Inégalité. Così le differenze sociali mettono a rischio la democrazia

disuguaglianza

di Stefano Rodotà – “Corriere della Sera” del 1 agosto 2013

 

Vi è una soglia di diseguaglianza superata la quale le società allontanano le persone tra loro in

maniera distruttiva, ne mortificano la dignità, e così negano il loro stesso fondamento che le vuole

costituite da “liberi ed eguali”? Evidentemente sì, visto che Barack Obama, abbandonando i passati

silenzi, è intervenuto su questo tema, sottolineando che diseguaglianze nei diritti, nel rispetto della

razza, nel reddito mettono in pericolo coesione sociale e democrazia. La denuncia riflette

preoccupazioni che hanno messo in evidenza come le diseguaglianze siano pure fonte di

inefficienza economica.

È all’opera una sorta di contro modernità, che contagia un numero crescente di paesi, e vuole

cancellare l’“invenzione dell’eguaglianza”. Proprio questo era avvenuto alla fine del Settecento,

quando le dichiarazioni dei diritti fecero dell’eguaglianza un principio fondativo dell’ordine

giuridico, e non più soltanto un obiettivo da perseguire all’interno di un ordine sociale che trovava

nella natura la fonte della solidarietà, affidata ai doveri della ricchezza, alla carità, a un ordine

gerarchico intessuto di relazioni spontanee tra superiori e inferiori. Questo disegno armonico si era

rivelato incapace di reggere il peso delle diseguaglianze, e da qui è nata la rivoluzione

dell’eguaglianza, che ha abbattuto la società degli status, e dato vita al soggetto libero ed eguale. Da

generico dovere morale la lotta alle diseguaglianze diveniva compito pubblico. Passaggio colto con

l’abituale nettezza da Montesquieu: «fare l’elemosina a un uomo nudo, per strada, non esaurisce gli

obblighi dello Stato, che deve assicurare a tutti i cittadini la sopravvivenza, il nutrimento, un vestire

dignitoso, e un modo di vivere che non contrasti con la sua salute».

Erano venuti i tempi di quella che Pierre Rosanvallon ha chiamato “l’eguaglianza felice”. Non

perché una magia avesse cancellato le diseguaglianze. Ma perché un cammino era tracciato, e

l’eguaglianza non era solo una promessa, ma un compito al quale lo Stato non poteva sottrarsi

(continua a dircelo l’art. 3 della Costituzione). Questo cammino è stato interrotto, per ragioni

diverse. La crisi fiscale dello Stato, con una riduzione delle risorse disponibili per il welfare

accentuata nell’ultima fase. La teorizzazione di una eguaglianza sempre più legata alle sole

opportunità di partenza e non ai risultati, quasi che diritti come salute e istruzione possano essere

svuotati del loro esito concreto. Sullo sfondo, le tragedie del Novecento, con la separazione della

libertà da una eguaglianza imposta anche con una violenza che spingeva a rifiutare, insieme

all’egualitarisno, forzato, l’eguaglianza stessa. E soprattutto il ritorno del mercato come legge

naturale indifferente all’universalismo.

E così il mondo si è fatto sempre più diseguale. Negli anni ’80 Peter Glotz parlò di una società dei

due terzi, dove la maggioranza degli abbienti, raggiunto il benessere, abbandonava gli altri al loro

destino. Oggi le cifre sono più drammatiche, i meccanismi di esclusione più profondi. Lo slogan

estremo – “siamo il 99%” – è stato reso popolare dal movimento Occupy Wall Street e, al di là

dell’esattezza della percentuale, fotografa una tendenza al concentrarsi della ricchezza nelle mani di

una quota sempre più ristretta di persone (le stime parlano di un 10% della popolazione che

possiede tra il 50 e l’85% della ricchezza). Una concentrazione che si è rafforzata nell’ultima fase, e

che testimonia una spettacolare inversione di tendenza. Infatti, nel 1913 in Francia l’1% possedeva

il 53% della ricchezza, quota scesa al 20% nel 1994; in Svezia, la discesa era stata dal 46% del 1900

al 23% del 1980; negli Stati Uniti, il 10% possedeva il 50% prima della crisi del 1929 e il 35% nel

1980.

Dalla società dell’eguaglianza, che parlava di pieno impiego e di fine delle povertà materiali, si è

così passati ad una società della diseguaglianza, dove distanze abissali dividono le persone, come

hanno messo in evidenza i dati riguardanti il rapporto tra i redditi dei nostri manager e quelli dei

dipendenti (in testa Marchionne con un rapporto 1 a 460). Il mondo solidale si perde nella

frammentazione e negli egoismi. Gli effetti si manifestano con il ritorno della povertà, la riduzione

dei diritti sociali, la trasformazione del lavoro in precariato o sfruttamento, la violenza dei

meccanismi di esclusione e di rifiuto dell’altro, la chiusura nei ghetti. Le diseguaglianze

stravolgono la vita delle persone, le condannano al grado zero dell’esistenza, anzi a quella

“infelicità” che Wilkinson e Pickett hanno cercato di misurare con indici concreti. Così la

diseguaglianza si scompone, va oltre la distanza economica, si alimenta con le tensioni legate alla

razza, con le politiche del disgusto per il “diverso”, con le diseguaglianze digitali. E regredisce a

cittadinanza censitaria, perché i diritti non sono garantiti dall’eguaglianza, ma dalle risorse per

comprarli sul mercato.

Nel mondo diseguale emergono soggetti che incarnano la nuova condizione. La classe precaria, alla

quale Guy Standing vorrebbe affidare l’intero compito del rinnovamento. O i migranti, più

ragionevolmente ricordati da Gaetano Azzariti come la realtà che meglio descrive la società globale

e diseguale. Proprio perché tanto grandi sono gli effetti distruttivi delle diseguaglianze, torna così il

bisogno di ripensare l’eguaglianza, quella “società degli eguali” alla quale è dedicato il bel libro di

Rosanvallon, che indica di nuovo la via dell’eguaglianza perché la stessa democrazia possa tornare

ad essere, o divenire, “integrale”.

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