Inégalité. Così le differenze sociali mettono a rischio la democrazia

disuguaglianza

di Stefano Rodotà – “Corriere della Sera” del 1 agosto 2013

 

Vi è una soglia di diseguaglianza superata la quale le società allontanano le persone tra loro in

maniera distruttiva, ne mortificano la dignità, e così negano il loro stesso fondamento che le vuole

costituite da “liberi ed eguali”? Evidentemente sì, visto che Barack Obama, abbandonando i passati

silenzi, è intervenuto su questo tema, sottolineando che diseguaglianze nei diritti, nel rispetto della

razza, nel reddito mettono in pericolo coesione sociale e democrazia. La denuncia riflette

preoccupazioni che hanno messo in evidenza come le diseguaglianze siano pure fonte di

inefficienza economica.

È all’opera una sorta di contro modernità, che contagia un numero crescente di paesi, e vuole

cancellare l’“invenzione dell’eguaglianza”. Proprio questo era avvenuto alla fine del Settecento,

quando le dichiarazioni dei diritti fecero dell’eguaglianza un principio fondativo dell’ordine

giuridico, e non più soltanto un obiettivo da perseguire all’interno di un ordine sociale che trovava

nella natura la fonte della solidarietà, affidata ai doveri della ricchezza, alla carità, a un ordine

gerarchico intessuto di relazioni spontanee tra superiori e inferiori. Questo disegno armonico si era

rivelato incapace di reggere il peso delle diseguaglianze, e da qui è nata la rivoluzione

dell’eguaglianza, che ha abbattuto la società degli status, e dato vita al soggetto libero ed eguale. Da

generico dovere morale la lotta alle diseguaglianze diveniva compito pubblico. Passaggio colto con

l’abituale nettezza da Montesquieu: «fare l’elemosina a un uomo nudo, per strada, non esaurisce gli

obblighi dello Stato, che deve assicurare a tutti i cittadini la sopravvivenza, il nutrimento, un vestire

dignitoso, e un modo di vivere che non contrasti con la sua salute».

Erano venuti i tempi di quella che Pierre Rosanvallon ha chiamato “l’eguaglianza felice”. Non

perché una magia avesse cancellato le diseguaglianze. Ma perché un cammino era tracciato, e

l’eguaglianza non era solo una promessa, ma un compito al quale lo Stato non poteva sottrarsi

(continua a dircelo l’art. 3 della Costituzione). Questo cammino è stato interrotto, per ragioni

diverse. La crisi fiscale dello Stato, con una riduzione delle risorse disponibili per il welfare

accentuata nell’ultima fase. La teorizzazione di una eguaglianza sempre più legata alle sole

opportunità di partenza e non ai risultati, quasi che diritti come salute e istruzione possano essere

svuotati del loro esito concreto. Sullo sfondo, le tragedie del Novecento, con la separazione della

libertà da una eguaglianza imposta anche con una violenza che spingeva a rifiutare, insieme

all’egualitarisno, forzato, l’eguaglianza stessa. E soprattutto il ritorno del mercato come legge

naturale indifferente all’universalismo.

E così il mondo si è fatto sempre più diseguale. Negli anni ’80 Peter Glotz parlò di una società dei

due terzi, dove la maggioranza degli abbienti, raggiunto il benessere, abbandonava gli altri al loro

destino. Oggi le cifre sono più drammatiche, i meccanismi di esclusione più profondi. Lo slogan

estremo – “siamo il 99%” – è stato reso popolare dal movimento Occupy Wall Street e, al di là

dell’esattezza della percentuale, fotografa una tendenza al concentrarsi della ricchezza nelle mani di

una quota sempre più ristretta di persone (le stime parlano di un 10% della popolazione che

possiede tra il 50 e l’85% della ricchezza). Una concentrazione che si è rafforzata nell’ultima fase, e

che testimonia una spettacolare inversione di tendenza. Infatti, nel 1913 in Francia l’1% possedeva

il 53% della ricchezza, quota scesa al 20% nel 1994; in Svezia, la discesa era stata dal 46% del 1900

al 23% del 1980; negli Stati Uniti, il 10% possedeva il 50% prima della crisi del 1929 e il 35% nel

1980.

Dalla società dell’eguaglianza, che parlava di pieno impiego e di fine delle povertà materiali, si è

così passati ad una società della diseguaglianza, dove distanze abissali dividono le persone, come

hanno messo in evidenza i dati riguardanti il rapporto tra i redditi dei nostri manager e quelli dei

dipendenti (in testa Marchionne con un rapporto 1 a 460). Il mondo solidale si perde nella

frammentazione e negli egoismi. Gli effetti si manifestano con il ritorno della povertà, la riduzione

dei diritti sociali, la trasformazione del lavoro in precariato o sfruttamento, la violenza dei

meccanismi di esclusione e di rifiuto dell’altro, la chiusura nei ghetti. Le diseguaglianze

stravolgono la vita delle persone, le condannano al grado zero dell’esistenza, anzi a quella

“infelicità” che Wilkinson e Pickett hanno cercato di misurare con indici concreti. Così la

diseguaglianza si scompone, va oltre la distanza economica, si alimenta con le tensioni legate alla

razza, con le politiche del disgusto per il “diverso”, con le diseguaglianze digitali. E regredisce a

cittadinanza censitaria, perché i diritti non sono garantiti dall’eguaglianza, ma dalle risorse per

comprarli sul mercato.

Nel mondo diseguale emergono soggetti che incarnano la nuova condizione. La classe precaria, alla

quale Guy Standing vorrebbe affidare l’intero compito del rinnovamento. O i migranti, più

ragionevolmente ricordati da Gaetano Azzariti come la realtà che meglio descrive la società globale

e diseguale. Proprio perché tanto grandi sono gli effetti distruttivi delle diseguaglianze, torna così il

bisogno di ripensare l’eguaglianza, quella “società degli eguali” alla quale è dedicato il bel libro di

Rosanvallon, che indica di nuovo la via dell’eguaglianza perché la stessa democrazia possa tornare

ad essere, o divenire, “integrale”.

La Terza Depressione

Depressione2

PAUL KRUGMAN

Le recessioni sono frequenti; le depressioni sono rare. Da quel che mi consta, sono esistite soltanto due epoche nella storia dell´economia definite comunemente ai loro tempi “depressioni”.

Si tratta degli anni della deflazione e dell´instabilità che fecero seguito al Panico del 1873, e degli anni della disoccupazione di massa successivi alla crisi finanziaria del 1929-31.

Né la Lunga Depressione del XIX secolo né la Grande Depressione del XX furono epoche di declino ininterrotto. Al contrario: in entrambi i casi vi furono periodi nei quali l´economia crebbe. Tali miglioramenti, in ogni caso, non furono mai sufficienti a rendere nullo il danno arrecato dalla depressione iniziale, e furono pertanto seguiti a ruota da ricadute.

Temo tanto che oggi ci troviamo nelle prime fasi di una terza depressione. Quasi certamente assomiglierà maggiormente alla Lunga Depressione che alla molto più terribile Grande Depressione. Nondimeno, i costi legati a tale circostanza saranno incalcolabili per l´economia globale e, più di ogni altra cosa, per milioni di vite rovinate dalla mancanza di un posto di lavoro.

Questa terza depressione sarà innanzitutto un fallimento della politica. Pressoché in tutto il mondo – e di recente anche allo sconsolante e deprimente meeting del G-20 del weekend scorso – i governi sono ossessionati dall´inflazione allorché la vera minaccia è la deflazione, e predicano la necessità di stringere la cinghia nel momento stesso in cui il vero problema è una spesa inadeguata.

Nel 2008 e 2009 pareva che avessimo tratto qualche utile insegnamento dalla storia: a differenza dei loro predecessori – che a fronte a una crisi finanziaria avevano alzato i tassi di interesse – gli attuali responsabili della Federal Reserve e della Banca Europea Centrale hanno tagliato i tassi e si sono adoperati per sostenere il mercato del credito. Diversamente dai governi del passato che avevano tentato di pareggiare i bilanci a fronte di un´economia in forte calo, i governi contemporanei hanno lasciato salire i deficit. Infine, migliori politiche sono tornate utili, evitando al mondo intero il tracollo completo: si può affermare che la recessione provocata dalla crisi finanziaria si sia conclusa l´estate scorsa.

In futuro, però, gli storici ci diranno che quella non sarà stata la fine della terza depressione, proprio come la ripresa degli affari che ebbe inizio nel 1933 non segnò la fine della Grande Depressione. Dopo tutto, la disoccupazione – in particolar modo quella sul lungo periodo – resta a livelli che fino a non molto tempo fa sarebbero stati considerati catastrofici, e non vi è segnale alcuno che all´orizzonte si profili un´inversione di tendenza. Sia Stati Uniti sia Europa sono a buon punto nel raggiungere le trappole deflazionistiche di stile giapponese.

A fronte di questo cupo contesto, uno potrebbe aspettarsi che i politici si siano resi conto di non aver ancora fatto abbastanza per promuovere la ripresa. Invece no: negli ultimissimi mesi abbiamo assistito a una strabiliante riaffermazione dell´ortodossia della moneta forte e dell´ortodossia del pareggio di bilancio.

Se ci si attiene al linguaggio adoperato, questo revival del culto dei vecchi tempi risulta quanto mai evidente in Europa, dove le autorità paiono riprendere pari pari le espressioni che utilizzano dalle raccolte di discorsi di Herbert Hoover, fino al punto da includere la dichiarazione che alzare le tasse e tagliare la spesa di fatto espanderà l´economia, migliorando la fiducia delle imprese. Se ci occupiamo di questioni pratiche, in ogni caso, l´America non sta facendo molto meglio. La Fed pare essere consapevole dei rischi di deflazione. Il fatto è, però, che in relazione a questi rischi sta proponendo di fare…beh, un bel niente. L´Amministrazione Obama è perfettamente consapevole dei pericoli legati all´approvazione prematura del rigore fiscale, ma poiché i rappresentanti repubblicani e i democratici conservatori al Congresso non daranno la loro approvazione per ulteriori aiuti ai governi statali, l´austerità entrerà in vigore in ogni caso, sotto forma di tagli al bilancio a livello statale e locale.

Come spiegare questa rotta sbagliata in politica? I difensori della linea dura per legittimare le proprie azioni invocano i guai con i quali sono alle prese la Grecia e le altre nazioni ubicate ai confini esterni dell´Europa. Ed è vero che chi investe in obbligazioni si è rivolto a governi con deficit intrattabili. Non vi sono tuttavia prove attendibili che il rigore fiscale sul breve periodo possa rassicurare gli investitori a fronte di un´economia depressa. Al contrario: la Grecia ha approvato rigide misure di austerità, per poi ritrovarsi solo con spread del rischio che aumentavano sempre più. L´Irlanda ha imposto drastici tagli alla spesa pubblica, per poi ritrovarsi considerata da parte dei mercati in situazione perfino peggiore della Spagna. Quanto a quest´ultima, finora è stata più riluttante a somministrare la medicina dei più intransigenti.

È un po´ come se i mercati finanziari capissero ciò che i politici non sembrano capire: che mentre la responsabilità fiscale a lungo termine è importante, tagliare la spesa nel bel mezzo di una depressione che si aggrava e spiana la strada alla deflazione, di fatto è controproducente.

Pertanto non penso che tutto ciò abbia a che vedere davvero con la Grecia o con un qualsiasi realistico apprezzamento dei bilanciamenti tra deficit e posti di lavoro. Piuttosto, si tratta della vittoria di un´ortodossia che ha poco a che vedere con l´analisi razionale, il cui dogma principale è che nei tempi duri si dimostra di avere leadership imponendo sacrifici al prossimo.

E chi pagherà il prezzo di questo trionfo dell´ortodossia? Le decine di milioni di lavoratori disoccupati, molti dei quali resteranno senza occupazione per gli anni a venire, e alcuni dei quali potrebbero non trovare mai più un posto di lavoro.

(Traduzione di Anna Bissanti)

Fonte: La Repubblica MARTEDÌ, 29 GIUGNO 2010

I fondamentalisti dell´economia

liberismo

Zygmunt Bauman

All´epoca dell´Illuminismo, di Bacone, Cartesio o Hegel, in nessun luogo della terra il livello di vita era più che doppio rispetto a quello delle aree più povere. Oggi il paese più ricco, il Qatar, vanta un reddito pro capite 428 volte maggiore di quello del paese più povero, lo Zimbabwe. E si tratta, non dimentichiamolo, di paragoni tra valori medi, che ricordano la proverbiale statistica dei due polli.
Il tenace persistere della povertà su un pianeta travagliato dal fondamentalismo della crescita economica è più che sufficiente a costringere le persone ragionevoli a fare una pausa di riflessione sulle vittime collaterali dell´«andamento delle operazioni».

L´abisso sempre più profondo che separa chi è povero e senza prospettive dal mondo opulento, ottimista e rumoroso – un abisso già oggi superabile solo dagli arrampicatori più energici e privi di scrupoli – è un´altra evidente ragione di grande preoccupazione. Come avvertono gli autori dell´articolo citato, se l´armamentario sempre più raro, scarso e inaccessibile che occorre per sopravvivere e condurre una vita accettabile diverrà oggetto di uno scontro all´ultimo sangue tra chi ne è abbondantemente provvisto e gli indigenti abbandonati a se stessi, la principale vittima della crescente disuguaglianza sarà la democrazia. Ma c´è anche un´altra ragione di allarme, non meno grave. I crescenti livelli di opulenza si traducono in crescenti livelli di consumo; del resto, arricchirsi è un valore tanto desiderato solo in quanto aiuta a migliorare la qualità della vita, e «migliorare la vita» (o almeno renderla un po´ meno insoddisfacente) significa, nel gergo degli adepti della chiesa della crescita economica, ormai diffusa su tutto il pianeta, «consumare di più». I seguaci di questo credo fondamentalista sono convinti che tutte le strade della redenzione, della salvezza, della grazia divina e secolare e della felicità (sia immediata che eterna) passino per i negozi. E più si riempiono gli scaffali dei negozi che attendono di essere svuotati dai cercatori di felicità, più si svuota la Terra, l´unico contenitore/produttore delle risorse (materie prime ed energia) che occorrono per riempire nuovamente i negozi: una verità confermata e ribadita quotidianamente dalla scienza, ma (secondo uno studio recente) recisamente negata nel 53 per cento degli spazi dedicati al tema della «sostenibilità» dalla stampa americana, e trascurata o taciuta negli altri casi.

Quello che viene ignorato, in questo silenzio assordante che ottenebra e deresponsabilizza, è l´avvertimento lanciato due anni fa da Tim Jackson nel libro Prosperità senza crescita: entro la fine di questo secolo «i nostri figli e nipoti dovranno sopravvivere in un ambiente dal clima ostile e povero di risorse, tra distruzione degli habitat, decimazione delle specie, scarsità di cibo, migrazioni di massa e inevitabili guerre».

Il nostro consumo, alimentato dal debito e alacremente istigato/ assistito/amplificato dalle autorità costituite,«è insostenibile dal punto di vista ecologico, problematico da quello sociale e instabile da quello economico». Un´altra delle osservazioni raggelanti di Jackson è che in uno scenario sociale come il nostro, in cui un quinto della popolazione mondiale gode del 74 per cento del reddito annuale di tutto il pianeta, mentre il quinto più povero del mondo deve accontentarsi del 2 per cento, la diffusa tendenza a giustificare le devastazioni provocate dalle politiche di sviluppo economico richiamandosi alla nobile esigenza di superare la povertà non è altro che un atto di ipocrisia e un´offesa alla ragione: e anche questa osservazione è stata pressoché universalmente ignorata dai canali d´informazione più popolari (ed efficaci), o nel migliore dei casi è stata relegata alle pagine, e fasce orarie, notoriamente dedicate a ospitare e dare spazio a voci abituate e rassegnate a predicare nel deserto.

Già nel 1990, una ventina d´anni prima del volume di Jackson, in Governare i beni collettivi Elinor Ostrom aveva avvertito che la convinzione propagandata senza sosta secondo cui le persone sono naturalmente portate a ricercare profitti di breve termine e ad agire in base al principio «ognun per sé e Dio per tutti»non regge alla prova dei fatti.

La conclusione dello studio di Ostrom sulle imprese locali che operano su piccola scala è molto diversa: nell´ambito di una comunità le persone tendono a prendere decisioni che non mirano solo al profitto. È tempo di chiedersi: quelle forme di «vita in comunità» che la maggior parte di noi conosce unicamente attraverso le ricerche etnografiche sulle poche nicchie oggi rimaste da epoche passate, «superate e arretrate», sono davvero qualcosa di irrevocabilmente concluso?

O, forse, sta per emergere la verità di una visione alternativa della storia (e con essa di una concezione alternativa del “progresso”): che cioè la rincorsa alla felicità è solo un episodio, e non un balzo in avanti irreversibile e irrevocabile, ed è stata/è/si rivelerà, sul piano pratico, una semplice deviazione una tantum, intrinsecamente e inevitabilmente temporanea?

(Questo brano è un estratto dalla nuova prefazione di Bauman a lla nuova edizione di Modernità liquidità in uscita per Laterza ).

 

Fonte: Repubblica 21 settembre 2011

Riscoprire i valori europei

21 agosto 2013

ADEVĂRUL BUCAREST

ue

 

L’integrazione europea non riesce a colmare il divario culturale con i paesi dell’est. Serve uno sforzo di creatività e comunicazione per evidenziare quello che ci unisce.

Il recente rapporto dell’eurodeputato Rui Tavares sulla situazione dei diritti dell’uomo in Ungheria e sul modo in cui è stato accolto dal governo ungherese solleva di nuovo la questione della realizzazione del progetto europeo dopo la caduta della cortina di ferro. L’Ungheria e le sue recenti posizioni politiche non corrispondono più alle attese di Bruxelles. Un discorso analogo si potrebbe fare per la Romania o la Bulgaria; per la Slovacchia riguardo alla procedura utilizzata per risolvere la questione rom; per la Francia per lo stesso problema o per il Regno Unito per il modo in cui affronta il diritto del lavoro dei romeni e dei bulgari. E potremmo continuare con altri paesi.

Non è nostra intenzione elencare tutte le irregolarità o le imperfezioni, ma osservare come quello che sembrava l’incarnazione del sogno di molti dirigenti politici europei si trasformi periodicamente in molti paesi membri in una sorta di nevrosi governativa. E un discorso simile si può fare per Bruxelles.

I testi dei trattati fondamentali [dell’Ue] devono sempre più spesso fare i conti con delle realtà incompatibili con la filosofia di un’Europa unita. Il problema è che il processo di elaborazione delle leggi su scala comunitaria è troppo lento o troppo generalista, al contrario di una realtà che genera rapidamente nuovi contesti di sopravvivenza. Controllare il rispetto di questi grandi progetti legislativi comunitari è sfibrante e si rivela non in sintonia con la vita politica interna degli stati membri.

Gli stati entrati nell’Ue nel 2004 e nel 2007 parlano un’altra lingua in materia di democrazia, mercato, diritti dell’uomo e trasparenza

Questo mancato adeguamento sottolinea anche l’incapacità di Bruxelles di trasmettere i valori del grande progetto europeo: i frequenti sondaggi fatti nei diversi paesi membri rivelano una (troppo) scarsa percezione dei valori sostenuti dall’Ue. Le strategie di comunicazione del Parlamento e del Consiglio europeo non sono così efficaci come avremmo potuto immaginare. Gli stati entrati nell’Ue nel 2004 e nel 2007 parlano un’altra lingua in materia di democrazia, mercato, diritti dell’uomo e trasparenza; tutte nozioni ancora caratterizzate dall’immagine delle “barricate” dietro le quali quello che rimane degli effettivi della barbarie comunista si difende dall’invasione di un mondo occidentale imperfetto.

Quella che per molti sembrava essere, ed è stata, la perfezione delle società chiuse dell’est, è stata improvvisamente sostituita da un nuovo mondo inesplicabile, da un alfabeto straniero che ha dovuto, e deve ancora, essere imparato a memoria. Lo sforzo è considerevole, paragonabile a quello che è stato necessario per portare dopo la caduta del muro la Ddr [Germania dell’est] al “livello” della Repubblica federale [Germania ovest]. Dopo un decennio di spese colossali i risultati non erano molto incoraggianti. Oggi si prova talvolta la stessa cosa di fronte alle “nuove democrazie” dell’Europa dell’est.

Inoltre Bruxelles sembra non capire bene che in queste democrazie la ragion di stato funziona in modo diverso; oggi a questi paesi si chiede non solo di mettere in piedi e di rendere funzionale uno stato che possa riflettersi nello specchio di Bruxelles, ma anche di riconoscersi in questo riflesso. Il modello della ragion di stato studiato da Michel Foucault per il diciassettesimo e diciottesimo secolo era basato sulla limitazione dell'”eccesso di governo”, il cui strumento operativo diventerà verso la fine del diciottesimo secolo l’economia politica. Quest’ultima avrebbe orientato le filosofie degli stati verso l’idea di ricchezza dello stato assistenziale. Un termine sconosciuto nell’Europa dell’est dopo il 1945.

Questa grande lacuna, messa in scena con diabolica maestria, ha provocato durante il socialismo-comunismo un tipo di governo che ha considerevolmente atrofizzato gli istinti dei membri di queste società in materia di affermazione individuale, di spirito di competizione e di responsabilità delle proprie azioni.

Velocità di reazione

Le politiche comunitarie devono quindi affrontare non solo le tristemente famose divisioni fra vecchi e nuovi stati membri, ma anche le conseguenze della ricerca esclusiva del profitto a breve termine. Oggi i risultati sono impressionanti: il valore del lavoro, dell’investimento nella formazione e la regolamentazione del mercato del lavoro in funzione delle nuove polarizzazioni economiche che appaiono nella società richiedono una sempre maggiore velocità di reazione.

E quando la reazione si produce, come per esempio nel caso dell’agricoltura, della pesca o delle industrie creative, gli sforzi diretti a tradurla in una pacchetto di leggi comunitarie provocano degli sfasamenti e delle reazioni sociali in tutta l’Ue.

L’Europa rimane troppo un’Europa dei governi e non abbastanza un’Europa dei popoli. I valori europei meriterebbero di essere riscoperti. La comunicazione di questi valori dovrebbe essere l’obiettivo principale dell’Ue. Lasciata nelle mani dei governi e delle istituzioni specializzate, la comunicazione soffrirà sempre di una mancanza di creatività e l’Europa continuerà ad allontanarsi sempre di più da noi.

Solo una visione creativa dei governi potrà rimettere in piedi il processo di un’Europa unita sotto il segno dello sviluppo personale di tutti i cittadini dei paesi membri. Ottenere le cose semplici (un lavoro, una casa, un livello di vita accettabile) è l’unico modo per convincere tutti che il proprio mondo equivale a quello di chiunque altro e in qualunque altro posto. Solo allora l’obiettivo sarà stato centrato correttamente da tutti.

Traduzione di Andrea De Ritis

 

fonte: http://www.presseurop.eu/it/content/article/4072561-riscoprire-i-valori-europei

Il ruolo dell’Europa nella crisi del Mediterraneo

EGITTO: L’Europa è l’unica speranza

egypt

21 agosto 2013

SÜDDEUTSCHE ZEITUNG MONACO

Di fronte alla violenza e alla svolta autoritaria dei militari l’Ue appare di nuovo impotente, ma è l’unico modello che possa guidare gli egiziani nella costruzione della democrazia.

Non è emerso alcun video né fotografia della visita di Lady Ashton [il 30 luglio] a Mohamed Morsi, prigioniero dei generali egiziani. Tuttavia il tentativo disperato di mediazione dell’alta rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri ha fatto molta impressione. Per avere la possibilità di vedere Morsi e di modificare la sua posizione, tre settimane fa colei che rappresenta 570 milioni di europei è salita su un elicottero per una destinazione sconosciuta e si è piegata alle condizioni del nuovo regime.

Oggi, dopo che la , l’Unione europea rimane indispensabile come guida verso un regime politico moderno.

Scossi dalla crisi dell’euro e traumatizzati dalla visione di un Medio Oriente a ferro e fuoco, gli europei si sono abituati ad analizzare le cose con un certo distacco, cosa che finisce per sottolineare le loro debolezze, come ha dimostrato: una rappresentante degli esteri con le sue visite segrete e con delle idee poco chiare, un nuovo servizio per l’azione esterna che delude le aspettative e dei governi nazionali che difendono i loro interessi – talvolta senza scrupoli, come gli inglesi e i francesi, talvolta con zelo e precipitazione, come la Germania con il suo ministro degli esteri. E a tutto ciò bisogna aggiungere una forza militare inesistente.

Ma tutto questo può essere relativizzato, come dimostra l’esempio americano. Oggi come oggi la forza non permette di ottenere molto da un mondo arabo in crisi. E il fatto che sia collegiale non salva la politica estera dalla confusione – come ha dimostrato il ministro degli esteri americano John Kerry, quando ha dichiarato che il golpe egiziano era frutto della volontà del popolo. Attualmente gli unici che possono mostrarsi determinati sono coloro che non hanno alcun problema con la violenza, almeno fino a quando quest’ultima favorirà i loro interessi nella regione (ancora una volta i sauditi).

Il valore della credibilità

Nel peggiore dei casi le divergenze porteranno a un’impasse, nel migliore obbligheranno ad adottare una posizione ragionevole e credibile

È la credibilità dell’Ue che può renderla efficace, se riuscirà a darsi i mezzi per agire. Una credibilità che deriva per esempio dal fatto che l’Europa non persegue degli interessi “nazionali”. L’interesse europeo dovrà essere negoziato. In particolare nel caso dell’Egitto l’indignazione legittima contro la presa del potere da parte dell’esercito e la repressione sanguinosa dei movimenti di protesta deve essere controbilanciata dal desiderio – altrettanto legittimo – di non far diventare la situazione ancora più caotica. Un desiderio che manifestano soprattutto i paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo. Nel peggiore dei casi le divergenze porteranno a un’impasse, nel migliore obbligheranno ad adottare una posizione ragionevole e credibile.

Per ora la cosa più ragionevole sembra essere non prendere posizione. Del resto, tenuto conto degli errori commessi da quasi tutti gli attori al Cairo, sarebbe difficile scegliere uno schieramento. Questo però non significa che bisogna accettare il regime dispotico che si è insediato in Egitto con il consenso di una parte della popolazione. La cancelliera Angela Merkel e il ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle hanno già preso posizione. Sarebbe assurdo dare al nuovo regime dei fondi che erano destinati a instaurare una nuova democrazia. Soprattutto se servono solo a importare armi.

Di fronte al trauma provocato da una catastrofe che non ha potuto essere evitata, l’Ue non può rifugiarsi oggi nel pragmatismo. La credibilità in politica estera è una qualità preziosa, perché molto lenta a far maturare. Senza di essa l’Unione non arriverà a nulla in Egitto.

Traduzione di Andrea De Ritis

fonte: http://www.presseurop.eu/it/content/article/4074651-l-europa-e-l-unica-speranza

Il sociologo Bauman. Vivere in un mondo senza solidarietà

Bauman, un mondo senza regole: “senza la solidarietà, la libertà è un’illusione”

IL filosofo polacco analizza i diversi aspetti della vita di oggi. Dal sito dei coniugi Woodward che promuove un’esistenza lontana dalla schiavitù del lavoro, all’appello a superare “l’ordine dell’egoismo”

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di ZYGMUNT BAUMAN

Bauman, un mondo senza regole: “senza la solidarietà, la libertà è un’illusione”
“Chi ha detto che dobbiamo stare alle regole?” La domanda appare con grande rilievo in testa al sito internet locationindependent.com. Immediatamente più in basso, viene suggerita una risposta: “Sei stufo di dover seguire le regole? Regole che ti impongono di ammazzarti di lavoro e guadagnare un mucchio di soldi in modo da permetterti una casa e un mutuo imponente?

E lavorare ancora più duramente per ripagarlo, sino al momento in cui avrai maturato una bella pensioncina […] e finalmente potrai iniziare a goderti la vita? A noi quest’idea non andava e se non va neanche a te, sei finito nel posto giusto”.

Leggendo queste parole non ho potuto fare a meno di ricordare una vecchia barzelletta che circolava all’epoca del colonialismo europeo: mentre passeggia tranquillo per la savana, un inglese che indossa gli irrinunciabili simboli di un compìto colonialista, con tanto di elmetto di ordinanza, s’imbatte in un indigeno che russa beato all’ombra di un albero. Sopraffatto dall’indignazione, per quanto mitigata dal senso di missione di civiltà che lo ha portato in quelle terre, l’inglese sveglia l’uomo con un calcio, gridando: “Perché sprechi il tuo tempo, fannullone, buono a nulla, scansafatiche?”. “E cos’altro potrei fare, signore?”, ribatte l’indigeno, palesemente interdetto. “È pieno giorno, dovresti lavorare!”. “Perché mai?”, replica l’altro, sempre più stupito. “Per guadagnare denaro!”. E l’indigeno, al colmo dell’incredulità: “Perché?”. “Per poterti riposare, rilassare, goderti l’ozio!”. “Ma è esattamente quello che sto facendo!”, aggiunge l’uomo, risentito e seccato.

Beh, il cerchio si è chiuso: siamo forse arrivati alla fine di una lunga deviazione e tornati al punto di partenza? Lea e Jonathan Woodward, due professionisti europei estremamente colti e capaci che dirigono il sito locationindependent citato prima, stanno forse riconoscendo, esplicitamente e direttamente, senza tanti giri di parole, un concetto premoderno, innato e intuitivo che i pionieri, gli apostoli e gli esecutori della modernità avevano screditato, ridicolizzato e tentato di estirpare quando esigevano invece che le persone lavorassero duramente per tutta la vita e che solo in seguito, alla fine di interminabili fatiche, iniziassero a “spassarsela”?! Per i Woodward, così come per l'”indigeno” del nostro aneddoto, l’insensatezza di una tale proposta è talmente lampante da non meritare alcuna spiegazione, né una riprova discorsiva. Per loro, così come per l'”indigeno”, è chiaro come il giorno che anteporre il lavoro al riposo   e quindi, indirettamente, rimandare una soddisfazione potenzialmente istantanea (quella sacrosanta regola a cui il colonialista dell’aneddoto e i suoi contemporanei si attenevano alla lettera)   non è una scelta più saggia né più utile di quella di chi mette il carro davanti ai buoi.

Che oggi i Woodward possano affermare con tale sicurezza e convinzione delle opinioni che solo una o due generazioni fa sarebbero state considerate un’abominevole eresia è indice di un’imponente “rivoluzione culturale”. Una rivoluzione che non ha trasformato soltanto la visione che i rappresentanti delle classi colte hanno del mondo, ma il mondo stesso in cui sono nati e cresciuti, che impararono a conoscere e sperimentarono. Affinché potesse apparire lampante, la loro filosofia di vita doveva basarsi sulla realtà contemporanea e su solide fondamenta materiali che nessuna autorità costituita sembra intenzionata a mettere in discussione.

Le fondamenta della vecchia/nuova filosofia di vita appaiono ormai incrollabili. Quanto profondamente e irreversibilmente il mondo sia cambiato nella sua transizione alla fase “liquida” della modernità è dimostrato dalla timidezza delle reazioni dei governi di fronte alla più grave catastrofe economica verificatasi dalla fine della fase “solida”, quando ministri e legislatori hanno deciso, quasi per istinto, di salvare il mondo della finanza   ma anche i privilegi, i bonus, i “colpacci” in Borsa e le strette di mano che suggellavano accordi miliardari e ne consentivano la sopravvivenza: quella potente forza causale e operativa che è stata alla base della deregulation, e principale paladina ed esponente della filosofia dell'”inizieremo a preoccuparcene quando accadrà”; di pacchetti azionari suddivisi in parcelle rimasti immuni dalla responsabilità delle conseguenze; di una vita che si basa sul denaro e sul tempo presi a prestito, e di una modalità di esistenza ispirata al “godi subito e paga dopo”. In altre parole, quelle stesse abitudini, che il potere ha facilitato, a cui in definitiva il terremoto economico in questione potrebbe (e dovrebbe) essere ricondotto. (…)

Tuttavia, nell’appello dei Woodward c’è qualcosa di più in gioco, molto di più, della differenza tra un posto di lavoro ancorato a un luogo, tutto racchiuso all’interno di un unico edificio commerciale, e uno itinerante, diretto verso mete predilette quali la Tailandia, il Sudafrica e i Caraibi. (…) A essere realmente in gioco è, come loro stessi ammettono, la “libertà di scegliere ciò che è giusto per te”   per te, e non “per gli altri”   o di come condividere il pianeta e lo spazio con questi altri.

Assumendo tale principio a parametro con cui misurare la correttezza e il valore delle scelte di vita, i Woodward si trovano sulla stessa linea di pensiero delle persone contro le quali si ribellano, come i dirigenti e i manager della Lehman Brothers e tutti i loro innumerevoli emuli, nonché coloro che   come scrive Alex Berenson, del New York Times   ricevono “stipendi a otto cifre” (accusa che con ogni probabilità i Woodward rifiuterebbero indignati).

Tutti, unanimemente, approvano il fatto che “l’ordine dell’egoismo” abbia preso il sopravvento su quell'”ordine della solidarietà”, che un tempo aveva il suo vivaio più fertile e la cittadella principale nella protratta condivisione (ritenuta senza fine) dei locali in uffici e fabbriche. Sono stati i consigli di amministrazione e i dirigenti delle multinazionali, con il tacito o manifesto sostegno e incoraggiamento del potere politico in carica, a occuparsi di smantellare le fondamenta della solidarietà tra impiegati mediante l’abolizione del potere di contrattazione collettivo, smobilitando le associazioni di tutela dei lavoratori e obbligandole ad abbandonare il campo di battaglia; tramite l’alterazione dei contratti di lavoro, l’esternalizzazione e il subappalto delle funzioni manageriali e delle responsabilità dei dipendenti, deregolamentando (rendendo “flessibili”) gli orari di lavoro, limitando i contratti di lavoro e al tempo stesso intensificando l’avvicendarsi del personale e legando il rinnovo dei contratti alle prestazioni individuali, controllandole da vicino e in continuazione. Ovvero, per farla breve, facendo tutto il possibile per colpire la logica dell’autotutela collettiva e favorire la sfrenata competitività individuale per assicurarsi vantaggi dirigenziali.

Il passo definitivo per porre fine una volta per tutte a qualsiasi occasione di solidarietà tra dipendenti   che per la grande maggioranza delle persone rappresenta l’unico mezzo per raggiungere la “libertà di scegliere ciò che fa per te”   richiederebbe, comunque, l’abolizione della “sede di lavoro fissa” e dello spazio condiviso dai lavoratori, in ufficio o in fabbrica. Ed è questo il passo che Lea e Jonathan Woodward hanno compiuto. Con le loro competenze e credenziali se lo sono potuti permettere. Tuttavia non sono molte le persone che si trovano nella condizione di cercare un rimedio alla propria mancanza di libertà in Tailandia, in Sudafrica o ai Caraibi, non necessariamente in questo stesso ordine. Per tutti gli altri che non sono in una simile posizione, il nuovo concetto/stile di vita/impostazione mentale dei Woodward confermerebbe una volta per tutte quanto le loro perdite siano definitive, dal momento che meno persone rimarrebbero impegnate nella difesa collettiva delle loro libertà individuali.

L’assenza più cospicua sarebbe quella delle “classi colte”, a cui un tempo spettava il compito di sollevare dalla miseria gli oppressi e gli emarginati.

(05 settembre 2012)

Fonte: http://www.repubblica.it/speciali/repubblica-delle-idee/edizione2012/2012/09/05/news/bauman_un_mondo_senza_regole_senza_la_solidariet_la_libert_un_illusione-41991501/

L’Europa, secondo il sociologo Z. Bauman

“Una certa idea di Europa” firmata Zygmunt Bauman

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Z. Bauman

Tre le provocazioni del filosofo Zygmunt Bauman sul futuro dell’Europa allo European Culture Congress di Wroclaw, l’evento più importante della presidenza polacca dell’UE: il disprezzo di Bismarck, un mosaico di “forme di vita” in estinzione, e la scommessa sulla cultura europea.

Sembrerebbe, infatti, che la storia abbia dato ragione a Otto von Bismarck, che nel 1876 definiva laconicamente l’Europa una “mera identità geografica”. L’idea di Europa che trapela dai giornali, sostiene Bauman, è filtrata da categorie materialistiche e ha a che fare con l’allargamento, l’euro e le preoccupazioni legate al futuro. L’Europa è sicuramente una realtà tangibile nel mondo, come sosteneva Bismarck, ma qual è la sua vocazione?

Bauman fa rispondere a Steiner: l’Europa deve avere una vocazione spirituale.

Il compito dell’ Europa è di ordine “spirituale e intellettuale”. Il genio dell’Europa è ciò che William Blake avrebbe chiamato ‘la santità dei minimi particolari’. Il genio di una varietà linguistica, culturale, sociale, di un ricchissimo mosaico che spesso trasforma una distanza irrilevante, una ventina di chilometri, in una frontiera tra due mondi (…). L’Europa morirà se non combatterà per difendere le proprie lingue, le proprie tradizioni locali e le proprie autonomie sociali”
(G. Steiner, Una certa idea d’Europa).

Il paradosso dell’Europa come un mosaico multicolore di “forme di vita” rappresenta la spada di Damocle che pende sul futuro dell’Europa stessa: nella “società liquida” il concetto di “diversità” sta diventando sinonimo di diaspora.

E così Bauman cita Gadamer, il quale vedeva nell’Europa un laboratorio di politica e di etica, nel quale sperimentare il concetto di “diversità”, che rimanda al concetto aristotelico di philia:

Dobbiamo imparare a rispettare l’altro e l’alterità […] Vivere con l’altro, vivere come l’altro dell’altro, è un compito universale e valido nel piccolo come nel grande. Come noi, crescendo ed entrando, come si dice, nella vita, impariamo a vivere insieme all’altro, lo stesso vale anche per i grandi gruppi umani, per i popoli e per gli Stati. Ed è probabilmente un privilegio dell’Europa il fatto di aver saputo e dovuto imparare, più di altri paesi, a convivere con la diversità”
(H. G. Gadamer, L’eredità dell’Europa).

In Europa ‘l’altro’, “the other, is not an abstract word, but a neighbour. Another always lived very close, within sight or within touching … Here ‘Another’ is the closest neighbor”. Il concetto di diversità, infatti, può essere sperimentato nei limiti di uno spazio geografico ridotto: nell’ordine di 20 km l’Europa può dividersi in due mondi completamente differenti.

Il multilinguismo e la prossimità dell’altro fanno dell’Europa un paradigma per il mondo intero, ma questo paradigma deve essere trasformato in una vocazione, non in un museo della diaspora e della dispersione.

Una biblioteca, simile a quella alessandrina, che contenga “precious thoughts and inventions coming from the EU”, sarebbe un buon investimento per l’Europa, conclude Baumann, sarcastico.

Culture in a Liquid Modern World, l’ultimo libro di Bauman, da poco tradotto in inglese e leitmotiv della Presidenza Polacca, è l’altro lato della medaglia di un’Europa che può, anzi, deve essere culturale, o non lo sarà più: “lavoriamo, affermiamo l’occasione che ci è offerta: potrebbe essere l’ultima”. Così diceva Jack Lang.

Fonte: http://www.ccpitaly.beniculturali.it/news.aspx?sez=5&doc=32

Il sociologo Z. Bauman. Intervista sulla crisi mondiale e sul futuro della società

Bauman: «Sarà guerra per le risorse»

La politica è morta. Il capitale è moribondo.

Il sociologo Bauman parla a Lettera43.it sugli effetti della crisi.

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di Barbara Ciolli

Negli occhi ha il guizzo di un ragazzino sveglio e intelligente e l’acume disincantato di chi ha attraversato molte generazioni, conosce bene il lato cinico dell’uomo, ma non ha perso neanche la fede nel suo lato più nobile.

‘Umano’ si dice dell’uomo quando prova dolore e istintiva partecipazione per le miserie altrui, tende la mano all’altro nella difficoltà e spera di arrivare insieme a un traguardo comune. E in fondo Zygmunt Bauman, uomo solido che ha teorizzato la società liquida, è stato accolto senza riserve nelle campagne dello Yorkshire inglese dopo essere sfuggito, da ebreo polacco, prima all’occupazione nazista, poi all’antisemitismo strisciante del regime comunista.

Dall’inizio degli Anni 70 non si è mai mosso dalla sua cattedra all’università di Leeds. «A wonderful city», dice con entusiasmo mai spento, mentre si siede di scatto sulla poltrona in pelle del suo studio, accendendosi con gusto la pipa.

FEDE NEL SOCIALISMO LIBERALE. A 87 anni, il sociologo che ha descritto le metamorfosi del capitalismo e l’esplodere della società dei consumi gira il mondo senza sosta per lezioni e conferenze. Ma le sue radici sono lì, nella culla del socialismo liberale, nel quale non ha mai smesso di credere.

La sua casa in collina – molto british – è grande e accogliente, piena di libri ma senza grandi comfort. Gli oggetti sembrano essere stati piazzati sui mobili per restarci a lungo.
Per gli ospiti, Bauman prepara con cura un caffè e un’abbondante colazione. «Si faccia un giro in questa splendida cittadina, prima di ripartire. Goda delle sue arti, respiri la sua cultura. Qua è tanto meglio che a Londra», suggerisce, prima di parlare dei travagli del mondo.

LE DUE VIE PER USCIRE DALLA CRISI. Sulla crisi attuale, l’uomo che ha vissuto molto vede nero. Ma, da sociologo, è molto lineare e lascia la porta aperta. «Ci sono due possibilità», spiega a Lettera43.it. «O, come è già successo nella storia, l’umanità cambia rotta e, per sopravvivere, imbocca una strada alternativa alla crescita» oppure, se l’homo consumens non accetterà, con sacrificio, di tornare indietro, «la natura prenderà il sopravvento e sarà la guerra di tutti contro tutti per la redistribuzione delle risorse».
In entrambi i casi, il processo sarà «doloroso», soprattutto nei Paesi occidentali, dove «lo stato sociale è in via di demolizione». Per Bauman, «non è più una questione di destra o di sinistra», ma di lotta per la sopravvivenza.

Le insidie non mancano, a partire dal capitalismo al tramonto, che «riserva sempre sorprese imprevedibili», e dall’impotenza della politica che, se non riacquisterà il potere di agire, non potrà traghettare i Paesi verso modelli più sostenibili.

DOMANDA. Eppure i politici propongono la via dell’austerity, per tagliare sprechi e sperperi della società dei consumi.
RISPOSTA. È una soluzione a breve termine, che di certo riduce la crescita e tiene molte persone disoccupate.

D. Come fa allora a risolvere la crisi?
R. Probabilmente, anche i rimedi a breve termine sarebbero dovuti essere diversi. Io, da sociologo, posso esprimermi solo in una prospettiva a lungo termine.

D. Per ora, cosa è arrivato a concludere?
R. Primo, che la crisi era ampiamente prevedibile. Siamo vissuti per oltre 30 anni al di sopra delle nostre possibilità, spendendo soldi non guadagnati. Il collasso del credito era inevitabile.

D. Colpa del ceto medio vorace, che, con il boom economico, voleva accaparrarsi tutti i nuovi comfort?
R. Certo che no. Le masse sono state convinte a vivere a credito. Sugli interessi dei loro prestiti, le banche hanno incamerato grandi utili. Le persone sono state indottrinate, è stato fatto loro il lavaggio del cervello.

D. Un sistema sofisticato.
R. Miracoli del capitalismo. Il punto, però, è che adesso ci troviamo in questa situazione. In tutto il mondo, non solo nell’Occidente più sviluppato, ma anche nelle Tigri asiatiche, in Brasile…

D. L’Europa non è messa peggio dei Paesi in via di sviluppo?
R. Questo sì. In Europa e negli Usa la contrazione è maggiore. E in Gran Bretagna, per esempio, si è abusato delle carte di credito più che in Italia, ma il trend è lo stesso.

D. C’è chi parla già di ripresa, grazie alle manovre di austerity.
R. Di questo mezzo secolo di abbondanza pagheranno lo scotto non solo le attuali nuove generazioni. Ma i loro figli e i loro nipoti.

D. In cosa ha sbagliato la società liquida?
R. Intanto nel non considerare che c’è un limite naturale al credito. Che quello che si ottiene senza sacrificio oggi, si pagherà necessariamente domani.

D. E poi?
R. Poi c’è un secondo aspetto che abbiamo ignorato: la sostenibilità del pianeta. Stiamo già consumando il 50% in più di quanto la Terra possa offrire.

D. Ma, con la crisi inarrestabile, i consumi si stanno contraendo.
R. Globalmente, la fame di risorse continua a crescere. Tra 50 anni avremo bisogno di cinque pianeti, per soddisfare i nostri bisogni. È una certezza.

D. Ed è una certezza che la Terra sarà distrutta.
R. Credevamo che la sola via per essere felici in queste e nelle prossime vite fosse consumare il più possibile. Invece questo sistema sta distruggendo il pianeta e le nostre esistenze individuali.

D. Come se ne esce?
R. Per uscirne, dovremmo necessariamente rivedere i nostri stili di vita. Mettere in discussione tutto quello che siamo stati abituati a pensare o a credere, rinunciando a molti comfort.

D. Sarà dura.
R. Chi, come le nuove generazioni, non ha mai provato una vita frugale dovrà imparare da zero un modello alternativo. Chi, come me, ha vissuto per 40 anni senza frigorifero, dovrà riabituarsi a minori comodità.

D. Sta dicendo di rassegnarci ad andare in peggio?
R. Non in peggio, a cambiare mentalità. Per millenni, le generazioni hanno vissuto senza televisione e non stavano necessariamente peggio. Di certo, sarà difficile disabituarsi ai comfort. Sarà – se accadrà – un processo lungo e doloroso.

La sconfitta della politica. O una società nuova o la guerra per le risorse

D. Perché dubita che accadrà, se ritiene possibile l’esistenza di società alternative?
R. Essere possibile non è essere scontato. Qualcuno dovrà necessariamente guidare questo percorso. La grande domanda è capire quale forza sarà in grado di farlo.

D. La politica non è in grado?
R. I governi sono chiaramente incapaci di farlo. Vengono eletti per quattro, cinque anni. Il loro obiettivo è restare in carica. Per riuscirci, dicono alla gente quello che vuole sentirsi dire nel momento.

D. Eppure la crisi dura da cinque anni.
R. E infatti la politica è impotente, non sa che pesci prendere. Ormai la gente, per frustrazione, vota chi non era al governo al momento del collasso. Non è più una questione di destra o di sinistra.

D. In Italia, Mario Monti non è stato neanche eletto.
R. Ma la gente lo avrebbe votato egualmente, per reazione contro il premier precedente. In Spagna, il socialista José Luis Zapatero cadde travolto dalla crisi, ma sarebbe accaduto lo stesso al conservatore Mariano Rajoy. E se in Francia, due anni fa, ci fosse stato monsieur François Hollande, ora Nicolas Sarkozy sarebbe in carica.

D. Non è un quadro troppo sconfortante?
R. Ormai la gente ha la certezza che qualsiasi governo non serva a niente. I cittadini hanno perso fiducia nell’élite al comando. E, se vuole la mia personale opinione, penso che abbiano ragione.

D. Perché?
R. Da un po’ ormai vado dicendo che i politici non hanno più in mano gli strumenti per governare.

D. In che senso?
R. Al momento, siamo in una fase di divorzio tra politica e potere. Il potere è la capacità di fare determinate cose, la politica è la capacità di decidere quali cose devono essere fatte per il Paese. Se 50 anni fa politica e potere erano nelle mani dei governi, oggi il potere è stato globalizzato. Ma la politica no, è nazionale. O, al limite, internazionale.

D. Può fare un esempio concreto?
R. Prima i politici decidevano cosa fare e, contemporaneamente, avevano il potere di agire nel campo delle finanze e dell’economia nazionali. Oggi possono pensare a cosa fare, ma agire è ormai un potere fluttuante nella no man’s land globale. Le aree locali non hanno più influenza.

D. Stati e gruppi di Stati sono quindi succubi dei cosiddetti ‘poteri forti’.
R. La situazione è terribile. E fino a che non cesserà questo scollamento, nessuna soluzione a lungo termine potrà essere trovata. Questa è la mia profonda convinzione.

D. Prima parlava di rivedere gli stili di vita, costruire un modello di società alternativo.
R. Non si tratta solo di eliminare i surplus consumistici. Ma di reimparare – o imparare da zero – a essere felici stando nella comunità, coltivare relazioni di vicinato, cooperare.

D. Non le sembra un progetto utopistico?
R. Utopistico? Perché mai (ride). È chiaro che tu, io, tutti noi insieme, dovremo discutere seriamente per cambiare i nostri orizzonti, smettendo di spendere nei negozi. Ma, in passato, per la maggior parte della storia dell’umanità, gli uomini trovavano soddisfazione, per esempio, nel creare e nello svolgere lavori ben fatti. I sociologi lo chiamano istinto dell’uomo-artigiano.

D. E se non ci riusciremo, se non ci sarà la volontà di tornare artigiani?
R. Allora – è la seconda possibilità – la vita sarà ancora più dura. La natura minaccerà la nostra esistenza. E, se anche non soccomberemo, ci saranno guerre sanguinose.

D. Guerre per le risorse?
R. Sì, come ha ipotizzato Harald Welzer in Climate wars, a differenza del 1900, le guerre non saranno ideologiche, ma molto materiali. Ci potrebbero essere grosse guerre per la redistribuzione.

D. Sopravvivenza e distruzione, entrambi gli scenari sono possibili.
R. Come sociologo non sono in grado di dire quale prevarrà. Personalmente, non credo tanto nella prima possibilità.

La fine dello stato sociale e la smitizzazione del ’68

D. Oltre ai consumi che le masse non possono più permettersi, la crisi globale sta distruggendo lo stato sociale.
R. Tutti i governi lo stanno smantellando, socialdemocratici e di centrodestra. Come per i premier eletti, la scomparsa dello stato sociale non è né di destra, né di sinistra. Del resto, non lo fu neanche sua creazione.

D. Da cosa nacque lo stato sociale?
R. L’idea che la comunità venisse incontro nei momenti di difficoltà si concretizzò, in modo particolare, dopo la terribile esperienza della Seconda guerra mondiale.

D. Tutti ne uscirono a pezzi.
R. Al di là della destra e della sinistra, si arrivò alla conclusione di aver tutti bisogno dell’aiuto reciproco. I lavoratori, ma anche i capi. L’uno dipendeva mutualmente dall’altro.

D. Perché mai il padrone, the boss, dipendeva dagli operai?
R. Allora il capitalismo aveva ancora bisogno di lavoratori locali. Era interesse del boss tenere la sua potenziale forza lavoro in buone condizioni. Buona salute, buona istruzione, buona forma. Magari anche una buona auto per andare al lavoro!

D. Ma a pagare il welfare era lo Stato.
R. A maggior ragione c’era bisogno del welfare. Con questo meccanismo, i capitalisti abbattevano anche il prezzo per avere forza-lavoro attraente. La comunità pagava loro buona parte dei costi.

D. Invece oggi?
R. Oggi le aziende non hanno più bisogno di lavoratori locali. Con la globalizzazione fanno arrivare manovalanza dall’Asia e dall’Africa. Oppure traslocano in Bangladesh.

D. L’industria è davvero finita in Europa?
R. Togliamoci dalla testa che ritorni. I disoccupati europei non sono più neanche potenziali lavoratori. La classe operaia – e più in generale la classe lavoratrice dipendente – sta scomparendo molto velocemente. Come nel 1900 accadde con i contadini.

D. Cosa resta nel continente?
R. Lo vediamo dai danni fatti. Da decenni i profitti non si fanno più dall’incrocio tra capitale e lavoro. Ma dall’incrocio tra prodotti e clienti. Occorreva tenere buoni i consumatori.

D. Come il welfare, anche le conquiste del 1968 sono polverizzate dalla crisi.
R. Da un punto di vista sociologico, rivalutato a posteriori, il movimento del ’68 coincise con l’entrata dei cittadini nella società dei consumi. Fu questa la sua conseguenza più duratura.

D. Non le considera conquiste?
R. Il ’68 fu una rivoluzione culturale, non c’è dubbio. E di certo, gli studenti che scendevano in strada volevano tutto, tranne che sdoganare la società dei consumi.

D. Ma?
R. Ma, volenti o nolenti, la conseguenza fu quella. Dall’austerità del dopoguerra emerse una nuova generazione che voleva godersi la vita, semplicemente.

D. È un paradosso.
R. Eppure è così. I sessantottini erano consumatori di mercato, pronti a cogliere le occasioni che si presentavano. Volevano divertirsi. Vestirsi alla moda. Crearsi identità diverse dalle precedenti. Essere liberi di provare piaceri temporanei. Alla lunga, anche gli iPhone sono una conseguenza del ’68.

D. Anche l’amore liquido è una conseguenza del ’68.
R. Gli appuntamenti su Internet, gli incontri di una notte («one night stand»)… Tutto è una conseguenza. È facile: ti diverti, poi premi il bottone delete, cancella. E tutto sparisce.

D. Nell’attimo, però, la soddisfazione è maggiore. Si conoscono più partner, si accumulano esperienze di vita.
R. Sì, ma il punto è che, nel tempo, ciò che dà soddisfazione è innanzitutto collezionare esperienze su esperienze. Una volta ottenuto l’oggetto del desiderio lo si getta via, per ottenerne subito un altro.

D. Il mio iPhone, però, non è l’ultimo modello. E l’ho preso pure usato.
R. Stia tranquilla che, presto, anche lei lo getterà nel sacco della spazzatura, per averne uno nuovo.

L’etica commercializzata e la vitalità del capitalismo

D. Si prende, si usa e si scarta. Eppure, 20 anni fa, lei guardava all’etica post-moderna come a un salto di qualità. La società liquida non era tutta da buttare.
R. Avevo, ahimè, sottovalutato l’ingegnosità del marketing capitalista. Pensavo che, dopo secoli di società solida, dove la moralità si identificava con il conformismo, fosse finita l’etica dell’obbedienza ai codici prestabiliti e iniziasse l’epoca dell’agire morale individuale. Un agire autentico e libero, dettato dalla responsabilità delle proprie scelte.

D. Perché non è andata così?
R. Nell’era dei consumi, anche l’etica e la moralità sono state commercializzate. In un’epoca dove sei rintracciabile ovunque e, pena il licenziamento, devi fare gli straordinari per il tuo capo, ti senti molto in colpa, per non essere un partner presente, un buon padre o una buona madre.

D. E allora?
R. Allora arrivano in soccorso i negozi. Con i regali cerchi di compensare i bisogni della tua famiglia. Come un prozac, sedano il tuo inappagato impulso morale.

D. Ma non risolvono i problemi.
R. Affatto. Scambiando i regali come tranquillanti, non sentirai mai che le relazioni umane vanno in pezzi. Togliendo il dolore, non cercherai più la guarigione e diventerai patologico.

D. Parla della situazione attuale?
R. Riducendo gli scrupoli morali ed evitando di affrontare i problemi, siamo arrivati dove siamo arrivati.

D. Eppure lei ha vissuto tempi peggiori: la guerra, i regimi, la discriminazione. È davvero così doloroso vivere oggi? E domani sarà davvero così difficile?
R. È sbagliato pensare alla società liquida, come a una società leggera e superficiale. Non ha senso comparare i livelli di felicità di epoche e generazioni diverse.

D. Perché?
R. Perché si confrontano astrazioni diverse. Per sentire la mancanza di qualcosa, devi prima provarne l’esperienza. Si può dire che ogni tempo abbia le proprie gioie e le proprie afflizioni. Ma non che oggi un giovane rimasto senza Facebook soffra meno che a vivere nel Medioevo.

D. Qual è lo scoglio più duro della crisi attuale?
R. La deprivazione. Quattro anni fa non sarebbe stato neanche immaginabile perdere la capacità di comprare una casa, di chiedere prestiti…

D. … Persino non potersi permettere un’auto.
R. Eppure sarà così. Tornare allo stile di vita «happy & lucky» (felice e fortunato) del ’68, o anche solo di un anno fa, sarà impossibile.

D. Se per l’etica era stato fiducioso, adesso lo è meno.
R. Se è per questo, come tanti ero stato anche troppo ottimista sul capitalismo.

D. Con il crollo dei consumi morirà il capitalismo?
R. Chissà. In passato molti hanno profetizzato la sua fine. Invece, visto che non siamo profeti, quando stava per morire il capitalismo è sempre risorto.

D. Come ha fatto?
R. Trovando strade inedite e sorprendenti, per fare profitti.

D. Anche il capitalismo è liquido?
R. Quanto meno flessibile e dotato di grande inventiva. È riuscito a trasformare la gente che aveva abitudine a risparmiare, in gente che spende denaro senza riserve. Un miracolo.

D. Ora anche il business del credito però sembra arrivato al capolinea.
R. Il capitalismo è in seria difficoltà e sembra assai improbabile che possa sopravvivere. L’ultima sua metamorfosi è grigia. Ormai il Prodotto interno lordo si regge su un’economia illusoria e intangibile, disconnessa dai problemi genuini della gente, che fa profitti solo spostando moneta.

D. Business virtuale.
R. Business per pochi. I soldi si muovono dalle tasche di un grande azionista verso le tasche di un altro grande azionista. Capace però di fare miracoli.

Giovedì, 27 Settembre 2012

Fonte: http://www.lettera43.it/economia/macro/sara-guerra-per-le-risorse_4367565703.htm

Il giudizio universale di JPMorgan

I DESTINI DEL MONDO SONO DECISI DA 400 PERSONE CHE GUADAGANO $ 97.000 L’ORA. E GUARDANO AI RIMANENTI 6 MILIARDI DI ABIANTI DEL PIANETA O COME CLIENTI DA SPREMERE FINO ALL’ULTIMO SPICCIOLO, O, SE SONO I POVERI DELLA TERRA, COME POPOLAZIONE DA STERMINARE, PERCHÉ CAUSA DELL’INSTABILITÀ PER LA SICUREZZA DEI LORO AFFARI E, DUNQUE, DELLA CRESCITA ESPONENZIALE DEI LORO PROFITTI.

(E.C.)

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Il giudizio universale di JPMorgan

di BARBARA SPINELLI

La Repubblica 26 giugno 2013

Il tempo storico ha degli scatti, scrive Franco Cordero su questo giornale (9 maggio), e ogni tanto gli scenari mutano improvvisamente: un tabù civilizzatore cade; avanza un nuovo che scardina la convivenza cittadina regolata. Gli Stati di diritto d’un colpo son traversati da crepe, come il Titanic quando urtò l’iceberg e in principio parve un nonnulla.

Oggi, è “l’idea d’uno Stato dove i poteri legislativo, esecutivo, giudiziario appartengano a organi diversi e siamo tutti eguali davanti alla legge” a esser malvista dalla parte dominante nel XXI secolo. Soprattutto, sono malviste le Costituzioni nate dalla Resistenza. Specie quelle del Sud Europa: in Italia, Grecia, Spagna, Portogallo.

Nessuno Stato lo proclamerebbe a voce alta. Ma lo dice con grande sicurezza, perché fiuta larghi consensi, una delle più potenti banche d’affari del mondo, JPMorgan, in un rapporto sulla crisi dell’euro pubblicato il 28 maggio. È un testo da leggere, perché in quelle righe soffia lo Spirito del Tempo. Il proposito di chi l’ha redatto è narrare la crisi (narrazione è termine ricorrente) e la morale è chiara: se l’Europa patisce recessioni senza tregua, significa che le sue radici sono marce, e vanno divelte. Berlusconi lo disse già nel febbraio 2009: la nostra Costituzione fu “scritta sotto l’influsso della fine di una dittatura da forze ideologizzate che vedevano nella Costituzione russa un modello”. Sapeva di avere il vento in poppa. Oggi è azzoppato da una sentenza che lo giudica un fuori-legge, ma che importa se il pericolo vero è la Costituzione (solo Vendola chiede le dimissioni). Anche JPMorgan è accusata dal Senato Usa di speculazioni fraudolente, ma che importa.

La radice europea è il delicato equilibrio tra poteri fissato nelle Carte postbelliche. È il bene pubblico e l’uguaglianza. C’è un problema di retaggio, pontifica il rapporto: un’eredità di cui urge sbarazzarsi, in un’Unione dei rischi condivisi. Troppi diritti, troppe proteste. Troppe elezioni, foriere di populismi (è il nome dato alle proteste). All’inizio si pensò che il male fosse economico. Era politico invece: altro che colpa dei mercati. Unico grande colpevole: “Il sistema politico nelle periferie Sud, definito dalle esperienze dittatoriali” e da Costituzioni colme di diritti fabbricate da forze socialiste.

Ecco lo scatto che compie la storia: una crisi generata dall’asservimento della politica a poteri finanziari senza legge viene ri-raccontata come crisi di democrazie appesantite dai diritti sociali e civili. Senza pudore, JPMorgan sale sul pulpito e riscrive le biografie, compresa la propria, consigliando alle democrazie di darsi come bussola non più Magne Carte, ma statuti bancari e duci forti.

Le patologie europee sono così elencate: “Esecutivi deboli; Stati centrali deboli verso le regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso sfocianti in clientelismo; diritto di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo”. Di qui i successi solo parziali, in Sud Europa, nell’attuare l’austerità: “Abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)”.

In tempi più lontani si suggeriva di correggere la democrazia “osando più democrazia”: lo disse Willy Brandt. Non così quando la Cina vince senza democrazia. E non s’illuda chi vuol rafforzare i diritti riversandoli in una Costituzione europea. Se il guaio è l’eredità, il testamento svanisce e i padri costituenti vanno uccisi: non ovunque magari – Berlino sta rafforzando il suo Parlamento e la Corte costituzionale – ma di certo nei paesi indebitati, dove guarda caso la Resistenza fu popolare e vasta.

Il rapporto di JPMorgan è uscito prima che, la notte dell’11 giugno, venisse chiusa l’Ert, equivalente greca della Rai, aprendo una falla nelle torbide larghe intese di Samaras. Di sicuro il colpo di mano sarebbe stato applaudito: anche l’informazione non-commerciale è costoso bene pubblico di cui disfarsi. La trojka (Commissione europea, Bce, Fondo Monetario) ha ottenuto molto, concludono i sei economisti autori del rapporto. Ma il mutamento cruciale, delle istituzioni politiche, “neanche è cominciato”. “Il test chiave sarà l’Italia: il governo ha l’opportunità concreta di iniziare significative riforme”.

Alla luce di rapporti simili si capisce meglio la smania italiana, o greca, di nuove Costituzioni; e l’allergia diffusa alle sue regole fondanti, che vietano l’uomo solo al comando, l’ampliarsi delle disuguaglianze, la svendita delle utilità pubbliche. L’economista Varoufakis s’allarma: “Murdoch e simili saranno in estasi: l’Ert smantellato diverrà un modello per privatizzare la Bbc, o l’Abc in Australia, o la Cbc in Canada”. O la Rai. Si capisce infine la trepidazione di costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky: ferree leggi dell’oligarchia imporranno una riscrittura delle Costituzioni che svuoterà Parlamenti e democrazia.

Discutendo il presidenzialismo, Zagrebelsky vede in azione il perturbante: “Penso che il tema andrebbe trattato non come fosse al centro di una guerra di religione, ma guardando empiricamente come funziona il presidenzialismo nei vari paesi”. Colpisce l’accenno alle guerre di religione, perché fideistica è l’apparente sfrontatezza degli economisti di JPMorgan. Il neo-liberismo s’irrigidisce in credo, come intuì nel 1921 Walter Benjamin nel frammento Capitalismo come religione. Invece di una svolta, di un rinnovamento, abbiamo una sorta di anticipato Giudizio Universale al cui centro c’è il binomio punitivo colpa/debito. In tedesco Schuld significa le due cose ed è parola “diabolicamente ambigua”, ricorda Benjamin. Non prefigura redenzioni, ma trasforma l’economia in divina legge di natura, e volutamente perpetua “un’inquietudine senza via d’uscita”. Siamo prede del Destino, fatto di sventura e colpa: “una malattia dello spirito propria del capitalismo”.

Chi la pensa così ha un credo, per di più autoassolutorio. La storia delle nazioni, quel che hanno costruito imparando dagli errori: non è che un incomodo, ribattezzato status quo. In un libro appena uscito, Roberta De Monticelli parla di catarsi mancata dall’Italia, di una speranza “non aperta al vero se non ha memoria” (Sull’idea di rinnovamento, Raffaello Cortina). Il rapporto di JPMorgan non ha contezza di tragedie e catarsi.

È vero, le Costituzioni sono la risposta data ai totalitarismi. I cittadini devono poter protestare, se dissentono dai governi. Quando l’articolo 1 della nostra Carta scrive che la Repubblica è fondata sul lavoro, afferma che economia e finanza vengono dopo, non prima della dignità della persona. Quando l’articolo 41 sostiene che l’iniziativa economica privata è libera, ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, ricorda che il bene pubblico è legge per i mercati. L’Unione sovietica ignorava la legge.

La Resistenza ci ha affidato questo retaggio. Ha generato, contemporaneamente, sia l’unità europea, sia la lotta alla povertà e il Welfare. Sfrattare le Costituzioni vuol dire che l’Europa sarà autoritaria, e decerebrata perché senza memoria di sé. Per altro è nata, conclude De Monticelli: “Perché le leggi di natura scendessero giù, nel fondamento muto delle nostre vite, e in alto invece – al posto del cielo e delle stelle – fossero poste leggi fatte da noi, fatte per porre un limite a ciò che c’è in noi di violento e di rapace (…) Fatte soprattutto perché la giustizia cosmica non c’è, perché l’ordine del cosmo è per noi umani cosmica ingiustizia”. Demolire le Costituzioni in nome della cosmica giustizia dei mercati: questo sì sarebbe colpa-debito, e inquietudine senza via d’uscita.

Preghiera di consacrazione del presbitero. Ispirata al rinnovo delle promesse del giovedì santo

La seguente invocazione è ispirata alla preghiera di ordinazione presbiterale e alla rinnovazione delle promesse sacerdotali che i presbiteri fanno, il giovedì santo ,durante la celebrazione della Messa Crismale. È composta in modo che ciascun presbitero possa recitarla in qualsiasi momento, soprattutto durante i momenti di adorazione eucaristica, anche da solo, ma può essere adattata per essere recitata da più presbiteri.

 

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Conclave 2013. Cos’è che sfugge della Chiesa al mondo?

Per molti operatori dell’informazione ed esponenti del mondo della politica, le vicende Chiesa sono solo una questione politica. Politica ecclesiastica. L’ambito è diverso ma le categorie con cui descrivere il fenomeno sarebbe uguale. Politica come conquista di conquista e spartizione di potere, alleanze interne, guerra fra contrapposte correnti. Finanza, Ior, privilegi, ecc. Tutto qui. Solo questo. Il conclave, dunque, non sarebbe altro che una riunione segreta di cardinali, i quali devono trovare tutti gli accordi possibili per ristabilire gli equilibri interni della Chiesa, in modo tale che tutti tornino a casa contenti. L’elezione del Papa rappresenta la convergenza dei vari interessi e il ristabilimento di tali equilibri. Ammettiamo, per pura speculazione, che tutto ciò sia vero. Ciò che ai media sfuggirà e risulterà sempre incomprensibile è che, nelle cose della Chiesa, per quanto il fattore umano possa sembrare determinante e risolutivo, il fattore fede gioca un ruolo più potente e determinante rispetto a qualsiasi altro fattore. Se, dall’altra parte, si tenderebbe, non senza semplicismo, a credere che l’unico protagonista delle cose di Chiesa, e quindi di un conclave, sia solo lo Spirito Santo, come se la fragilità degli uomini non concorresse a opporre le sue resistenze, (“alla fine sarà lo Spirito Santo a decidere“), si dimentica che la vita e la storia della Chiesa sono un costante intreccio fra l’azione dello Spirito e l’azione umana. La verità è che in questo intreccio fra umano e divino, fra calcoli umani e proiezioni della fede, è proprio quest’ultimo fattore a fare delle cose di Chiesa, e quindi, soprattutto, di un conclave, un evento che sfugge irriducibile a qualsiasi calcolo elaborato con i linguaggi della politica. Inoltre, l’immagine di una Chiesa che sia solo complotti, potere, finanza e corruzione e che, dentro il conclave, cerca il candidato migliore per garantire la “pax vaticana”, rappresenta solo un bisogno di chi deve, ad ogni costo, ridurre le vicende della Chiesa alle logiche del mondo. La fede rappresenta quel fattore determinante tale da obbligare a leggere tutto con nuovi parametri. Anche se l’avessero in pochi. E, grazie a Dio, questo non è il caso

E.C.

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Categorie sofisticate (e politiche) invece che spirituali

L’attenzione riservata in questi giorni dai mass-media alle vicende interne della Chiesa, al suo massimo livello, è del tutto comprensibile ma non può non lasciar pensare. Perché dall’insieme degli interventi – molti dei quali animano un chiacchiericcio inutile, altri invece risultano essere più meditati e costruttivi – sembra di cogliere che gli operatori della comunicazione vengono spesso a leggere temi e problemi della comunità cattolica e della istituzione ecclesiastica con lenti inadatte, quando non deformanti.

Riflessioni già sviluppate su queste pagine hanno sottolineato come, in sostanza, emerga una diffusa – ancorché, per fortuna, non generale – tendenza a interpretare le vicende interne della Chiesa secondo categorie magari sofisticate, ma elaborate per capire la società civile, o meglio ancora secondo schemi interpretativi della politica. Arrivare a ridurre i fatti in termini di potere, di parti, di correnti, di interessi finanziari, di lotte intestine significa infatti concepire la comunità ecclesiale come una qualsiasi istituzione politica o, addirittura, come una multinazionale, con le fisiologie che queste realtà presentano e le patologie che possono manifestare.

Ma è evidente che applicare i canoni interpretativi della politica o della vita economica a una realtà che è diversa, profondamente diversa, significa da un lato avere una falsata rappresentazione di questa e, al contempo, trasmettere all’opinione pubblica una immagine lontana dal reale. E ciò, anche a prescindere da qualsiasi dietrologismo, cioè dal sospetto – che qui non vogliamo assolutamente avanzare – della sussistenza di una lucida e determinata volontà di presentare una raffigurazione diversa delle cose. Non se ne fa dunque una colpa, né si vuol addebitare qualcosa a qualcuno; ma ciò non toglie il rammarico di vedere in tanti casi l’incapacità di cogliere il proprio di una realtà profondamente eterogenea rispetto alle cose mondane.

Evidentemente anche la Chiesa, nella sua dimensione storica di comunità di uomini, conosce in ciò che non è di fede, o che non attiene all’inderogabilità dei princìpi morali, diversità di opinioni, visioni diverse del modo con cui concretamente perseguire il mandato affidatole, diverse modalità di reagire alle provocazioni che la modernità le rivolge o di accogliere le istanze che da questa vengono, differenti valutazioni attorno a ciò che è più o meno opportuno, scelte tra varie strategie d’azione, valutazione sugli uomini più idonei a determinati uffici. La Chiesa, ben al di là della percezione che molti ne hanno, non è mai stata un monolite assolutistico ma è segnata da una pluralità di istanze collegiali ed elettive: il suo stesso capo supremo, il Papa, è eletto. E non è un caso che nell’età medievale siano stati proprio i canonisti, per le esigenze interne all’istituzione ecclesiastica, a trovare le ragioni di legittimazione del principio maggioritario, quale strumento di formazione della volontà nelle assemblee.

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Ma le differenze con le realtà mondane fanno aggio su qualsivoglia analogia. Il fine della Chiesa è spirituale, non temporale; il suo non è un potere politico o economico, ma un servizio; la sua forza è una croce dalla quale, lo si è visto proprio in questi giorni, comunque non si discende. Davvero uno dei problemi della Chiesa nel mondo contemporaneo è la difficoltà di dialogo con un potere in continua ascesa: quello massmediale. E non solo perché essa non riuscirebbe a farsi sempre comprendere negli odierni “linguaggi”; ma anche, reciprocamente, perché i mezzi di comunicazione sociale, che di tali linguaggi sono i principali facitori, hanno frequenti e oggettive difficoltà a cogliere la verità della Chiesa.

Giuseppe Dalla Torre

(Avvenire 9 marzo 2013)

 

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A New York, come ovunque, emergono infine i veri interrrogativi

La domanda sulla Chiesa che scava nel nostro profondo

Lei in metropoli-tana scendendo dalla 86ma verso Downtown mi dice: «Ho visto un cardinale in tv, non ricordo come si chiama. Gli chiedevano se ora la Chiesa sarà più progressista o qualcosa del genere. E lui diceva che il compito della Chiesa è custodire l’annuncio del Vangelo».Poi la mia amica fa una pausa. «Non ho capito cosa volesse dire… Me lo spieghi?». Come la viaggiatrice, che sulla linea rossa attraversa i sotterranei della Grande Mela, ho sentito tanti in questi giorni passati tra università, letture di poesia, ritrovi con amici e nuovi incontri. In ogni dove e anche qui a New York, si fanno domande attorno alla Chiesa. A proposito di questa “cosa” che è salita alla ribalta per il gesto “strano” del suo capo. In quel vuoto lasciato da Benedetto si sono infilate un sacco di domande, di questioni. A tavola, in viaggio, nelle pause del lavoro, nelle aule, su Facebook, su Twitter, ovunque si conversi dal vivo o in virtuale. A volte solo poche battute superficiali, spesso la ripetizione di vecchi schemi ritriti, come quello del giornalista visto dalla mia amica. Ma altre volte, non poche, una sincera curiosità.È stato sempre così. Il cristianesimo fa sempre discutere. Anche quando si pensa di sapere già di che cosa si tratta, capita qualcosa che te lo fa “scoprire” di nuovo. Immagino che nelle bettole, nelle aule, nei mercati di duemilatredici anni fa a Betania, a Gerusalemme, a Cafarnao doveva accadere qualcosa del genere. «Che cosa sta succedendo?» «Chi è che deve venire?». E allora come ora non manca chi cerca in modo farisaico di tenere occulto il nocciolo della questione. Gesù accusava i Farisei di nascondere Dio al popolo dietro i fumi dei loro discorsi, dei loro sofismi, delle loro leggi pesanti e astruse.

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Anche oggi si vede un formicolare di chiacchiericcio farisaico. Gente che non intende il nocciolo della questione, ovvero il significato della presenza della Chiesa nella storia umana, e cerca di confondere le persone con piccoli giochi di fumo. Ma l’esperienza del “colpo” e della curiosità successive sono più forti di ogni trucco. E oggi come allora la domanda su questa strana presenza si insegue e si dirama. Per nuove bettole e città, per nuovi mercati e nuove aule, tra templi e grattacieli. In un mondo pagano e religiosissimo come duemila anni fa, irrompe una cosa strana. È soprattutto una grande chance per i cristiani di testimoniare l’essenziale. Il motivo per cui la Chiesa fa parlare di sé è sempre e comunque, nel bene e nel male, legata alla sua natura di “sposa”.Di una insomma che è legata a un Altro. E che esiste solo per un motivo: annunciare che Cristo è vivo. La si ama e la si odia per questo. Perché i nostri limiti e orrori nascondono la sua luce, o perché si preferiscono luci di idoli artificiali e non si sopporta la sua stessa esistenza, come si vede in molti casi crescenti di persecuzione e di insofferenza. Ci sono poi quelli che a volte in modo buffo si impancano a esperti e spiegano a uditori improvvisati i misteri di una storia millenaria, le “regole”, i retroscena.

Fanno quasi tenerezza. Magari fino a qualche tempo fa se ne fregavano altamente di qualsiasi cosa accadesse o dicesse il Papa (o altre voci della Chiesa, consacrate o laiche) e ora fanno quelli che la sanno lunga… Ma resta il fatto di una strana inquietudine, di una domanda, che s’è aperta, vasta, diffusa, imprevista. Anche quando è confusa porta attaccate – come le radici nascoste di un bulbo quando lo si estrae – le domande più profonde di ogni persona viva. Quelle sul proprio destino, su cosa è stare qui, soffrire, amare, morire, stare soli o insieme, orfani o figli, creature o pezzi di nulla. E cosa c’entra con tutto questo lo strano Nazareno…

 

Davide Rondoni

(Avvenire 11 marzo 2013)

Gioco d’azzardo, la politica squallida

da Famiglia Cristiana  – 02/01/2013

Candore, stupore, meraviglia sono termini che nel periodo di Avvento e di Natale dovrebbero trovare alte e significative declinazioni. Invece, ancora una volta la politica si dice stupita se la società civile si schiera apertamente contro chiedendo alle Istituzioni di porre un argine serio e risolutivo alla piaga del gioco d’azzardo (che meglio chiamerei solo “azzardo” perché gioco non è) che ormai miete vittime quotidianamente. Accendere i riflettori, richiamare l’attenzione della politica su questo argomento crea maggiore disagio e stupore proprio quando interviene chi ha deciso di far valere il peso del suo incarico tecnico per senso di responsabilità e per salvare il Paese dal “baratro”.

Già, ma quale baratro? Quello economico, finanziario, morale, etico, sociale? Finora la politica ha mostrato “i muscoli” con le categorie più deboli: alle parole equità e rigore è riuscita a dare sfogo solo alla seconda con interventi pesanti sulla vita delle famiglie. Con le grandi lobby, invece, la politica si è palesata da sempre accondiscendente senza, perciò, mostrarsi mai seriamente stupita. Una di queste lobby è certamente quella del gioco d’azzardo che, con interventi sommersi e di dubbia provenienza, ha confermato di non accettare compromessi, battute di arresto e persino confronti. La lobby dell’azzardo da sempre è presente nelle stanze del potere.

Non è un segreto che ancora una volta, per mano di due senatori in Commissione Bilancio al Senato, qualche settimana fa, è stato deciso di immettere nel mercato altre 1.000 nuove concessioni (poker live) tentando anche di dare uno stop alla già vacillante Legge di Conversione del Decreto Balduzzi che innegabilmente per la prima volta scrive in una legge la parola gioco d’azzardo connotandola negativamente. Eppure alcune Associazioni di volontariato che operano nella società civile avevano dato precise indicazioni su come contrastare e regolamentare il gioco d’azzardo in Italia soprattutto nelle sue forme problematiche e patologiche.

Tra l’altro la Consulta Nazionale Antiusura con l’istituzione del Cartello “Insieme contro l’Azzardo” così come altre realtà socio-assistenziali di ispirazione ecclesiale e non, si sono messe con umiltà e spirito di collaborazione a disposizione delle Istituzioni. In eventi pubblici, più volte è stato incontrato da nostri rappresentanti e da membri di altre associazioni, proprio il ministro dimissionario Balduzzi, il quale si è sempre pronunciato positivamente, almeno negli intenti, con le richieste della società civile. La realtà però che subito dopo è emersa è stata molto diversa da quanto ci si sarebbe aspettato da un Governo improntato all’equità e al rigore.Tanto per fare un esempio, ricordiamo ancora la questione delle distanze delle sale gioco dai centri sociali: prima 500 metri, poi 200 metri per finire con il termine “in prossimità”, modifica che provocherà non pochi strascichi giudiziari.

Per continuare, nella Legge 189/12 viene subordinata la rilocalizzazione delle sale gioco compatibilmente con gli interessi di settore! Non è dato comprendere quali possano essere gli interessi di settore rilevanti che possano prevalere sulla salute di oltre un milione di giocatori patologici e di oltre 6 milioni tra familiari e amici che ne soffrono i riflessi negativi. In queste ultime settimane stiamo scoprendo in realtà quali siano gli “interessi di settore”. Dalle notizie diffuse su vari quotidiani nazionali, sta emergendo che la politica è sempre più coinvolta nel settore del gioco d’azzardo. Politici che sottraggono risorse al sociale per consumarle alle macchinette mangiasoldi; che promettono di togliere tasse (IMU) aumentando l’offerta di giochi avendo diretti loro interessi nel settore; che si fanno “foraggiare” per organizzare manifestazioni di piazza piuttostoche cene di partito, campagna elettorale e altre manifestazioni che indiscutibilmente rivelano degli interessi trasversali di dubbia liceità.

In questa ottica appare evidente che la tutela dei minori e delle categorie più disagiate è secondaria, senza parlare di un’altra esperienza che ci fa pensare che ciò che è uscito dalla porta rientra poi dalla finestra. Mi riferisco alla pubblicità ingannevole che non vede più come protagonisti i giocatori ma le società di calcio che trasmettono sulle magliette messaggi molto precisi e pericolosi. Non bisogna stupirsi se un settimanale come Famiglia Cristiana, che dà voce alla società civile, denuncia la scarsa attenzione della politica nell’affrontare il tema dell’azzardo. Alla prossima tornata elettorale del 24 e 25 febbraio, la politica degli ultimi 20 anni dovrà essere valutata anche su come ha affrontato e intende affrontare questo argomento in Italia.

Mons. Alberto D’Urso, Vice-Presidente Consulta Nazionale Antiusura

Bruno Forte: “Bisogna rendere la politica molto più “familiare”

 

di Bruno Forte – Il Sole 24 Ore 10 febbraio 2013

Tre urgenze della nostra convivenza civile meriterebbero di essere al centro del dibattito in corso sul futuro del Paese in questi giorni di campagna elettorale, nella quale tutto sembra concentrarsi sull’economia, fra chi avanza proposte misurate e chi fa fantasmagoriche promesse.

La prima urgenza è la denatalità: la diminuzione del numero delle nascite pone l’Italia fra gli ultimi posti in Europa nella classifica del tasso di natalità. Si parla di «inverno demografico», e c’è già chi ipotizza scenari pesanti, come quello del divario crescente fra numero di lavoratori attivi e pensionati, per cui quanti sono impegnati in attività lavorative dovranno «sostenere» un numero di pensionati sempre più grande in rapporto al loro. Incoraggiare le nascite è anche questione di sostegno economico alle famiglie per ogni nuovo nato, ma più in generale esige una mentalità «pro

vita», che nella cultura dominante sembra diventata obsoleta. L’atteggiamento diffuso, anche fra i prossimi sposi, è quello di puntare sul figlio unico, ritenendo improponibile ogni maggiore investimento sul numero di figli da volere.

Questa mentalità si riflette sul processo educativo delle nuove generazioni: la questione giovanile e la sfida educativa costituiscono la seconda urgenza sulla quale andrebbero puntati i riflettori, come evidenziano la triste diffusione del «cyber bullismo» e alcuni recenti, gravissimi episodi di cronaca nera (quale il caso dei «baby assassini» da «Arancia meccanica» di Manfredonia). Lo scarso numero di figli e la propensione delle coppie al figlio unico producono una diffusa esperienza di solitudine generazionale. Crescere senza vincoli di fraternità è cosa ben diversa dall’averli.  Nonostante ogni argomento che possa sembrare contrario, la relazione fraterna è vitale per lo sviluppo della persona. Il mondo relazionale costituito dalla famiglia è grembo educativo fondamentale, articolato non solo nel rapporto genitori-figli, ma anche nella più ampia rete che abbraccia fratelli e sorelle, nonni e parenti più o meno stretti. In una società che tende a essere «folla di solitudini», il valore dell’istituto familiare in tutta la ricchezza delle sue relazioni è perciò sempre più rilevante, non per chiudere la persona nei legami asfissianti del familismo, ma per inserirla in un tessuto relazionale affidabile, che le consenta di maturare ed esprimersi progressivamente in contesti di sostegno psicologico e morale.

La terza urgenza è l’educazione alla socialità: la sfida dell’integrazione tocca ambiti sempre più vasti della vita comune, dall’accoglienza degli immigrati, necessaria al Paese e doverosa per il rispetto dovuto alla dignità della persona, ai processi di socializzazione e di partecipazione, senza i quali lo sviluppo della personalità risulta monco o ferito. Anche qui la famiglia si rivela laboratorio prezioso.

L’incremento della natalità, la sfida educativa e la costruzione di reti di superamento delle individualità chiuse, a favore della comunicazione e della corresponsabilità nell’edificazione della casa comune, mi paiono urgenze d’interesse primario per il bene comune. A fronte di esse ci si aspetterebbe una nuova attenzione rivolta proprio alla famiglia, nucleo primario e indispensabile per la generazione della vita, per la sua crescita e la realizzazione dei processi educativi, oltre che per favorire lo sviluppo della socializzazione e della partecipazione dei singoli alla costruzione del bene di tutti. Quest’interesse è in gran parte assente o marginale nel dibattito politico e sembra sostituito da attenzioni che, sebbene non improprie, sono tuttavia sovradimensionate rispetto alla reale gerarchia delle necessità: così, ad esempio, il rilievo dato alle unioni omosessuali e allo statuto da dare ad esse, che alcuni vorrebbero del tutto analogo a quello della famiglia fondata sul matrimonio fra l’uomo e la donna e sulla procreazione dei figli.

Più che rispondere a un’esatta scansione delle urgenze, queste posizioni mi paiono costituire il prodotto di un processo di privatizzazione e di secolarizzazione della cultura, del costume e delle forme della convivenza. Certamente, esse interpellano il futuro legislatore, posto nella situazione di dover fare i conti da una parte con l’evoluzione e la diffusione di nuovi costumi e dall’altra con la necessità – tutt’altro che irrilevante – di fornire alle sue scelte un ancoraggio etico-sociale.

Anche solo sul piano del dibattito civile, andrebbe ricordato che il primo e fondamentale riferimento per tutti, in specie per chi ha responsabilità pubblica, è rappresentato dalla Costituzione e, segnatamente, dai suoi articoli 29, 30 e 31. Essi contengono un’affermazione chiave, che non ha

perso d’importanza nei quasi settant’anni trascorsi dalla sua formulazione: «La famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio» (articolo 29). Questo carattere originario, precedente alla stessa costituzione dello Stato, richiede un atteggiamento di rispetto e impegna alla tutela e alla promozione dell’istituto familiare e della sua autonomia. Il cosiddetto «favor familiae» è un aspetto

di questa fondamentale verità, che proprio alla luce delle urgenze segnalate appare più che mai necessario tener presente per ispirarvi politiche di sostegno alla costituzione e allo sviluppo delle famiglie e della genitorialità.

Il recente messaggio dei Vescovi italiani per la Giornata della vita aveva come titolo un’espressione coraggiosa: «Generare la vita vince la crisi». Dare la vita ai figli, con un atteggiamento di fiducia e di speranza verso il futuro, creare così i presupposti prioritari per la crescita di tutti, mettersi in gioco per l’educazione dei bambini, dei ragazzi e dei giovani, scommettere sulla vita familiare come scuola originaria e decisiva di autentica socialità, è la via più profonda per superare la crisi in cui ci troviamo, che nella sua genesi prima è di ordine etico (legata com’è all’avidità della ricerca del profitto ad ogni costo) ed esige per il suo superamento una svolta morale. Non si chiede la luna, dunque, se si domanda a chi vorrà governare l’Italia prossima futura di scommettere sulla famiglia e sulla vita, certamente senza ignorare l’attenzione ad altri diritti, non omologabili a quelli del nucleo familiare, e sapendo dare segnali di priorità a ciò su cui si gioca il futuro di tutti. Alla famiglia, «società naturale fondata sul matrimonio», come la definisce il dettato costituzionale, questa priorità semplicemente spetta.

Brasile, il boom delle «monete sociali»

di Alessandro Armato

da http://www.missionline.org  10/01/2013

Negli ultimi anni in Brasile sono nate almeno un centinaio istituzioni di micro-credito (Banco Palmas, Banco Bem o Banco Verde Vida sono i nomi di alcune di esse) che mettono in circolazione “monete sociali” alternative al real, la moneta ufficiale brasiliana. In genere si tratta di biglietti colorati dai nomi rassicuranti – “palme”, “girasoli”, “baci” – che hanno valore esclusivamente nella comunità in cui sono stati emessi, sotto forma di credito o pagamento per un servizio reso.

“L’obiettivo di avere una moneta sociale è stimolare la gente affinché utilizzi il suo denaro nella comunità e contribuisca allo sviluppo dell’economia locale”, ha detto la direttrice del Banco Bem, Leonora Mol, una psicologa da tempo impegnata nel sociale, in un reportage dedicato di recente all’argomento dalla BBC.

“Il nostro sistema di prestiti è molto semplice. Sono i vicini che decidono a chi concedere credito. Chiediamo loro qualcosa di molto semplice: se questo denaro fosse suo, lo presterebbe a questa persona?”, ha spiegato.

La prima istituzione di questo genere in Brasile è stato il Banco Palmas, creato 15 anni fa nella città di Fortaleza, nel nord est del Paese. Altre strutture simili, come il Banco Bem, che opera dal 2005 nei quartieri poveri della città di Vitoria, capitale dello Stato di Espírito Santo, sono nate e si sono sviluppate sulla base di questo modello.

In un primo momento il governo osteggiava questo tipo di iniziative, ma oggi le cose sono cambiate e le “banche comunitarie” (sono chiamate anche così) possono contare sull’appoggio della Segreteria nazionale dell’economia solidale (Senaes), legata al ministero del Lavoro.

“La Banca Centrale non era molto contenta delle nostre monete sociali, ma si è resa conto dell’importanza del nostro lavoro e le ha accettate, in parte grazie al Senaes, che è stato istituito da Lula”, ha detto sempre alla BBC Ribeiro dos Santos, direttore del Banco Verde Vida, un’entità che opera nel municipio di Vila Velha, nei pressi di Vitoria.

Il Banco Verde Vida ha come principale obiettivo quello di migliorare la vita della comunità attaccando il problema dell’inquinamento. La banca paga con “moneta verde” coloro che si impegnano nella raccolta differenziata di rifiuti che inquinano l’ambiente, e conta una rete di negozi della zona che accettano la “moneta verde” per comperare alimenti e altri beni di prima necessità.

Secondo la BBC, anche a Ciudade de Deus, la favela di Rio de Janeiro in cui è stato ambientato l’omonimo e conosciutissimo film di Fernando Meirelles, ha oggi una sua moneta, il CDD

La religione, il più potente costruttore di comunità

La religione è il più potente costruttore di comunità che il mondo abbia conosciuto

Riflessione del rabbino capo del Commonwealth, Jonathan Sacks

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da Zenit.org – 28 Dicembre 2012

“L’idea che la società possa farne a meno è contraria alla storia e, ora, alla biologia evoluzionistica”. Lo scrive il rabbino capo del Commonwealth, Jonathan Sacks, in un articolo pubblicato nei giorni scorsi sul New York Times e sull’International Herald Tribune sotto il titolo The moral animal, cioè “L’animale morale”.

Nel suo articolo, Lord Jonathan Sacks, che nel dicembre dell’anno scorso è stato ricevuto in udienza da Benedetto XVI e ha tenuto anche una conferenza presso la Università Pontificia Gregoriana, osserva che dicembre è “il periodo più religioso dell’anno”. “Entri in qualsiasi città americana o britannica e vedrai il cielo notturno illuminato da simboli religiosi, certamente decorazioni natalizie e probabilmente anche una menorah gigante”, scrive Sacks. “La religione in Occidente sembra essere viva e in buona salute”.

Ma lo è davvero o sono solo simboli “svuotati di contenuto, nient’altro che uno sfondo scintillante per la nuova fede occidentale, il consumismo, e per le sue cattedrali laiche, i centri commerciali?”, si chiede Lord Sacks.

A prima vista – continua il rabbino capo delle Congregazioni Ebraiche Unite del Commonwealth – “la religione è in declino”. Dai dati del censimento nazionale del 2011 emerge – spiega Sacks – che in Gran Bretagna un quarto della popolazione dichiara di non avere una religione, vale a dire quasi il doppio rispetto a dieci anni fa.

Ma guardando questi dati da un altro punto di vista, essi raccontano, secondo Sacks, “una storia differente”. Infatti, “sin dal XVIII secolo, molti intellettuali occidentali hanno predetto l’imminente morte della religione”. Ma nonostante gli attacchi, fra cui quelli più recenti da parte dei cosiddetti “nuovi atei”, alla fine oggi tre persone su quattro in Gran Bretagna e ben quattro persone su cinque in America si dichiarano o si ritengono “devote ad una fede religiosa”. “Ed è questo, in un’età della scienza, che è veramente sorprendente”, sottolinea Sacks, autore di libri comeFrom Optimism to Hope e The Great Partnership: Science, Religion, and the Search for Meaning.

Come osserva Sacks, l’ironia della sorte vuole che molti dei nuovi atei sono seguaci di Charles Darwin. “Noi siamo quello che siamo, sostengono, perché che ci ha permesso di sopravvivere e di passare il nostro codice genetico alla generazione successiva”. Colpisce allora che “la religione è il più grande sopravvissuto di tutti“. Come mai?

Secondo Sacks, è lo stesso Darwin a suggerire quella che è probabilmente la risposta giusta. Lui fu molto colpito da un fenomeno che “sembrava contraddire la sua tesi più basilare, cioè che la selezione naturale dovrebbe favorire i più spietati”. Invece, “tutte le società valorizzano l’altruismo, e qualcosa di simile può essere visto anche tra gli animali sociali”.

Come funziona, lo spiega la neuroscienza: “Abbiamo neuroni specchio che ci portano a provare dolore quando vediamo soffrire altri. Siamo programmati per l’empatia. Siamo animali morali”.

Questo ha implicazioni importanti: “Passiamo i nostri geni come individui ma sopravviviamo come membri di un gruppo, e i gruppi possono esistere solo quando gli individui non agiscono esclusivamente per il proprio bene ma per il bene dell’insieme del gruppo”.

A livello cerebrale, l’uomo ha due modalità di reazione, “una che si concentra su un potenziale pericolo per noi, come individui, e l’altra, situata nella corteccia prefrontale, che pondera di più le conseguenze delle nostre azioni per noi e gli altri”. “La prima è immediata, istintiva ed emotiva. La seconda è riflessiva e razionale”, sintetizza il rabbino capo.

L’uomo risulta dunque preso tra due pensieri o percorsi, quello veloce, che “ci aiuta a sopravvivere, ma può anche portarci ad azioni impulsive e distruttive”, e quello lento, che “ci porta ad un comportamento più ponderato, ma viene spesso sopraffatto nella foga del momento”. Infatti, “siamo peccatori e santi, egoisti e altruisti, esattamente come hanno sostenuto a lungo filosofi e profeti”.

“Se è così, possiamo capire come la religione ci abbia aiutato a sopravvivere nel passato – e perché ne avremo ancora bisogno nel futuro”. La religione, continua Sacks, “rafforza e accelera il percorso lento”. Essa “riconfigura i nostri circuiti neurali, trasformando l’altruismo in istinto, attraverso i rituali che eseguiamo, i testi che leggiamo così come le preghiere che preghiamo. Rimane il più potente costruttore di comunità che il mondo abbia conosciuto”.

Essa “lega gli individui in gruppi attraverso comportamenti di altruismo, creando relazioni di fiducia abbastanza forti da sconfiggere emozioni distruttive”. Perciò, “ben lontani dal confutare la religione, i neo-darwinisti ci hanno aiutati a capire perché è importante”.

Essa è infatti “il miglior antidoto all’individualismo dell’epoca del consumismo”. Perciò, “l’idea che la società possa farne a meno è contraria alla storia e, ora, alla biologia evoluzionistica”.

In conclusione, per Sacks, c’è una cosa che le società libere dell’Occidente non devono mai fare: “perdere il loro senso di Dio”.

Card. Maradiaga. All’economia mondiale non interessa combattere la povertà

Intervista al cardinale Oscar Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa (Honduras)

Da Zenit.org, 18 dicembre 2012

Secondo il Forum Urbano Mondiale delle Nazioni Unite, l’America Latina è la zona del mondo con la maggiore disuguaglianza della ricchezza. Appena il 20% della popolazione detiene quasi il 60% delle ricchezza e la cosa più triste è che questo male, che da decenni trascina con sé il continente, non migliora ma peggiora con gli anni.

In collaborazione con Aiuto alla Chiesa che Soffre, Maria Lozano ha intervistato per il programma Where God Weeps (Dove Dio piange) il cardinale Oscar Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa, in Honduras.

Eminenza, Lei non ha mai smesso di denunciare l’ingiustizia, ovunque essa sia. Ne ha pagato le conseguenze?

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: Beh, se siamo seguaci del Signore Gesù, Lui ci ha detto che il discepolo non è più grande del maestro. Ci ha insegnato, proprio con la sua vita, che dire la verità e proclamare il Vangelo comporta persecuzione, quindi è un’occasione per configurarsi un po’ di più alla croce del Salvatore.

Certamente, spesso capitano insulti, a volte anche attacchi fisici ma spesso – perché non dirlo – riceviamo sostegni e anche la preghiera, in modo che mi sforzo semplicemente a seguire la mia coscienza, a seguire la dottrina sociale della Chiesa e soprattutto il Vangelo e cerco di fare del mio meglio.

Lei è membro di molte congregazioni –  tra cui la Congregazione per il Clero e la Congregazione per la Giustizia e la Pace – è membro della Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali e della Commissione Speciale per l’America, ed è anche presidente della Caritas… Dove trova il tempo per ricaricare le batterie?

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: Don Bosco ci ha detto che un salesiano si riposerà nel cielo, quindi speriamo che, con la misericordia del Signore possa raggiungere la patria celeste. Ora, è sempre bene che riserviamo tempo soprattutto per la preghiera, per me è un momento di ristoro, per riprendere forza spiritualmente, ed è un momento che io ritengo importantissimo nella mia vita. :a preghiera personale, la preghiera comunitaria, la celebrazione dell’Eucaristia, e specialmente la Lectio Divina, che nutre moltissimo il mio spirito: questo è il mio ristoro.

In occasione della crisi politica nel 2009 in Honduras, Lei ha detto che c’era gente che cercava di instaurare sistematicamente l’odio di classe nel paese, il quale prima non esisteva. Da questo punto di vista, la crisi ha lasciato tracce?

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: Sì, e continua ancora, c’è un linguaggio che credevamo già superato, che era il linguaggio usato dai marxisti. Pare che si voleva far rivivere quest’ideologia che ha portato tanto dolore, tanta morte, tanto odio e questo rimane tuttora. Nel mondo si parla molto di tolleranza, a me non piace questa parola, perché tolleranza vuol dire che “sopportare a malincuore”. Per me, bisogna andare oltre la tolleranza, con l’accettazione: io ti accetto come essere umano, io ti accetto come figlio di Dio, io rispetto la tua opinione anche se non coincide con la mia. Credo che dobbiamo fare questo passo, la tolleranza è un passo intermedio, ma deve esserci l’accettazione.

Si possono accettare, però, cose che non vanno bene?

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: Sì, ma come punto di partenza per un dialogo, ed io non direi tanto di accettare le cose, ma di accettare le persone.

Parlando della lotta di classe, non è che è un dilemma perenne in molti Paesi, non solo in America Latina, questa disuguaglianza tra ricchi e poveri? In Brasile il 10% della popolazione detiene più della metà della ricchezza del Paese…

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: È così, io credo e sono convinto di questo, dopo 32 anni di episcopato, di molti dialoghi con le istituzioni finanziarie internazionali, aver studiato economia per conto mio, poiché quando ero segretario generale del CELAM e mi affidarono un dialogo con il mondo dell’economia, non trovavo interlocutori. Gli economisti dicevano: “questo è quello che sanno i sacerdoti di economia…”. Allora mi sono detto: “questo non me lo ripeteranno” e ho studiato per conto mio scienza economica. Dopo tutti questi anni, sono convinto che l’attuale sistema è un sistema ingiusto che produce disuguaglianza e poi il cammino, e per me è il cammino nuovo che deve seguire l’opzione preferenziale per i poveri, non fermarsi semplicemente ai discorsi, mentre l’opzione preferenziale per i poveri deve puntare oggi sui cambiamenti necessari nel sistema economico. Chi deve farli? Certamente gli economisti ma tocca logicamente alla Chiesa di enunciare i grandi principi su cui dovrebbe basarsi l’economia e anche ciò che è il bene comune, ed è il principio che manca. Poiché il sistema economico attuale cerca il bene di pochi, siano essi Paesi o imprese o gruppi di potere nei diversi Paesi. Questo l’ho sollevato molti anni fa, negli anni ‘90, durante i dialoghi con la Banca interamericana per lo sviluppo e mi ricordo di aver detto una volta: “Dove sono i premi Nobel per l’economia? Non sono capaci di cercare un sistema alternativo che produca più uguaglianza?”. Nessuno ha risposto, e poi, durante un intervallo, uno degli economisti è venuto da me e mi ha detto: “Guarda, a loro non interessa cercarlo, perché si trovano benissimo con questo sistema… questo è il problema…”.

Non sarebbe il caso di incentivare lo studio dell’etica, del bene comune nelle scienze economiche e forse anche politiche?

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: Esattamente. Il ruolo della gerarchia ecclesiastica sta nel riportare questo tema al tavolo della discussione, non si può pensare semplicemente con criteri finanziari o monetari, né soltanto politici; bisogna introdurre il tema etico soprattutto, che è il grande assente. La crisi economica globale c’è, non perché è scoppiata la bolla delle istituzioni immobiliari, ma c’è perché è scoppiata prima la crisi morale, perché si cercava solo il guadagno, infischiandosene di coloro che sarebbero stati i perdenti.

 

La Chiesa parla già da molto tempo dell’opzione per i poveri e della giustizia sociale. E la messa in pratica?

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: Beh, devo dire che, fin dall’inizio, parlando dell’America Latina, coloro che fecero le prime scuole, le prime università, i primi ospedali… furono sacerdoti missionari. Qui abbiamo il santo frate Pedro de Betancourt in Guatemala, che arrivò da laico dalle Isole Canarie per aiutare coloro che morivano per le strade e così fondò un ordine ospedaliero. Tutta la storia della Chiesa è fatta di questo, Lei non troverà una sola congregazione religiosa dall’inizio dell’evangelizzazione che non abbia avuto come obiettivo principale i poveri. E poi, già in epoca moderna, dopo il Vaticano II l’applicazione del Concilio ebbe una grande spinta con le parole del beato Giovanni XXIII, il quale disse che “la Chiesa deve essere la Chiesa dei poveri”. La conferenza di Medellín (1968, ndr) inizia sottolineando l’opzione preferenziale per i poveri, che ha continuato con Puebla, Santo Domingo e poi Aparecida. Per me, bisogna fare un passo ulteriore…

Cioè?

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: Motivare i cambiamenti nel sistema economico mondiale. Non ci sarà opzione per i poveri, se il sistema non cambia, anzi, se non cambia il commercio globale: penso che lì ci sia un punto nevralgico, l’Organizzazione Mondiale del Commercio l’unica cosa che fa è organizzare negoziati, che non portano a nulla, sembrano cerchi viziosi; prima c’è stato l’Uruguay Round, adesso il Doha Round, ma finora nulla…

A chi si deve questo circolo vizioso?

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: Al protezionismo commerciale di pochi Paesi…

…che dominano e fanno girare tutto attorno a loro…

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: Eh, sì. Noi, ad esempio, non possiamo esportare le nostre banane nel modo che vorremmo noi – era una delle più grandi produzioni ma già non lo è più – non possiamo esportare adeguatamente il caffè perché tutto viene deciso a Londra… Perché? Questa è una parte delle ingiustizie…

Cosa potrebbe rompere questo cerchio?

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: Si parla di commercio libero, ma il commercio non è libero. Con il protezionismo e le sovvenzioni non possiamo parlare di commercio libero, ma il sistema è progettato così, per proteggere alcuni paesi… Guardi, tutti gli economisti e politici mi possono dire: “Ma così è il mondo”. Certo, se vogliono continuare così, continuerà la disuguaglianza, continuerà la povertà e continueranno le immigrazioni motivate non solo da motivi politici ma anche da motivi sociali, dalla povertà.

E forse mantenendo povera una popolazione, viene tenuta anche sotto controllo?

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: Certo, e qui, almeno in America Latina, abbiamo un’altra delle principali cause della povertà che è la mancanza di famiglia, il gran numero di figli di madri single che popolano i nostri Paesi e che perpetua la povertà. Quando c’è una famiglia stabilita e un padre responsabile, lui cerca di educare i propri figli e qui arriva la seconda causa, la mancanza di famiglia e la mancanza di educazione. L’educazione pubblica è purtroppo in uno stato di prostrazione, le dico; a volte nel mio Paese nelle scuole non ci sono 200 giorni di lezioni all’anno, per via degli scioperi…

Scioperi degli insegnanti?

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: Sì, perché le associazioni di insegnanti a volte hanno ragione, se non vengono pagati puntualmente come fanno a vivere? Ma a volte anche perché si sono trasformati in gruppi ideologici che vogliono difendere sistemi e diventa un circolo vizioso. Se non abbiamo un’educazione di qualità non possiamo uscire dalla povertà. Cosa può fare in un mondo globalizzato un ragazzo che ha fatto solo cinque anni di scuola primaria?

A noi cattolici, quando parliamo di povertà, spesso ci dicono: “Sì, ma… guarda il Vaticano, guarda i vescovi, guarda i cardinali”. Che cosa possiamo rispondere?

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: Basta guardare la realtà, per esempio confrontando il bilancio del Vaticano, che viene reso pubblico… Quando lo vede qualsiasi società di questo mondo dirà: “è minimo, è niente”. La ricchezza che c’è in Vaticano è una ricchezza di opere d’arte. Chi in questo mondo potrebbe avere le risorse necessarie per costruire la basilica di San Pietro? Nessuno… Ma questo è conservato lì come un patrimonio artistico, culturale dell’umanità, ed è sbagliato pensare che la vendita delle opere d’arte sia la soluzione. Vendere a chi?

Voi potete, volendo, fare anche un’inchiesta su di me, io ho fatto voto di povertà nella Congregazione salesiana 50 anni fa e lo vivo tuttora. Ho cose che mi ha dato la gente che non sono mie, ma sono della diocesi e il giorno in cui il Signore mi chiamerà, rimarranno lì per i successori.

Un’altra problematica molto legata alla povertà è la corruzione. Questo fenomeno – penso che queste parole siano proprio sue – è un cancro che corrode oggi giorno molti Paesi. Questo “cancro” è un male antico o invece nuovo?

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: Direi che è molto antico, ed è quasi un sistema progettato per arricchire illegalmente politici che arrivano al governo e dopo vogliono rimanere il resto della loro vita senza lavorare. Io ho partecipato ad un Consiglio Nazionale Anti-corruzione. Era un’idea molto buona della Banca Mondiale, per dire: bene, continueremo a sostenere i Paesi, ma voi lottate contro la corruzione. In molti Paesi esiste oggi una procura anti-corruzione: cercano di perseguire un arricchimento illecito, ma poi si impantano nel problema politico. Quando un politico è stato corrotto e si è arricchito illegalmente…

…deve difendersi.

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga: Esattamente. E come si difende? … Si difende attraverso la corruzione. Da noi a volte si dice che la giustizia è come un serpente che morde chi è scalzo, a chi porta gli scarponi non succede nulla, e questo ha un significato molto grande. Che tristezza che ci sia una grande impunità nei nostri Paesi a causa della debolezza dalla giustizia. Io penso che bisogna continuare a rafforzare tutte le istituzioni con la giustizia. Vi è un altro ingrediente che è letale e si chiama la droga. Oggi, la droga, il business della droga, non solo il traffico, il business della droga ha invaso il nostro continente. Lo può vedere ad esempio in Messico, dove c’è una autentica guerra civile tra i cartelli della droga, l’esercito e il governo perché si contendono il territorio, e le stragi ci sono perché c’è un determinato cartello che ha delimitato un territorio e quando altri vogliono invaderlo, devono morire, e soffriamo perché la droga ha tanto, ma tanto potere, un potere che è capace di comprare i giudici e gli operatori di giustizia. A mio avviso, l’unico modo per fermare questo commercio immorale, questo commercio criminale, perché termina vite umane, è confiscare i beni dei narcos e togliere loro le ricchezze illecite, perché senza denaro non possono comprare nessuno.

Cosa può fare la gente comune per lottare per la giustizia e per lottare contro la disuguaglianza e contro la corruzione?

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga:  Sì, si può fare. Attraverso il proprio voto. La forza che ha il popolo nella democrazia è il voto, e poi, se i corrotti sanno che la gente prende coscienza e non vota per un corrotto, inizia il cambiamento. L’arma del cittadino è il voto e bisogna usarlo con coscienza. Questo manca nei nostri Paesi, nel mio paese, per esempio, c’è gente che vota perché suo padre era in quel partito, e anche suo nonno lo era, e bisogna essere fedele al partito, non alla propria coscienza. Sono conseguenze anche di questa istruzione carente che affligge anche i valori politici.

Eminenza, molte volte lei ha parlato di speranza. La speranza di un mondo solidale e giusto. Dove trovare la speranza se c’è tanto dolore, tanta ingiustizia? E lei come presidente della Caritas ha vissuto molte di queste disuguaglianze e povertà…

Card. Oscar Rodriguez Maradiaga:  Io dico, se noi siamo cristiani, il nostro esempio è quello di Gesù, e il Signore Gesù ha dovuto lottare contro ogni speranza – San Paolo lo dice chiaramente – ed è lì che prendiamo la forza, sappiamo che Dio vuole un cielo e una terra nuova, e questo non lo farà con un colpetto della bacchetta magica, lo farà attraverso ognuno di noi cristiani, quando costruiamo questo regno già qui in questa vita. Di conseguenza, la comunità come tale è l’elemento fondamentale della nostra fede per vivere la speranza. Mi ha incantato la prima enciclica di Benedetto XVI, ma la seconda è la ciliegina sulla torta, perché veramente Spe salvi è tutta una forza che, soprattutto in America Latina, ci dà l’insegnamento di Benedetto per portarla avanti.

 

L’intervista è stata condotta da Maria Lozano in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) per il programma Where God Weeps (Dove Dio piange).

LA RISOLUZIONE DEL CONSIGLIO PER I DIRITTI UMANI DELL’ONU SULL’ORIENTAMENTO SESSUALE E L’IDENTITÀ DI GENERE

di Jane Adolphe*

ROMA, domenica, 9 dicembre 2012 (ZENIT.org)

Gli indefiniti termini “orientamento sessuale” e “identità di genere” non rappresentano un linguaggio unanimemente accettato nei diritti umani universali. Queste definizioni sono vaghe, ambigue e altamente soggettive. Di conseguenza, esse violano il principio di certezza legale. Riconoscendo la differenza fondamentale tra desideri, sentimenti, pensieri e inclinazioni, rimangono, necessariamente, praeter ius (al di fuori della legge). Come tali non hanno avuto alcun riconoscimento come parte del diritto internazionale consuetudinario, né come principi generali di diritto e nemmeno come trattati.

Nonostante l’opposizione di molti Stati membri delle Nazioni Unite, l’“orientamento sessuale” e la “identità di genere” sono diventati materia di una Risoluzione non vincolante del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU (CDU). La Risoluzione ha commissionato uno studio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’ONU (ACDU) “che documenta discriminazioni, in leggi, pratiche ed atti di violenza contro individui sulla base del loro orientamento sessuale e della loro identità di genere” (Consiglio per i Diritti Umani, 14 luglio 2011). La risoluzione del CDU ha anche previsto una tavola rotonda  che sarà convocata durante la 19° Sessione per informare gli Stati Membri “riguardo i fatti” del rapporto dell’ACDU e “avere un dialogo costruttivo, informato e trasparente”.

I seguenti Stati hanno fornito dichiarazioni verbali in opposizione alla Risoluzione: il Pakistan ha espresso preoccupazione per la scelta del CDU di discutere nozioni controverse che non avrebbero alcuna base di diritto internazionale né di diritti umani internazionali; la Nigeria ha argomentato che più del 90% dei paesi africani non hanno sostenuto la Risoluzione e che nuove nozioni sono state imposte a vari paesi; il Bahrain ha condannato il tentativo di trattare argomenti controversi, basati su decisioni che non costituiscono diritti umani fondamentali; il Bangladesh ha posto l’accento sulla mancanza di qualunque fondamento legale alla Risoluzione sugli strumenti dei diritti umani e ha espresso la propria costernazione per l’attenzione agli interessi personali sessuali; il Qatar asserisce che la Risoluzione mostra una mancanza di rispetto per la diversità culturale, la libertà religiosa e la responsabilità degli Stati di mantenere l’ordine e la morale pubblica (art.29 UDHR); la Mauritania ha evidenziato che la materia della Risoluzione sarebbe fuori della portata del diritto internazionale (vedi comunicato stampa del Consiglio per i Diritti Umani, 17 giugno 2011).

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani ha concluso il suo rapporto intitolato Discriminatory laws and practices and acts of violence against individuals based on their sexual orientation and gender identity (A/HRC/19/41, 17 novembre 2011) [in seguito: “Il rapporto”]. Il rapporto, lungo 25 pagine, è diviso in sette sezioni: introduzione, norme e obblighi internazionali applicabili, violenza, leggi discriminatorie, pratiche discriminatorie, risposte emergenti, conclusioni e raccomandazioni.
Non offre alcuna definizione di OS (orientamento sessuale) e di IG (identità di genere) ma, con una sorta di trucco, il mandato viene modificato per introdurre un altro tema, cioè i “nuovi diritti” appartenenti ai personali interessi sessuali di un gruppo di pressione che si auto-identifica con lesbiche, bisessuali, transessuali e intersessuali (LBGTI). Il rapporto è ricco di nuove espressioni: “omofobico”, “transfobico”, “minoranze sessuali”, “omofobia sponsorizzata dallo Stato”, “identità di genere eteronormativa”, “percezione dell’omosessualità” o “percezione dell’identità transgender”. Inoltre, il termine “genere” comunemente usato a livello internazionale per indicare femmina e maschio o uomini e donne viene ridefinito, quando si dice che “omofobico” e “transfobico” sono forme di violenza basate sul genere (par. 20).
Il rapporto sostiene che l’applicazione del diritti umani internazionali è guidata dai principi di “universalità, uguaglianza e non-discriminazione”, ma dopo si contraddice, e sostiene che la non-discriminazione è un diritto, non un principio (par. 15). A sostegno di questi tre principi (o due principi e un diritto), il rapporto cita l’art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (DUDU), ma solo in parte: “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.

In risposta, il rapporto omette di citare per intero l’art. 1 della DUDU ed emargina le caratteristiche chiave che tutti noi condividiamo come esseri umani e persone umane. Il Rapporto, in sostanza, nega una natura umana universale e mette in discussione il fondamento stesso del sistema internazionale dei diritti umani. Cinque questioni essenziali sono da sottolineare qui. In primo luogo, la DUDU riconosce “dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili” (Preambolo, comma 1). È chiaro che il principio della dignità inerente è fondamentale. In secondo luogo, offre le caratteristiche essenziali della persona umana che ci rende uguali, mentre allo stesso tempo ci distingue da piante ed altre creature. L’art. 1 per intero recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. In altre parole, ogni essere umano, per il solo fatto di essere umano, è una persona, che, per natura, è relazionale e “dotata di ragione e di coscienza”, personalmente responsabile di cercare la verità e rispondere alla chiamata interiore di fare il bene. Terzo, il termine “nato” nell’art. 1 si riferisce ad una “nascita morale” – una “più profonda qualità morale”, che nessuna persona umana, corpo politico o corpo sociale potrebbe concedere (Morsink, 291-292). Questa comprensione è coerente con il fatto che le persone umane sono anche diverse e non sono fisicamente nate in uguali circostanze. Quattro, la DUDU riconosce i doveri verso gli altri e la comunità, nonché la limitazione dei diritti “per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica” (art. 29). Cinque, la DUDU è il documento fondamentale per la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici (CIDCP) e il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali (PIDESC), che, come la DUDU, riconoscono chiaramente che “i diritti derivano dalla dignità inerente della persona umana” (rispettivamente Preambolo par. 2), che i diritti sono correlati ai doveri (rispettivamente Preambolo par. 5), e che i diritti possono essere limitati per legge (rispettivamente art. 4). In sintesi, questi tre documenti, comunemente indicati come la Carta Internazionale dei Diritti Umani, non concedono i diritti ma semplicemente li riconoscono; riconoscono i diritti e i doveri nonché i loro limiti, e fondano i diritti e doveri nella dignità umana inerente alla persona umana, maschio e femmina, per natura dotata di ragione e di coscienza.

Chiara opposizione deve essere espressa contro l’arresto e detenzione arbitraria, contro esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti di ogni membro della famiglia umana, senza alcun bisogno di un elenco. Il diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della persona è protetto ed esistono divieti di tortura ed altri trattamenti inumani, così come gli arresti arbitrari e la detenzione: DUDU, art. 3,5,9; CIDCP, articoli 6,9,10; Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti , art. 1,2,4,16. Tuttavia, il rapporto va ben oltre che trattare atti di violenza, ma si dedica ad individuare un gruppo auto-definito “LGBTI” per speciali protezioni (par. 34-36) e la creazione di “nuovi diritti” (ad esempio il diritto al “matrimonio omosessuale”).
La relazione riconosce giustamente che i termini: “orientamento sessuale” e “identità di genere” o “percezione dell’omosessualità” o “identità transgender” non sono categorie protette nel diritto internazionale (par. 7, 8). Tuttavia, sostiene erroneamente che tali categorie “derivano da vari strumenti internazionali sui diritti umani” (par. 8). Con tale argomento, l’Alto Commissario ONU supera la sua competenza, attribuendo a categorie controverse vincolanti accordi internazionali in materia di diritti umani, i cui interpreti finali sono gli Stati contraenti (cfr. la Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati, 1969) [CVDT]. Non sovviene all’Alto Commissario ONU di menzionare dichiarazioni o rapporti di entità ONU che non siano prodotti da rappresentanti degli Stati sovrani e non siano stati accettati come linguaggio unanime o principi da rappresentanti di Stati sovrani, e non costituiscono diritto internazionale.

Il Rapporto utilizza il termine “pratiche discriminatorie” in materia di impiego, assistenza sanitaria, istruzione, famiglia e così via. Inoltre fa una distinzione tra “impatto discriminatorio diretto” e “impatto discriminatorio indiretto”, che a sua volta facilita la revisione da parte dello Stato di condotta tra cittadini privati (par. 50). In risposta, la DUDU riconosce la persona umana, maschio e femmina, menzionando i “diritti uguali di uomini e donne” (Preambolo par. 5). Essa vieta la discriminazione, ad esempio, sulla base del sesso (art. 2). Tuttavia, non si può passare a determinare se uno specifico atto è discriminatorio senza prima avere una netta definizione dei termini, inclusa la fonte dei diritti umani, cioè la dignità inerente alla persona umana nell’art. 1 della DUDU. Inoltre, bisogna discernere quali atti costituiscono una discriminazione, tenendo conto dei diritti e doveri altrui (cfr. libertà di espressione, di coscienza e di religione) e la comunità (cfr. DUDU, art 29: Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale). Ad esempio, gli Stati e le società che promuovono e proteggono la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo ed una donna rispettano ed adempiono i loro obblighi nel diritto internazionale (cfr. DUDU, art. 16, CIDCP, art. 23, PIDESC, art 10). Essi non si prestano a comportamenti discriminatori. Inoltre, questi Stati e società che richiedono a futuri sposi, uomini e donne, di raggiungere una certa età prima di acconsentire liberamente a sposarsi, sono limiti dettati dal buon senso e riconosciuti nel diritto internazionale (Id.). Inoltre, esiste una pletora di dati a sostegno della tesi secondo cui la famiglia naturale è il posto migliore per i bambini e non un pericolo per loro come il rapporto vorrebbe farci credere (par. 21). In ultima analisi, il rapporto fa ben poco per fornire orientamento e guida per quanto riguarda l’applicazione del principio di non discriminazione in modo tale da rendere giustizia al principio di legalità e di rispetto dei trattati, leggi e risoluzioni esistenti, nonché i diritti delle comunità religiose.

Il Rapporto chiama in causa le raccomandazioni degli organismi di controllo dei trattati. Questi ultimi non sono organi giudiziari. Le loro conclusioni prendono la forma di raccomandazioni non vincolanti designate per assistere gli stati nell’implementazione dei loro obblighi nei trattati. Quelle conclusioni non sono giudizi né costituiscono giurisprudenza, né possono rappresentare un caso, poiché i membri dell’organismo non sono tenuti ad essere degli esperti legali. Gli organismi di controllo non hanno competenza a ridefinire i termini usati nelle norme sostanziali dei loro trattati costitutivi, che pretendono di creare nuovi diritti o principi che non corrispondono all’autentico ed originale significato dei trattati. In particolare, gli organismi di controllo non possono imporre sugli stati, degli obblighi che non siano stati espressamente intrapresi dai medesimi stati nella negoziazione e nella ratifica del costituente trattato.

I trattati sui diritti umani devono essere interpretati in accordo a quanto previsto dagli artt. 31-32 del VCLT, che riflette il diritto consuetudinario internazionale. Gli organismi di controllo, quindi, devono applicare i loro strumenti costitutivi in “buona fede”, in accordo con il “significato ordinario” dei termini del trattato, “nel loro contesto e alla luce del [proprio] oggetto e scopo”. Tutti gli strumenti a disposizione di una o più parti, come le riserve e le dichiarazioni interpretative, sono, al fine dell’interpretazione di un trattato, parte del proprio “contesto” (VCLT, art. 31.2.a). Di conseguenza, i soggetti delle Nazioni Unite, i Relatori Speciali o gli organismi di controllo non dovrebbero tentare di applicare estensivamente o creativamente le disposizioni di un trattato, in violazione delle regole di interpretazione contenute nel VCLT. Tentativi di ogni organismo di controllo, in particolare, per applicare il proprio strumento costitutivo in una maniera che si allontani dal significato originale di quello strumento, provocherebbero un “cambiamento fondamentale delle circostanze”, per gli scopi dell’art. 62 del VCLT, e giustificherebbero una delle parti a denunciare i rispettivi trattati. Infine, le riserve avanzate dalle parti sugli accordi sui diritti umani internazionali escludono e modificano gli effetti legali delle disposizioni del trattato relative alla riserva. In accordo con l’art. 20 del VCLT, solo gli stati e gli organi giudiziali possono valutare l’ammissibilità di una riserva, e ai sensi delle regole di interpretazione, le riserve dello stato devono essere prese in considerazione.

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani (ACNUDU) ha pubblicato un nuovo rapporto non vincolante, Nati liberi ed eguali (Born Free and Equal), che si basa sul rapporto prodotto in seguito alla risoluzione 17/19 dell’organismo. Il nuovo rapporto sostiene che “la causa per estendere a lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) gli stessi diritti di cui fruiscono tutti gli altri non è né radicale né complicata. Essa si basa su due principi fondamentali su cui appoggia il diritto internazionale dei diritti umani: l’uguaglianza e la non discriminazione” (p. 7). A sostegno, il rapporto cita – in parte – l’art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (DUDU). “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. In questo modo, il rapporto nega il fondamento del diritto internazionale dei diritti umani basata sulla dignità inerente  della persona umana, dotata per natura di ragione e di coscienza con il dovere di interagire con l’altro in spirito di fratellanza. Inoltre trasforma due principi nel fondamento stesso dei diritti umani: l’uguaglianza e la non-discriminazione.

Il rapporto promuove cinque obblighi fondamentali degli Stati per proteggere i diritti umani delle persone LGBT. A questo punto l’enfasi è minore sull’orientamento sessuale identità di genere e più accentuata sui diritti del gruppo LGBT. Il testo si basa sul non rapporto non vincolante dell’ACNUDU e il documento non vincolante preparato da un gruppo di persone, che a Yogyakarta (Indonesia) hanno preparato un documento sul tema di orientamento sessuale, identità di genere e diritti umani.

I cinque principi fondamentali sono i seguenti: 1) proteggere gli individui dalla violenza omofobica e transfobica – piuttosto che proteggere tutte le persone dalla violenza; 2) prevenire la tortura e i trattamenti crudeli, inumani e degradanti delle persone LGBT – piuttosto che proteggere tutte le persone da tortura ed altri maltrattamenti; 3) decriminalizzare l’omosessualità – piuttosto che chiedere agli Stati di rivedere e valutare le loro leggi penali, prendendo in considerazione l’effetto causato dai cambiamenti nella legge, i costumi e le tradizioni comprovate, i diritti e i doveri delle comunità religiose, la tutela della famiglia naturale, le questioni di applicazione e gli obblighi dello Stato per il bene comune; 4) vietare la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale e l’identità di genere – piuttosto che proibire la discriminazione in base di razza, religione, lingua e sesso di tutte le persone; 5) rispettare la libertà di espressione, di associazione e di riunione pacifica da parte di individui LGBT – piuttosto che rispettare la libertà di espressione, di associazione e di riunione pacifica di ogni persona umana, tenendo in considerazione i limiti riconosciuti dal diritto internazionale.

Vale la pena far notare che c’è stato un cambiamento generale di argomentazione. Il diritto alla vita privata è stata la giustificazione principale utilizzata per depenalizzare i rapporti sessuali privati consensuali tra adulti dello stesso sesso. Tuttavia, dato che il matrimonio è un istituto riconosciuto pubblicamente l’uguaglianza è ormai diventata l’argomento chiave per la causa del matrimonio omosessuale. “Ma per poter prendere seriamente l’argomento dell’uguaglianza nello sviluppo della giurisprudenza matrimoniale nell’ambito delle relazioni omosessuali – sostiene il professor Robert Araujo, S.J. – devono essere superate le difficoltà fisiche per equiparare le relazioni omosessuali con le relazioni eterosessuali” (Araujo, 2010, p. 31). Araujo sostiene che “l’unico modo per compiere questo compito è quello di fare affidamento alla comprensione di ‘uguaglianza’ che non è basata sui fatti e sulla ragione, ma su un esagerato positivismo giuridico” (Idem). E prosegue: “Per essere autentica, sincera e giusta, il contenuto e la prassi di qualsiasi pretesa di uguaglianza debbono rispecchiare accuratamente la natura della persona umana – poiché questo rende le persone uguali tra di loro in un certo senso e diverse l’una dall’altra in altri sensi” (Idem).

L’argomento è il seguente: fondamentalmente, tutti sono uguali, ma in altri sensi non lo sono. Il professor Araujo, S.J., offre alcuni esempi: “mentre la maggior parte della gente ama la musica, non siamo tutti alla pari di Mozart. Inoltre, anche se la maggior parte della gente ama lo sport, non siamo alla pari dei più grandi atleti del mondo” (Araujo, 2012). Parlando di matrimonio, lo studioso aggiunge: “non siamo uguali neppure in questo senso. Se la razza umana avesse la capacità di esplorare e di colonizzare pianeti lontani, e un gruppo composto da coppie eterosessuali andasse al pianeta Alpha ed un altro gruppo composto da coppie omosessuali al pianeta Beta, e nessuno dei due gruppi avesse la capacità per la riproduzione tecnologicamente assistita, quale pianeta sarebbe ancora colonizzato tra un secolo? La logica direbbe che il pianeta Alpha lo sarà ancora, mentre il pianeta Beta non lo sarà più. L’argomento del matrimonio omosessuale per l’uguaglianza fallisce in questo senso. Le coppie sono semplicemente non uguali” (Araujo, 2012).

Ed è questo che i redattori della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo intendevano dire quando dicevano che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Come indicato nella II parte, il termine “nati” nell’art. 1 si riferisce ad un parto morale, che nessun individuo o entità potrebbe concedere. Questa comprensione è coerente con il fatto che le persone umane sono intrinsecamente uguali, ma anche diverse e fisicamente nate in circostanze disuguali. Nel dibattito per i diritti LGBT, in particolare per quanto riguarda il matrimonio omosessuale, “la legge è istigata ad ignorare i fatti e a sostituire [li] con una labile finzione legale” che rende “uguale quello che non può esserlo a causa della realtà della natura umana”, la risposta, allora, chiede una “applicazione rigorosa della logica” (Araujo, 2010, p. 31). Lo stesso consiglio vale per l’argomento discriminazione, discusso nella II parte.

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Jane Adolphe è il professore associato di Diritto presso Ave Maria School of Law in Naples, in Florida.

[Traduzione dall’inglese a cura di Paul De Maeyer]

Laicità e Stato: che cosa ha detto davvero il Card. Scola

Riportiamo qui, da “Vino nuovo”, chiarimenti riguardanti il discorso del Card. Scola. L’argomento ci sembra di grande importanza e lo riportiamo così come pubblicato da Vio Nuovo.

di Vino Nuovo | 09 dicembre 2012

Il testo integrale del discorso di sant’Ambrogio (giustamente non passato inosservato) e due commenti di Roberto Beretta e Luca Rolandi

Il discorso «L’Editto di Milano: initium libertatis» – pronunciato giovedì dal cardinale Angelo Scola nel tradizionale appuntamento dei primi vespri della festa di sant’Ambrogio, patrono di Milano – sta facendo molto discutere perché tocca un nodo centrale oggi, come la declinazione concreta della dimensione della laicità. Molte sono state però in queste ore anche le letture parziali di questo discorso, con qualcuno che arrivato addirittura a parlare di un attacco alla laicità dello Stato. Per questo ci sembra importante innanzi tutto offrire ai nostri lettori che non abbiano già avuto modo di leggerlo altrove il testo integrale dell’intervento di Scola:

http://angeloscola.it/blog/2012/12/06/vita-buona-e-buon-governo-vanno-di-pari-passo/
Ed è partendo da qui che – come è nostra abitudine – vogliamo aprire il dibattito su Vino Nuovo iniziando a ospitare due commenti di Roberto Beretta e Luca Rolandi.

Video dell’intervento del Card. Scola

 

Uno dei passaggi fondamentali del discorso:

“Ora, rispettare la società civile implica riconoscere un dato obiettivo: oggi nelle società civili occidentali, soprattutto europee, le divisioni più profonde sono quelle tra cultura secolarista e fenomeno religioso, e non – come spesso invece erroneamente si pensa – tra credenti di diverse fedi. Misconoscendo questo dato, la giusta e necessaria aconfessionalità dello Stato ha finito per dissimulare, sotto l’idea di “neutralità”, il sostegno dello Stato ad una visione del mondo che poggia sull’idea secolare e senza Dio. Ma questa è una tra le varie visioni culturali (etiche “sostantive”) che abitano la società plurale. In tal modo lo Stato cosiddetto “neutrale”, lungi dall’essere tale fa propria una specifica cultura, quella secolarista, che attraverso la legislazione diviene cultura dominante e finisce per esercitare un potere negativo nei confronti delle altre identità, soprattutto quelle religiose, presenti nelle società civili tendendo ad emarginarle, se non espellendole dall’ambito pubblico. Lo Stato, sostituendosi alla società civile, scivola, anche se in maniera preterintenzionale, verso quella posizione fondativa che la laicité intendeva rigettare, un tempo occupata dal “religioso”. Sotto una parvenza di neutralità e oggettività delle leggi, si cela e si diffonde – almeno nei fatti – una cultura fortemente connotata da una visione secolarizzata dell’uomo e del mondo, priva di apertura al trascendente. In una società plurale essa è in se stessa legittima ma solo come una tra le altre. Se però lo Stato la fa propria finisce inevitabilmente per limitare la libertà religiosa”. 

 

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«Perché Scola ha ragione» di Roberto Beretta

http://www.vinonuovo.it/index.php?l=it&art=1079
Da piccolo politico «di base» vedo che la cosa più difficile è conciliare i diritti della propria coscienza con un’idea di «disciplina» e di «unità» che sconfina spesso nell’unanimismo

«Laicità: terreno di dialogo, non di scontro» di Luca Rolandi

http://www.vinonuovo.it/index.php?l=it&art=1078

Nell’ottica della “Dignitatis Humanae” laicità, secolarità e pluralismo sono intesi come valori positivi e vengono contrapposti a laicismo, secolarismo e relativismo.

Bisogna far scomparire il cristianesimo per rispetto delle altre fedi? Ma a chi fa veramente paura Gesù di Nazareth?

Una scuola del Nord proibisce di festeggiare il Natale e chiede di usare l’espressione “Festa della Luce”. In nome del rispetto delle altre fedi. Viene da chiederselo sul serio: ma a chi fa veramente paura Gesù di Nazareth?

Una scuola del nord che cambia il nome del Natale in “Festa della Luce”, per non “ledere” la sensibilità di chi professa un’altra fede. La fonte è il sociologo, Massimo Introvigne, responsabile in Italia dell’Osservatorio della Libertà Religiosa, in una intervista di Lucia Fiore, apparso sul sito di Radio Vaticana, il 23 novembre 2012. Ci si chiede come mai, per esempio, in quel crogiolo di nazioni, culture e religioni, forse non sempre pacificamente integrate fra loro, che sono Gli Stati Uniti d’America, ognuno professa pacificamente la propria fede. Certo, in una scuola pubblica degli USA non è possibile iniziare le lezioni con una preghiera alla Madonna. Ma se un gruppo di allievi della scuola pubblica, per esprimere i valori della propria fede, volesse fare un presepe in un corridoio (lì il presepe non è tradizione, è solo un esempio), nessuno lo vieta. Sarebbe visto e accolto come espressione della diversità e della creatività religiosa di una delle tante presenze. Così, allo stesso modo, all’approssimarsi del Natale cristiano, gli ebrei celebrano la festa dell’Hanukkah, la festa delle Luci. In tv non è raro sentire fare gli auguri di Natale ai cristiani e per la festa dell’Hanukah agli ebrei. Quando inizia il Ramadan dei musulmani, la notizia, anche in Italia, va su tutti i telegiornali. Non vi è nulla che impedisce la pacifica convivenza dell’espressione delle tradizioni religiose delle diverse religioni.

Allora cos’è che rende così minaccioso il cristianesimo? E perché a farne più problema sono, più che i fedeli di altre religioni, i figli di una nazione che porta nel suo codice genetico  le radici – almeno culturalmente, ma non solo – cristiane? A chi fa davvero paura Gesù di Nazareth al punto che si è disposti a fare, nei centri commerciali, presepi senza Gesù, Maria e Giuseppe, cioè presepi che rappresentano un paesaggio innevato. E un presepe senza Gesù, a quel punto cosa significa? Perché allestirlo? Ammesso che abbia un significato di qualche tipo, perché non farlo a febbraio, invece che a dicembre? Già… ai centri commerciali un presepe serve come attrazione per i consumatori e serve a Natale, e non a febbraio, perché Natale è il tempo delle super-vendite e dell’incremento del turbo-consumismo.

Davvero Gesù e il cristianesimo sono una minaccia tale, in Italia, per le altre fedi, al punto che è opportuno eliminare tutti i presepi, il nome del Natale, i crocifissi dalle aule e istituire, in una, dieci o mille scuole del nord, o di tutta l’Italia, una Festa della Luce, la cui origine risale a quel paganesimo? Questa “Festa della Luce” non richiama l’antica festa pagana del dio sole d’inverno, che si celebrava proprio il 25 dicembre, a cui i cristiani vollero sostituire il Natale proprio per celebrare Gesù, il loro sole, la luce del mondo?

C’è qualcosa di veramente maligno che sta avvenendo nella società italiana e che non ha nulla a che fare con le apparenze. E’ come dire: qualunque cosa, purché non sia Cristo. Qualunque compromesso, perfino un goffo ritorno a una sconosciuta usanza pagana. Purché non sia Gesù di Nazareth. Si faccia la Festa della Luce. Sostituiamo il Natale con una celebrazione pagana. Creiamo un rito religioso non cristiano. Inventiamoci una fede laica. Ci aveva già pensato la rivoluzione francese, imponendo ai vescovi di parogi di offrire sacrifici sacrileghi alla dea ragione, per celebrare la fine del cristianesimo e della civiltà cristiana. In nome dei valori della tolleranza e dei lumi della ragione. Avremo davvero risolto il problema del rispetto verso le altre fedi? No, abbiamo solo distrutto la fede cristiana, e creato una fede laica, in nome del rispetto di coloro che professano un’altra fede.

Un amico mi riferiva in questi giorni di un episodio accaduto in una scuola della Calabria. In nome del rispetto di alcuni alunni di fede musulmana, l’insegnante fece togliere una immagine della Madonna appesa alla parete. Di cui forse neanche gli alunni cattolici, forse, si accorgevano. Sono insorti i genitori degli alunni musulmani, colpiti dallo scandalo del poco rispetto che i cattolici hanno verso Myriam, cioè Maria, e hanno chiesto di rimettere l’immagine alla parete. Davanti all’indifferenza degli altri… cattolici.

A proposito del crocifisso nei luoghi pubblici, in Italia siamo a conoscenza della sentenza della Grand Chambre di Strasburgo del 18 marzo 2011 sul caso Lautsi contro L’Italia, che mette fine al divieto di esporre i simboli sacri del cristianesimo nei luoghi pubblici, in Italia?

(EC)

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A chi fa paura il presepe? Il sociologo Introvigne sul Natale “politicamente corretto” 

2012-11-23 Radio Vaticana

Nella cittadina di Caorso, in provincia di Piacenza, con la motivazione di non offendere i bambini stranieri, la direttrice di un istituto scolastico comprensivo ha pensato di eliminare il presepe ed altri riferimenti religiosi a 120 bambini per far vincere – secondo lei – il multiculturalismo. Lucia Fiore ne ha parlato con il sociologo, Massimo Introvigne, responsabile in Italia dell’Osservatorio della Libertà Religiosa, promosso dal Ministero degli Esteri italiano.
R. – Siamo di fronte a uno “sciocchezzaio” spesso neppure fondato su una conoscenza degli elementi di fatto. Ogni anno mi capita di intervenire su questi temi. Solo per rimanere alla mia regione, in Piemonte negli ultimi anni abbiamo avuto una scuola elementare che ha cambiato la parola “Natale” con “Festa della luce” – senza rendersi conto che per questo esiste un precedente ed è quello della Germania nazional-socialista – e un istituto scolastico che ha abolito il Natale per rispetto agli alunni cinesi prima di accorgersi che i pochi alunni cinesi presenti erano tutti cristiani!

D. – Togliere i riferimenti religiosi al Natale per concentrarsi su temi universali come l’amicizia e la fratellanza può essere questo un sano concetto di laicità?
R. – Credo proprio di no. Penso che chi fa queste proposte dovrebbe rileggersi le opinioni dei giudici della Corte europea e dei diritti dell’uomo in sede di appello nella sentenza Lautsi relativa al Crocifisso. Questi giudici ci dicono, con chiarezza, che proprio il riferimento a Gesù Cristo in un Paese come l’Italia – che, piaccia o no, è segnato così profondamente dalla cultura cristiana – anche ai non cristiani parla di temi universali come l’amore per tutti, il dare la vita per gli altri e il rispetto per ogni uomo.

D. – Si sentono discriminati questi ragazzi che non sono cristiani nel veder celebrare la festa?
R. – Chi si sente discriminato di solito fa parte di minoranze più spesso laiciste che non di altre religioni. Posso raccontare un altro episodio. Qualche anno fa proprio mentre a Milano alcune scuole pubbliche eliminavano il presepe o i fraterni “Buon Natale” per il presunto rispetto agli alunni musulmani, la scuola islamica – e io ci sono entrato quell’anno – proprio all’ingresso aveva un grosso cartello che augurava “Buon Natale”.

D. – Quale appello lancerebbe a chi ha preso questa decisione?
R. – L’appello è quello di riflettere sul deporre, per un momento, l’ideologia e fare prevalere quella che dopo tutto rimane una delle caratteristiche dell’ethos italiano, cioè il buon senso. Il buon senso, che è stato felicemente condiviso dopo i furori ideologici di primo grado dai giudici di appello della Corte europea dei diritti dell’uomo, ci dice che per gli italiani il Natale, la Pasqua, i riferimenti a Gesù Cristo, sono portatori di un messaggio universale che percorre tutta la nostra cultura, tutta la nostra letteratura, la nostra arte, la nostra storia, e che è un messaggio che fa appello ai valori più alti e nobili nell’uomo che come tale è stato condiviso e, di fatto, è condiviso da tanti non credenti.

Un nuovo vento unisce l’Europa. Di U. Beck

da La Repubblica del 25 novembre 2012

“SIAMO in piazza per protestare contro la legge che taglia i finanziamenti alla scuola pubblica: come facciamo ad andare avanti se nella nostra scuola non ci sono abbastanza banchi?”. Così uno studente di Torino giustificava la sua partecipazione allo sciopero europeo della scorsa settimana. Giusto un anno e mezzo fa siamo stati spettatori di una primavera araba con la quale assolutamente nessuno aveva fatto i conti. Di colpo, regimi autoritari crollarono sotto la spinta dei movimenti democratici di protesta organizzati dalla “Generation Global”. Dopo la primavera araba potrebbe arrivare un autunno, un inverno o una primavera europea? Gli scioperi delle ultime settimane ne sono stati i segnali?

Naturalmente, negli ultimi due o tre anni abbiamo visto ragazzi di Madrid, Tottenham o Atene protestare contro gli effetti delle politiche neo-liberali di risparmio e attirare l’attenzione sul loro destino di generazione perduta. Tuttavia, queste manifestazioni erano in qualche modo ancora legate al dogma dello Stato nazionale. La gente si ribellava nei singoli paesi alla politica tedesco- europea del rigore, adottata dai diversi governi. Ma quello che è accaduto la scorsa settimana parla un’altra lingua: 40 sindacati di 23 paesi hanno indetto una “giornata di azione e solidarietà”. I lavoratori portoghesi e spagnoli hanno chiuso le scuole, hanno paralizzato il traffico e hanno interrotto i trasporti aerei nel primo sciopero generale coordinato a livello europeo. Benché il ministro degli Interni spagnolo abbia parlato di «proteste isolate», nel corso dello sciopero solo a Madrid sono state arrestate 82 persone e 34 sono rimaste ferite, fra cui 18 poliziotti. Queste proteste diffuse in tutta Europa sono avvenute proprio nel momento in cui molti credevano che l’Europa avesse finalmente trovato la soluzione magica per la crisi dell’euro: la Banca centrale europea rassicura i mercati con il suo impegno ad acquistare, in caso di necessità, i titoli degli Stati indebitati. I paesi debitori – questa è la promessa – devono “soltanto” adottare ulteriori e ancor più incisive misure di risparmio come condizione per l’erogazione dei crediti da parte della Bce, e tutto andrà bene.

Ma i profeti tecnocratici di questa “soluzione” hanno dimenticato che qui si tratta di persone. Le politiche rigoriste con le quali l’Europa sta rispondendo alla crisi finanziaria scatenata dalle banche vengono vissute dai cittadini come un’enorme ingiustizia. Il conto della leggerezza con cui i banchieri hanno polverizzato somme inimmaginabili alla fine viene pagato dal ceto medio, dai lavoratori, dai pensionati e, soprattutto, dalla giovane generazione, con la moneta sonante della loro esistenza.

Se ora la Spagna, la Grecia e il Portogallo, ma anche l’Italia e la Francia vengono scosse da scioperi organizzati dai sindacati, non si deve interpretare ciò come una presa di posizione contro l’Europa. Le immagini dell’ira e della disperazione dicono piuttosto che è venuto il momento di invertire la rotta. Non abbiamo più bisogno di salvataggi delle banche, ma di uno scudo di protezione sociale per l’Europa dei lavoratori, per il ceto medio, per i pensionati e soprattutto per i ragazzi che bussano alle porte chiuse del mercato del lavoro. Questa Europa solidale non tradirebbe più i propri valori agli occhi dei cittadini. Perché essi vedano nell’Europa qualcosa che ha senso, il suo motto dovrebbe essere: più sicurezza sociale con un’altra Europa! La questione sociale è diventata una questione europea, per la quale non è più possibile nessuna risposta nazionale. Per il futuro sarà decisivo che questa convinzione si affermi. In effetti, se gli scioperanti e i movimenti di protesta prendessero a cuore l’“imperativo cosmopolitico”, cioè cooperassero in tutta Europa al di là delle frontiere e si impegnassero assieme non per meno Europa, ma per un’altra Europa, si creerebbe una nuova situazione. Un’“altra” Europa dovrebbe sostanzialmente essere costruita in base a un’architettura ispirata alla politica sociale e andrebbe rifondata democraticamente e dal basso.
Alla fine l’Europa – la crisi dei debiti dimostra proprio questo – dipende dal denaro dei singoli Stati. Pertanto, un’Europa democratica e sociale avrebbe bisogno di un fondo comune. Ora, non è difficile immaginarsi come reagirebbero i cittadini se dovessero rinunciare a una parte del loro reddito per questa “addizionale di solidarietà” o se si aumentasse l’imposta sul valore aggiunto affidando la gestione degli introiti supplementari alla Commissione europea. A questo punto si potrebbero prendere in considerazione la tassa sulle transazioni finanziarie, una tassa sulle banche o un’imposta europea sui profitti d’impresa. In questo modo, da un lato, si riuscirebbe ad addomesticare il capitalismo del rischio scatenato, addossando le responsabilità delle conseguenze della crisi a coloro che l’hanno provocata e, d’altra parte, l’Europa sociale diventerebbe finalmente una realtà tangibile ed efficace.

Se si formasse un’alleanza tra i movimenti sociali, la generazione europea dei disoccupati e i sindacati – da un lato – e gli architetti dell’Europa nella Banca centrale europea, i partiti politici, i governi nazionali e il Parlamento europeo – dall’altro -, nascerebbe un movimento possente, capace di imporre una tassa europea sulle transazioni finanziarie contro l’opposizione dell’economia e l’ottusità degli ortodossi dello Stato nazionale.

Se questo riuscisse, sarebbe addirittura possibile guadagnare due nuovi alleati per un’altra Europa: in primo luogo (per quanto ciò possa risultare paradossale), gli attori dei mercati finanziari globali, che forse acquisirebbero nuova fiducia di fronte a una chiara scelta di campo per l’Europa delle politiche sociali e investirebbero in essa, poiché sarebbe chiaro che c’è un’istanza che in caso di crisi risponde delle possibili perdite. E, in secondo luogo, le popolazioni degli Stati debitori oggi attratte dal nazionalismo e dalla xenofobia, che si impegnerebbero nel proprio interesse bene inteso per il progetto di un’Europa sociale e democratica. Una primavera europea, dunque?

(Traduzione di Carlo Sandrelli)