I nemici d’Europa? Gli eurocrati ottusi, non i populisti critici

 

L’Europa muore perché muoiono le grandi idee e i sogni di coloro che ne sono stati padri fondatori, dopo l’ultima guerra mondiale. L’Europa muore perché è divenuta fiacca per  sua stessa opulenza, perché ha perso il senso dell’ottimismo e della speranza del futuro, e perché non ha un progetto. Il luogo simbolo della morte dell’Europa non sono, più che le fabbriche chiuse, ma i mari del Canale di Sicilia e Lampedusa, dove l’Europa guarda indifferente e lascia morire i suoi fratelli. Il progetto dei padri fondatori per l’Europa era un’Europa solidale e una fraternità di popoli. A questo progetto, per paura dell’altro e del futuro, per l’egoismo e i vari nazionalismi, abbiamo abdicato.

(E.C.)

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Rassegna stampa

 

di Barbara Spinelli – il Fatto 9 ottobre 2013

 

Estratto del contributo di Barbara Spinelli al libro “Grammatica

dell’indignazione” edito da Gruppo Abele

 

Chi domina nell’Unione non è la Germania, o la Francia, e tantomeno la Gran Bretagna. Dominano i mercati, quindi il pilota automatico che è al loro servizio. Non è una prospettiva tranquillizzante, quando gli Stati s’accontentano della dottrina economica tedesca (che ciascuno faccia con massima diligenza i propri “compiti a casa”: solo dopo verranno – se verranno – la cooperazione, la solidarietà, gli eurobond, la statualità federale compiuta) e dopo essersi accontentati contemplano stupiti lo sconquasso che hanno provocato e si mettono a inveire contro gli indignati, o a gridare al flagello populista che incombe.

Come se il pericolo che corriamo fosse proprio questo: la rabbia vendicativa dei popoli, quelli immiseriti dalla crisi in Grecia, Italia o Spagna e quelli impauriti all’idea di pagare per tutti, come Germania o Olanda (…) É una menzogna questo inveire contro il nemico designato che sono i populismi antieuropei delusi dall’Unione, e ha toccato l’acme nel settembre del 2012, in una riunione del workshop Ambrosetti a Cernobbio, quando l’ex presidente del Consiglio Mario Monti ha reso esplicito il turbamento che più l’infastidiva: l’assalto di partiti e movimenti popolari contro le terapie recessive imposte ai Paesi debitori – dunque peccatori – dalle autorità di Bruxelles e dalla Germania che su di esse fa leva.

Citiamo testualmente le parole che Monti rivolse in quell’occasione al presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy, perché sono significative: “C’è il rischio che mentre la costruzione europea si perfeziona, le difficoltà dell’Eurozona facciano emergere grandi, crescenti e pericolosi fenomeni di rigetto nelle opinioni pubbliche dei vari Paesi, con tendenze all’antagonismo e populismi che mirano alla disgregazione” (i corsivi sono nostri). E ha proseguito: “La contrapposizione tra Paesi del Nord e del Sud dell’Europa fa riemergere vecchi stereotipi e vecchie tensioni. È paradossale e triste che mentre si sperava di completare l’integrazione europea si verifichi un pericoloso fenomeno opposto che mira alla disintegrazione dell’Europa. E questo avviene in quasi tutti i Paesi”.

Il fenomeno è senza dubbio triste ma non propriamente paradossale, se si considera che la cura di risanamento ha accentuato povertà e sofferenze in tanti Paesi del Sud Europa, senza riuscire dopo sforzi sì immani a ridurre il loro debito pubblico. Alla fine dell’estate 2013 si è cominciato a parlare di fine della recessione – di luce in fondo al tunnel – ma la redenzione non prelude a un Paradiso e neppure a una comune suddivisione di rischi presenti e futuri.

E lo stato di bisogno resta, nonostante quel lucore che s’intravvede nel tunnel. In Paesi come Grecia e Italia il tenore di vita è franato, con punte massime ad Atene: le risalite son più ardue delle discese. La disoccupazione giovanile raggiunge e supera nel Sud Europa il 50 per cento, e la ripresa promessa non sembra intaccarla. E aumenta il numero di chi vive sotto il livello di sussistenza, dimenticato dalla cassa integrazione e dall’assistenza pensionistica o medica. Paradossale è piuttosto la reazione alla sfida degli indignati e arrabbiati, comodamente ammucchiati da chi severamente li addita come fossero una falange compatta di antieuropei: la cosa giudicata più urgente e utile – tale fu nel settembre 2012 la proposta di Monti, entusiasticamente accolta da Van Rompuy – fu un ennesimo vertice europeo straordinario, da consacrare solennemente alla “lotta al populismo”.

In altre parole: il nemico cui vanno addossate le colpe più svariate della malattia europea è il malato. Su di esso si china – in posizione di lotta – il medico che l’ha ridotto in queste condizioni comatose. Il vertice anti-populismo non ha fortunatamente mai visto la luce. Ma l’idea che lo ha sorretto resta quella, e s’aggira come utile spettro nelle cancellerie e nei partiti dominanti: verrà ripescata, ogni volta che si farà vivo l’incubo populista sotto forma di spirito antagonista, cioè di idee e proposte che chiedono non solo cambi di governo ma autentiche alternative alle consumate democrazie nazionali, e alle dottrine professate con immutato sussiego dai prìncipi che pretendono di rappresentarci, e di proteggerci al tempo stesso dai mercati e dalla cosiddetta eurocrazia di Bruxelles.

Cosa viene esattamente minacciato dallo spirito antagonista, presto e disinvoltamente ribattezzato spirito disgregatore? Viene minacciata e annientata , così ripetono i sedicenti architetti nazionali dell’Unione, la “costruzione europea che si sta perfezionando”, ovvero la “speranza di completare l’integrazione”. Tutto andrebbe bene verso il migliore dei mondi possibili, la strada che si sta percorrendo è per definizione buona è giusta (come potrebbe non esserlo, visto che è “senza alternative”), ma purtroppo c’è chi paradossalmente e tristemente mostra di non credere nell’edificante Divina Commedia, nella buona novella dell’Europa veniente. Da una parte s’accalcano i reprobi che “rigettano” l’Europa, dal momento che rigettano i propri governanti e il dogma del “non-c’è-alternativa”: sono tutti coloro che invece di sperare nei presunti architetti dell’Unione hanno la faccia tosta di “far casino”, disordinando il bell’ordine esistente, le sue terrene gerarchie, le sue ferali farmacologie. Sono relegati nell’Inferno, nel girone insolentemente chiamato Periferia Sud. Dall’altra parte veleggiano gli eletti, nell’alto dei cieli: in continua ascesa, sicuri e benedetti da Dio, predestinati alla ricompensa.

Il terrore del casino è l’unica cosa veramente triste, anche se niente affatto paradossale perché i padroni nazionali dell’Unione europea difendono i loro posti e le loro regalie: è logico che agiscano in questo modo. Si sono dimenticati, nel redigere la loro Divina Commedia, la maestosa invenzione medievale che fu il Purgatorio. Non c’è scala né via di mezzo nell’immaginario dei potenti d’Europa, tra il male e il bene. Il Purgatorio è estromesso, perché potrebbe inopportunamente prefigurare l’improvvida, incessantemente temuta Alternativa. Eppure c’è qualcuno, papa Francesco  ad esempio, che ha lo sguardo un po’ più lungo dei prìncipi terreni. Non dovrebbe essere così,perché il papa “rugumar può” – ha il compito di interpretare le sacre scritture, di fare il pastore del gregge – ma a differenza del prìncipe o dell’imperatore “non ha l’unghie fesse”, non distingue sempre tra quel che è bene e che è male per la variegata città politica (Purgatorio, XVI).

Ma come ai tempi di Dante, ci sono epoche in cui la benefica dualità svanisce e non resta in campo che una voce soltanto. Si direbbe che viviamo una di queste epoche. Ai potenti del mondo (comprese le alte gerarchie ecclesiastiche), il Pontefice ha detto che l’età del sopire e troncare ha fatto il suo tempo, che è l’ora di osare e sperimentare, senza installarsi nelle comodità e chiudersi in se stessi. È accaduto durante il viaggio in Brasile del luglio 2013: ha chiesto ai giovani e fedeli di “far casino” – lìo è la parola spagnola, vuol dire anche disordine, confusione – e di uscire per strada e non aver paura dell’aperto. “Quiero lío en las diócesis, quiero que se salga fuera. Quiero que la Iglesia salga a la calle. Quiero que nos defendamos de todo lo que sea mundanidad, instalación, comodidad, estar encerrados en nosotros mismos”. 

GLI ARCHITETTI D’EUROPA subito s’avventerebbero contro uno che parlasse così, uno che addirittura ringrazia per il casino che vien fatto (“Èste es mi consejo: gracias por el lío que puedan hacer”). Lo bollerebbero come il peggiore dei populisti, degli indignados. Riterrebbero i suoi discorsi paradossali e tristi, e subito convocherebbero un vertice straordinario per far fronte alla provocazione.

Solo una civiltà che ha dimenticato di essere mortale ha questa spudorata sicurezza di sé. Tempo fa, dopo essersi chiamata per qualche anno Mercato comune e prima di chiamarsi Unione, l’Europa aveva scelto di darsi il nome di Comunità. Comunità è un concetto più solidale e amichevole di Unione. Forse è il caso di restituirle questo bel nome cui ha rinunciato, se è vero che ogni liberazione avviene così: impadronendosi delle parole, e volgendole contro le menzogne che s’ostinano a raccontarci.

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