Umanità e Speranza. Dove siamo e dove possiamo andare per ritrovarci (o perderci)

L’aver trascurato per così tanto tempo la vita interiore e il contatto con il nostro Io, convinti che la felicità stia nel possedere (denaro, le persone, la propria donna o il proprio uomo), ci ha portato a non essere in grado di vedere quali voragini di vuoto si sono aperte dentro di noi, all’interno delle quali abbiamo perso la reale percezione dell’esistere e ciò che rende l’uomo e la donna veramente umani.

Senza l’esperienza interiore, senza la percezione del nostro io, noi perdiamo la possibilità di sentire come un brivido tutto ciò che ci fa veramente esistere: la bellezza delle relazioni umane, la contemplazione della natura, il futuro come luogo di speranza.

Possiamo passare la domenica facendo una gita fuori porta con la famiglia, andare in montagna o al mare, ma invece di fare una esperienza di immersione e di contemplazione, faremo quella dell’evasione e del consumo.

Occorre tornare lì, alle sorgenti del nostro Io, nelle nostre profondità interiori.

Dobbiamo tornare al punto sorgente del nostro Io. Una strada maestra è il silenzio interiore. Un’altra strada è la relazione con l’altro, ogni altro. Ogni persona che attraversa la mia vita diventa un “Tu” che mi rivela a me stesso, almeno una parte di me. Ogni “Tu” che intreccia una relazione umana con me diventa come una bussola che mi indica la strada per arrivare a quel punto sorgente.

Arrivati a quel punto sorgente, bisogna poi proiettarsi nuovamente verso il mondo. Perché la relazione col mio io è l’inizio della mia rinascita ma la comunione piena con gli altri e con la natura ne è il compimento.

Da soli noi non possiamo ritrovarci. Da soli siamo inghiottiti dentro la voragine che si è creata in noi.

L’esistenza di un “Tu” mi fa percepire che c’è un “Io”. Per entrare in una relazione veramente umanizzante con quel “Tu”, cioè con il mondo, devo entrare in un rapporto profondo con me stesso.

E.C.

Abbiamo bisogno di mettere fine a un mondo dove l’altro (la moglie, il marito, l’amicizia, il cibo, tutto) sia solo un bene di consumo e scoprire, invece, che tutto è dono.

Abbiamo bisogno di congedare per sempre il paradigma di un sistema di mondo che si fonda sulla “contrapposizione – divisione – conflitto” e sostituirlo per sempre con il paradigma della “fratellanza – unità – pace“.

L’umanità si trova, sì, in un tempo di crisi epocale, presso il più grande bivio della sua storia ma si trova anche in un tempo straordinariamente affascinante, pieno di opportunità, un tempo di rigenerazione e di rinascita, un tempo per costruire un mondo mai visto prima. Uno dove la creazione e la vendita delle armi e la guerra diventino obsoleti e fonte di perdita e non di profitto e l’armonia e la pace tra i popoli diventino la più grande fonte di prosperità, materiale e spirituale.

Questo è il viaggio che le nostra umanità deve compiere. È il viaggio più affascinante della nostra vita.

Il Padre nostro dei non credenti

 

di José Tolentino Mendonça – “Avvenire” del 15 settembre 2013

 

Per capire la preghiera del Padre nostro (e oserei dire, per comprendere ogni preghiera cristiana), è necessario ricercare il significato di questo “Padre” a cui ci dirigiamo. Che cos’è un padre? Mio padre si trova fuori e dentro di me. È una persona in carne e ossa, che possiede una storia, uno stile, un temperamento, che ha intrattenuto con me una serie di scambi fondamentali… Ma il padre si trova anche dentro, all’interno di ciascuno di noi. È quello che noi chiamiamo imago. Una specie di rappresentazione psichica, che ci offre un modello per cementare l’architettura interiore. In verità, per crescere, per guadagnare l’indispensabile fiducia, tutti abbiamo avuto la necessità di avere in noi stessi nostro padre, e non solo fuori. E lo abbiamo incorporato. In seguito ci siamo proiettati in lui, abbiamo cercato di imitarlo, di essere come lui, di raggiungere il suo livello che già ci sembrava incalcolabile, di raggiungere la sua forza e le sue capacità che avevamo già considerato assolute e protettrici.

La grammatica del vivere, nella sua singolarità, ci sollecita una qualche forma di incorporazione della madre e del padre. La loro figura non solo permane di fronte ai nostri occhi, ma guadagna la sua esistenza interna. Questa “gestazione” permette che il bambino si strutturi interiormente e proceda in quella che sarà l’arte di una vita, la fiducia. In uno dei suoi libri, lo psicanalista João dos Santos racconta una storia interessante. I bambini della Casa da praia, un’istituzione da lui fondata, erano stati convocati per realizzare un gioco: prendere d’assalto un castello. Le professoresse avevano organizzato tutto e la classe avrebbe preso d’assalto la fortezza, in pieno giorno, con spade ed elmi di cartoncino. Un gioco più o meno simile a tanti altri che abbiamo fatto anche noi. Ma al momento di iniziare il combattimento, un bambino di quattro anni si rifiuta di prendervi parte. E quando lo si incita affinché si faccia

coraggio, si mette a piagnucolare, e dice: «Ho paura, non ho le forze, non riesco a lottare, mio padre è a Parigi». Neppure i genitori degli altri bambini erano presenti, e dunque doveva essere indifferente la localizzazione di quel padre specifico. Ma quel che il bambino voleva esprimere possiede un’altra dimensione. In realtà, si dibatteva in questo modo: «Mio padre non è ancora sufficientemente forte dentro di me, come immagine, per poter lottare se non si trova al mio fianco. Mio padre è lontano, e sono, di conseguenza, un essere più fragile degli altri, non mi sento capace di affrontare il rischio…

Sarebbe stato necessario che questa presenza fosse sufficientemente stabile e irradiante dentro di me». Vi ricordate quando eravamo bambini e ci vergognavamo di guardare gli estranei? Senza il babbo o la mamma, vicini, non sapevamo fare un passo, camminavamo attaccati ai loro vestiti, ci alimentavamo della loro prossimità. È un po’ paradossale, ma è così: abbiamo cominciato a guadagnare autonomia in relazione ai genitori quando loro hanno cominciato a collocarsi, in modo sicuro, dentro di noi. Era questo che mancava al bambino della storia precedente. L’assenza del padre dentro di sé lo paralizzava.

Per la maggior parte delle persone non ci sarà stato mai che un interlocutore: il padre o la madre. Figure preponderanti per la loro presenza o assenza, che liberano o schiacciano la vita con tutto il peso di ciò che essi non hanno saputo essere o dare. «Guarda quel che faccio! È per te, è per ottenere il tuo amore, è affinché finalmente tu volti i tuoi occhi verso di me, affinché tu mi dia con la piena luce dei tuoi occhi la certezza, la conferma che io merito di esistere ». (…)

Simone Weil ha scritto che non si può concepire una preghiera che non sia già contenuta nel Padre nostro: questo «sta alla preghiera come Cristo all’umanità». Di più: «È impossibile pronunciarlo un’unica volta, prestando a ogni parola la pienezza dell’attenzione, senza che un cambiamento, forse infinitesimale, ma reale, si dia». Riusciamo a capire il Padre nostro solo quando ci sentiamo colpiti, frastornati, risolti, rinati attraverso di lui. Quando capiamo, in modo esistenziale, che prima di Gesù era una cosa, e con Gesù è un’altra cosa, completamente distinta. Dobbiamo passare da una spiritualità interiore, eccessivamente dipendente dall’inquadramento sociologico e dalle sue pratiche, a un’altra, più interiore, che ci permette di scoprire che Dio è Padre, è mio Padre, è il “Padre nostro”.

Quando Gesù decide di insegnare il Padre nostro ai discepoli? Quando questi sono capaci di percepire Gesù come un avvenimento assolutamente nuovo. La preghiera è conseguenza, più che causa. È espressione del vissuto, più che una scoperta. Il Padre nostro nasce da un cammino. Ed è al culmine di una tappa di maturazione che il Padre nostro è rivelato. Anche noi dovremo recitare il Padre nostro, con verità, quando avremo capito, non solo lungo la linea della storia e della sua spuma, ma nel più profondo di noi stessi, che Gesù Cristo porta la novità di Dio. Forse a tale fine dobbiamo, come raccomandava Fernando Pessoa, «imparare a disimparare». Disimparare i labirinti, tutte le trame, i modelli che ci soffocano e servono soltanto per farci rimandare il necessario incontro con noi stessi. Gesù ci fa accedere a una soglia nuova di Dio e della nostra umanità. E proprio perché aveva presentito tutto quanto abbiamo visto, quel discepolo chiese a Gesù: «Maestro, insegnaci a pregare».

Ho bisogno di deserto per trovarti dentro di me

Puoi ascoltare questa preghiera anche in audio.

Clicca qui.

Quella che segue, forse, non è una preghiera di immediata comprensione per tutti. È una esperienza di preghiera “profonda”. Essa nasce e matura nel profondo dell’anima, si direbbe… Ai confini dell’inconscio… Per cui il linguaggio può risultare molto diverso da quello di una preghiera popolare….

Questa preghiera nasce e si sviluppa all’interno di una particolare esperienza interiore….
Oggi la “desertificazione spirituale” di cui parlò Benedetto XVI, l’11 ottobre 2012, nell’omelia di apertura dell’Anno della Fede, a 50 anni dall’inizio dal Concilio Vaticano II, rappresenta un forte richiamo a ridare impulso alla vita interiore. Il Papa diceva:
“In questi decenni è avanzata una «desertificazione» spirituale. Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, al tempo del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. E’ il vuoto che si è diffuso”.

Una regola per la vita interiore

Da “Blog Romualdica”  –  09 Luglio 2012

San-Romualdo: «Non credete ai distruttori delle regole che parlano in nome dell’amore.

Là dove la regola è frantumata, l’amore abortisce». (Gustave Thibon)

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Oggi molti – anche cristiani – si beffano davanti a coloro che osano ancora dire che bisogna rifare il mondo. Come se la maturità – e soprattutto la maturità della fede – significano un sano e realistico distaccamento dalle utopie che parlano di cambiare il mondo e, piuttosto, di una serena accettazione del mondo così com’è. In tal caso la fede cristiana consiste in una sorta di scienza del buon vivere, o, se vogliamo, una etica del buon vivere, seguendo l’esempio dei santi, facendo il possibile almeno per migliorare, al massimo, quel piccolo spazio di mondo in cui ognuno vive. Ma se al cristianesimo togliamo le grandi visioni di futuro, il sogno che cambiare il mondo è non solo possibile, ma è costitutivo della missione stessa della vocazione cristiana, cosa resta della fede? La grande promessa dei cieli nuovi e di una terra nuova non sono un mondo “altro”, qualcosa che non dipende dal lavoro dell’uomo. E’ il compimento di una promessa di Dio, che solo in Dio si può realizzare, che è dono… puro dono di Dio… non mera opera umana. Ma qui sta il mistero della vocazione cristiana: questa promessa è affidata anche alle mani dell’uomo. Mediante la sua fede, la speranza e la carità egli anticipa la realizzazione di quel mondo futuro. E così egli realizza la grande utopia di rifare il mondo. La vera questione è che per rifare il mondo, nel mondo in cui viviamo, occorre cominciare dalle profondità del proprio mondo interiore. E’ lì che bisogna ricominciare… perché l’Interiorità dell’uomo è il pilastro su cui regge l’opera di ricostruzione dell’intero mondo. tentare di ricostruire il mondo a partire da qualsiasi altro punto, oggi, di fronte a una crisi antropologica e spirituale così radicale, è come tentare di innalzare un grattacielo partendo dai piani alti, e aspettandosi che questi si reggano da soli, autosospesi nel vuoto, in attesa che si finisca di costruire le fondamenta per poi ricongiugerle con questi. E’ un’impresa impossibile. (E.C.)

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Introduzione

Due parole riassumono magnificamente la spiritualità monastica del XII secolo: Magnitudo, grandezza dell’uomo immagine di Dio, e rectitudo, lo sforzo necessario di rettitudine dopo la caduta nel peccato originale. La parola regola, che ha la stessa radice di rectitudo, non ha una buona fama, salvo tra i monaci benedettini che vedono nella Regola del loro patriarca un monumento di saggezza e l’espressione santissima della volontà di Dio.

Vittime da due secoli di una falsa filosofia, abbiamo finito per vedere nella regola un intralcio alla libertà, quando invece ne è la condizione stessa. Quarant’anni fa Gustave Thibon aveva lanciato questo terribile avvertimento: «Disprezzi le regole, le tradizioni e i dogmi. Non vuoi imporre nessun inquadramento dottrinale al tuo bambino, al tuo discepolo; benissimo. Gli dai da bere un vino prezioso, dimentichi solo di dargli una coppa; cos’è il vino senza coppa? Un ruscello che cade a terra, ed eccolo versato, produce il peggior fango».

La tradizione militare e l’esperienza del comando testimoniano in favore dell’obbedienza alla regola. Ecco le parole di un ufficiale (capitano André Bridoux, Souvenirs du temps des morts):

«Più la regola è severa, più c’è libertà. Questo si capisce. Un capo sicuro dei suoi subordinati può essere generoso nel concedere favori.

«Si può soffrire qualche volta di essere comandati troppo o male; si soffre ancora di più di non esserlo affatto, perché il disordine si produce subito e la più grande disgrazia pesa allora sui piccoli.

«Questo rispetto della regola stretta porta lontano, e in particolare a una grande severità nei giudizi perché, secondo questo principio, il cavaliere d’Assas non ha fatto che il suo dovere; è meglio appoggiarsi alla perfezione della regola che sull’imperfezione della natura.

«Gli uomini saranno sempre obbligati ad assicurarsi contro sé stessi. La buona volontà non è sufficiente, perché presto si piegherebbe di fronte alla prova ripetuta del pericolo della morte, prima ancora davanti al ripetersi di lavori semplici ma noiosi che riempiono la vita del soldato e che sono tuttavia indispensabili».

Quante anime rimpiangono tardi di non avere saputo serrare la propria vita in un corsetto di ferro di una regola morale esigente! Il suo impiego ragionevole avrebbe loro risparmiato lo spettacolo desolante di un’esistenza senza regole, fatta di mollezza e di pigrizia. «Ah! Se si potesse rifare…», si dicono con un tono toccante. Ma la parola inesorabile del poeta cade come una spada: Never more!

Senza una disciplina personale, non c’è artista, non c’è scrittore, non c’è ingegnere; talento personale e santità sono votate allo scacco. Senza regola, non c’è capolavoro, non c’è vita contemplativa, non c’è elevazione mistica. È arrivato il momento di sbarazzarsi degli slogan faciloni che ricoprono il suolo putrescente di questo tempo, e di ritrovare il segreto degli antichi per diventare, non degli imbroglioni disonesti, ma dei saggi artigiani delle nostre vite. Non ricordo quale scrittore diceva: «Il genio consiste nel sedersi all’ora prefissata al proprio tavolo di lavoro».

Comunque bisogna ricordare – soprattutto per quanto riguarda l’ordine spirituale – il paragone stabilito da Charles Péguy tra le regole dure e le regole morbide, queste essendo più esigenti di quelle, perché impegnano l’uomo in una zona di profondo legame. È solo in questo senso, e non senza qualche apprensione, che proponiamo una regola di vita dell’anima.

Dentro la dura notte l’anima chiede salvezza, di Marco Guzzi

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Ecco un passaggio di articolo di Marco Guzzi.

“Il passaggio verso la libertà richiede cioè un profondo abbandono di tutto ciò che la Maschera e l’Ombra ritengono molto importanti, e cioè di tutto ciò che questo mondo ritiene fondamentale e prioritario.

Non ci sono scorciatoie.
Siamo tutti nuovamente di fronte al mistero della conversione liberatrice, tutto da ripensare d’altra parte, tutto da ricomprendere, tutto da realizzare nella sua divina bellezza.
Siamo tutti di nuovo di fronte alla proposta di Cristo, al mistero vivente della sua Nuova Umanità, che ha attraversato tutti i nostri inferi, e ne conosce perciò le vie di uscita, e che possiamo rivestire anche ADESSO: “dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,23).

Marco Guzzi, Dentro la dura notte l’anima chiede salvezza

Martini: senza silenzio non si fa la rivoluzione

Giovedì 08 Marzo 2012 11:51

di Carlo Maria Martini – “Avvenire” del 6 marzo 2012

Tra le molte cose che si possono dire sulla maniera in cui è vissuta oggi la dimensione contemplativa dell’esistenza, viene in mente la disabitudine alla pratica della preghiera e alle pause contemplative. In questo la nostra civiltà occidentale si distingue nettamente dalle civiltà dell’Oriente, dove sono in onore la pratica e le tecniche contemplative e il gusto per la riflessione profonda.

Forse la gente prega e riflette più di quanto non sappia o non dica. Si tratta di aiutarla a dare un nome più preciso, un indirizzo più costante, a certe impennate del cuore che, più o meno intensamente, sono presenti nella storia di ognuno. L’esodo massiccio dalle città nei periodi di vacanza e nei fine settimana esprime in fondo anche questo desiderio di ritorno alle radici contemplative della vita.

Lo sfondo generale lo dà la cultura occidentale attuale, che ha un indirizzo tutto teso al «fare», al «produrre», ma che genera per contraccolpo un bisogno di silenzio, di ascolto, di respiro contemplativo. Sia l’attivismo frenetico sia certe maniere di intendere la contemplazione possono rappresentare una «fuga» dal reale. Per far evolvere questa situazione non basterà risvegliare una ricerca di preghiera, occorrerà anche purificare, orientare certe forme scorrette o insufficienti di ricerca. In particolare occorrerà evitare le contrapposizioni tra azione, lotta e rivoluzione da un lato, e contemplazione, silenzio e passività dall’altro. Bisognerà dare uno specifico orientamento sia all’azione sia alla contemplazione. (…) Va tenuto presente anzitutto il tono esasperato che assumono le contraddizioni della civiltà industriale.

Questo rende ancor più stimolante e profetico il compito di elaborare modelli e forme di preghiera contemplativa per l’uomo d’oggi. Si può ricordare la crisi di certi adulti che, sparite certe forme tradizionali di preghiera legate al ritmo pre-industriale, faticano a trovare nuove forme. Si può ricordare la consolante richiesta di silenzio contemplativo da parte di certi giovani. E la confluenza di più civiltà nella trama internazionale della nostra società. Il confronto con le forme di preghiera provenienti soprattutto dall’Oriente può diventare uno stimolo per una più rigorosa scoperta degli originali valori della preghiera cristiana, sullo sfondo di un dialogo e di un reciproco arricchimento con altre tradizioni. La proposta di riflettere sulla dimensione contemplativa della vita intende provocare il recupero di alcune certezze che hanno patito qualche scolorimento e qualche eclissi: l’importanza del silenzio, il primato dell’essere sull’avere, sul dire, sul fare, il giusto rapporto persona-comunità. Mi pare venuto il momento di ricordare che l’abitudine alla contemplazione e al silenzio feconda e arricchisce, che non si ha azione o impegno che non sgorghi dalla verità dell’essere profondo. L’uomo «nuovo» – cui la fede ha dato un occhio penetrante che vede oltre la scena e la carità, un cuore capace di amare l’Invisibile – sa che il vuoto non c’è e il niente è eternamente vinto dalla divina Infinità. Sa che l’Universo è popolato da creature gioiose, e di essere spettatore e già in qualche modo partecipe dell’esultanza cosmica, riverberata dal mistero di luce, amore, felicità del Dio Trino. Perciò l’uomo nuovo, come il Signore Gesù che all’alba saliva solitario sulle cime dei monti, aspira ad avere per sé qualche spazio immune da ogni frastuono alienante, dove sia possibile tendere l’orecchio e percepire qualcosa della festa eterna e della voce del Padre.