottenerli. E così crescono l´ira, l´umiliazione, il rancore e il risentimento suscitati dal non averli; e con essi il desiderio di distruggere ciò che non si può avere. Saccheggiare i negozi e darli alle fiamme sono gesti che possono derivare dal medesimo impulso e gratificare il medesimo desiderio.

Oggi gli europei sono 333 milioni, ma nel giro di 40 anni, all´attuale tasso medio di natalità (tuttora in calo in tutto il continente), scenderanno a 242 milioni. Per colmare il divario saranno necessari almeno 30 milioni di nuovi arrivi, altrimenti la nostra economia europea subirà un tracollo, e con essa il tenore di vita che ci sta tanto a cuore. Ma come possiamo integrare comunità differenti?

In un piccolo ma interessante studio, Richard Sennett suggerisce che «una collaborazione informale e senza limiti prefissati è la via migliore per fare esperienza della differenza». In questa formula, ogni parola è decisiva. «Informalità» significa che non vi sono regole della comunicazione prestabilite: si ha fiducia che si autosviluppino mano a mano che aumenta la portata, la profondità e la significatività della comunicazione: «I contatti fra persone dotate di competenze o di interessi diversi sono ricchi quando sono disordinati e deboli quando vengono regolamentati». «Senza limiti prefissati» significa poi che l´esito dovrebbe seguire una comunicazione presumibilmente protratta, anziché essere prestabilito in modo unilaterale: «Si desidera scoprire l´altra persona senza sapere dove ciò lo condurrà; altrimenti detto, si desidera evitare la ferrea norma dell´utilità che stabilisce uno scopo – un prodotto, un obiettivo politico – fissato anticipatamente». E infine «collaborazione»: «Si suppone che le varie parti ci guadagnino tutte dallo scambio, e non che una sola guadagni a spese delle altre». Io aggiungerei: bisogna accettare che, in questo gioco particolare, sia guadagnare che perdere siano concepibili soltanto insieme. O guadagniamo tutti o perdiamo tutti. Tertium non datur.

Sennett riassume il suo suggerimento come segue: «Gli uffici e le strade diventano inumani quando dominano la rigidità, l´utilità e la competizione; diventano umani quando promuovono interazioni informali, senza limiti prefissati, collaborative».
Io penso che tutti noi che siamo chiamati e desideriamo insegnare potremmo e dovremmo imparare la nostra strategia da quel triplice precetto,

laconico ma onnicomprensivo, espresso da Richard Sennett. Imparare noi stessi per metterla in atto, ma anche – ed è la cosa più importante – trasmetterla a coloro che sono chiamati e desiderano imparare da noi.

(Traduzione di Marina Astrologo)

La via di Edgar Morin per salvare un mondo che va troppo in fretta

di Fabio Gambaro, Il Venerdì, 16/03/2012

Come sopravvivere alla crisi economica, ecologica, politica e sociale del pianeta?

Serve una metamorfosi dell’umanità simile a quelle che ci traghettarono fuori dalla Preistoria e dal Medioevo.

Parigi. “Ciò che si profila come probabile – vale dire la crisi ecologica, economica, politica e sociale del mondo in cui viviamo – mi spinge a essere pessimista. L’improbabile è però sempre possibile. Quindi resto ottimista e continuo a credere che si debba e si possa trovare una strada per evitare di finire nel baratro”. A novantuno anni, Edgar Morin non si stanca d’immaginare un mondo migliore e le modalità per realizzarlo, motivo per cui nel suo ultimo saggio, La via (Raffaello Cortina), condensando oltre mezzo secolo di ricerche e riflessioni, propone le sue soluzioni “per l’avvenire dell’umanità” e una trasformazione globale della società. Progetto vasto e ambizioso, ma al contempo concreto e praticabile, in cui il filosofo e sociologo francese specialista della complessità indica la via da seguire per realizzare quella “metamorfosi” che, sfuggendo a ogni facile manicheismo e ad ogni alternativa binaria, sola ci consentirebbe di sfuggire al disastro planetario annunciato.

“Di fronte a un realtà stravolta da un’economia senza regole che distrugge il Pianeta e la società, non basta più indignarsi” dice lo studioso autore di numerosi saggi, tra cui i sei volumi del Metodo, Terra-Patria e I sette saperi necessari all’educazione del futuro. “Occorre provare a tracciare un percorso al contempo utopico e realistico per invertire la tendenza. Non solo il cambiamento è possibile, ma è di fatto già iniziato grazie a numerose piccole iniziative locali. Iniziative che è necessario federare per creare una massa critica irreversibile. All’origine dei grandi cambiamenti ci sono sempre delle singole azioni. Quello che occorre è la coscienza della crisi e la volontà politica del cambiamento. Se c’è tale volontà, allora si trovano i mezzi necessari per evitare la catastrofe”.

Nel libro lei critica l’idea di sviluppo. Perché?
“La mondializzazione porta in sé l’occidentalizzazione e il mito dello sviluppo fondato sull’idea di una crescita infinita. È un mito che ci porta dritti contro un muro. Non possiamo continuare a riempire il Pianeta di automobili, di centrali e di megalopoli. Questo modello di sviluppo – figlio di un liberalismo economico senza regole, tutto teso a produrre e a consumare sempre di più – comporta conseguenze disastrose per la biosfera e le risorse naturali. Oggi, si parla molto di sviluppo sostenibile, che però mi sembra solo una mezza misura. In realtà, occorre affrontare e spaccare il nocciolo duro, tecno-economico, del concetto tradizionale di sviluppo, per salvarne solo alcuni elementi da mettere al servizio di un altro modello di sviluppo umano. È un problema urgente che riguarda tutti”.

È per questa ragione che parla di Terra-patria?
“L’aspetto positivo della mondializzazione è che ormai c’è una comunità di destino di tutti gli esseri umani, ovunque essi si trovino. Siamo tutti di fronte agli stessi problemi fondamentali e alle stesse minacce mortali, sul piano ecologico, climatico, sociale, nucleare, ecc. Una patria è una comunità di destini, quindi la Terra è la patria comune che dobbiamo cercare di salvare in una situazione dove sembra non esserci più futuro e quindi prevalgono l’incertezza, la paura e le logiche regressive. In passato si pensava che la storia fosse guidata dalla legge del progresso. Le crisi del XX secolo hanno spazzato questa illusione”.

Che cosa fare allora?
“Al sistema terrestre minacciato da tutte le parti resta solo la via della metamorfosi. In natura, un sistema, quando non riesce più a risolvere i propri problemi vitali, se non vuole perire, è costretto alla metamorfosi. Il bruco è capace di autodistruggersi e autoricostruirsi per diventare una farfalla. L’idea della metamorfosi non è una follia, è una realtà che si è già realizzata altre volte nella storia del Pianeta, nella preistoria ma anche nel Medioevo”.

La metamorfosi è però un’operazione complessa e delicata…
“Per salvarsi occorre avere un approccio dialettico, nel tentativo di tenere insieme idee che sulla carta si oppongono. Non credo alla rivoluzione che fa tabula rasa del passato, producendo spesso realtà peggiori di quelle che ha voluto trasformare. Al contrario, abbiamo bisogno di tutte le riforme culturali della storia dell’umanità per trasformare e trasformarci. Per questo è necessario conservare tutti gli aspetti positivi della mondializzazione, che per me contiene il meglio e il peggio. Insomma, occorre al contempo mondializzare e de-mondializzare a seconda degli ambiti, favorire la crescita ma talvolta la decrescita, tenere conto dello sviluppo ma anche dell’inviluppo, della trasformazione come della conservazione. Questa strategia complessa ci consente di conservare la speranza, che naturalmente non è una certezza. Anzi, visto il contesto, la speranza è perfino improbabile. La storia però ci insegna che a volte l’improbabile è riuscito a prendere il sopravvento”.

La scienza ha un compito privilegiato in questo processo?
“Anche la scienza è ambivalente, dato che porta in sé minacce e speranze. La scienza moderna si è sviluppata nel XVII e XVIII secolo, liberandosi da ogni controllo morale e politico. Si è così garantita libertà di ricerca e autonomia. C’è stato un periodo in cui la scienza, la tecnica, la ragione, la giustizia, la democrazia e l’uguaglianza avanzavano assieme. Oggi non è più così. La scienza si sviluppa a una velocità senza precedenti, che non lascia il tempo alla società di elaborare un pensiero capace di accompagnarla. La scienza si occupa dei fatti e non dei valori, ma il suo potere sulle nostre vite è diventato enorme, senza dimenticare che spesso essa è pesantemente condizionata dalla ricerca del profitto a ogni costo. È dunque necessario reintrodurre una riflessione etica che ne regoli gli eccessi”.

Nel libro lei propone diverse riforme concrete. Con quali priorità?
“Tutte le riforme devono cominciare contemporaneamente, perché sono tutte collegate tra loro. Le riforme della scienza, della conoscenza e dell’educazione sono però prioritarie perché fondamentali. In ambito scientifico, ma non solo, abbiamo bisogno di un approccio interdisciplinare, per non perdere di vista la visione d’insieme. Quando le conoscenze sono troppo specialistiche, frammentarie e prive di collegamenti si rischia di produrre una nuovo tipo di accecamento. Ma naturalmente, per salvare l’umanità, occorre lanciare al contempo anche le altre riforme, quelle che riguardano la società e il nostro modo di vivere, la nostra relazione con le risorse e la biodiversità, come pure il nostro modo di produrre e consumare, di costruire le città e di spostarci. Ci sono solo due modi per uscire da una crisi. La regressione che torna al passato oppure la creatività che, con un grande sforzo d’immaginazione, inventa soluzioni inedite. Io ho scelto da tempo questa seconda possibilità”.

Economia e logica del dono, riflessioni su “La vita buona” – di Angelo Scola

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Dal Blog AngeloScola.it 30 aprile 2012

Per uscire dalla crisi occorre entrare con coraggio nel principio di gratuità. Vale a dire, perseguire azioni che non siano subito incanalate nella strettoia dell’utile, dell’interesse o dello scambio, ma che in sé e per sé respirino nell’orizzonte infinito del vero, del bene e del bello

di Angelo Scola, Arcivescovo di Milano

La fede cristiana, e prima ancora quella ebraica, è la fede in un Dio che si è coinvolto con la famiglia umana.

Un Dio che, per amore, è entrato nella storia, cioè nella vita quotidiana dell’uomo di ogni tempo. Noi a volte rischiamo di dimenticarcene; ma, perdendo questo «fondamentale» della nostra fede, perdiamo la sostanza del fatto cristiano come tale.

In forza della fede il cristiano è l’esatto contrario di un uomo fuori dalla realtà, come spesso viene dipinto. Egli sa con certezza che tutto dell’umano da Gesù è stato assunto per essere salvato, perfino il peccato. Perciò l’uomo che appartiene a Cristo sta davanti a tutto senza paura, e ha il coraggio della verità. Pensiamo, per esempio, al travaglio della crisi che colpisce tutti, a livello mondiale, e pesa soprattutto sulle spalle dei più deboli. La sua natura non è solo economica. È prima di tutto «antropologica». All’origine c’è un uomo ridotto alla dimensione di individuo isolato, come se l’io non fosse sempre – come invece è – in relazione. Trascurare le relazioni esasperando l’individuo, così come schiacciare l’uomo nel ruolo di puro consumatore, allontana dalla realtà e fa sì che si costruiscano castelli

di sabbia (penso alla speculazione finanziaria) inesorabilmente destinati a crollare perché senza fondamenta.

Oppure limitarsi a parlare dei bisogni dell’uomo senza dilatare il bisogno fino al desiderio significa, alla lunga, spegnere le energie degli esseri umani. Perché noi, pur avendo in comune con gli animali i bisogni primari che ci permettono di sopravvivere, non possiamo affrontarli come loro. Avendo il bisogno di mangiare, abbiamo inventato l’arte

culinaria; avendo il bisogno di ripararci, abbiamo inventato l’architettura. Il bisogno nell’uomo non domanda una pura, meccanica soddisfazione. È connesso al desiderio esaltando la libertà e la creatività. Secoli di storia cristiana – da san Filippo Neri a san Giovanni Bosco, dall’Hospitale del Medioevo fino all’Unitalsi all’inizio del secolo scorso, dalle Società di mutuo soccorso all’Università Cattolica… – documentano una straordinaria ricchezza di opere che vanno in questa direzione. Per uscire dalla crisi, sostiene il Papa nella Caritas in veritate, occorre allargare la ragione economica ed entrare con coraggio nella logica del dono, nel principio di gratuità. Non però come un’azione «cosmetica», come se si trattasse di migliorare con un po’ di belletto il volto di una vecchia signora, attenuando con una certa dose di etica la brutalità della logica del profitto. «Mentre ieri – afferma Benedetto XVI – si poteva ritenere che per prima occorreva perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse dopo come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia» (Caritas in veritate, 38).

Per capire il significato della gratuità, senza ridurla in senso «buonistico» a un «fare gratis», vi propongo un passaggio dello scrittore Charles Péguy che mi è capitato tra le mani recentemente: «Un tempo gli operai non erano servi.

Lavoravano. Coltivavano un onore assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli imprenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. …Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto» (Charles

Péguy, Il denaro). Gratuita è un’azione che non è subito incanalata nella strettoia dell’utile, dell’interesse o dello scambio, ma che in sé e per sé respira nell’orizzonte infinito del vero, del bene e del bello. Il dono del Risorto ha reso la gratuità accessibile ai suoi e, attraverso la loro testimonianza, a tutti gli uomini.