Dimmi come parli e ti dirò chi sei. Il linguaggio che svela l’anima dell’uomo

 

Il modo con cui una persona comunica, ossia il suo linguaggio, non è solo un mero uso di parole senza implicazioni. Il linguaggio svela ciò che una persona è dentro, nel profondo del suo mondo interiore. Il linguaggio svela l’identità di una persona, il suo carattere, il suo stile relazionale.

Se uno, nel suo stile comunicativo, che è fatto non solo di parole ma anche di gesti, sguardi e espressioni facciali, è abituato a bestemmiare di frequente, è perchè quella bestemmia è radicata in lui, nel suo carattere, ne plasma lo stile di vita e toglie il velo sui segreti del suo modo di relazionarsi alla vita, al suo mistero e all’uomo. La bestemmia svela o l’arroganza e la volgarità di un animo impenitente e pieno di sé al punto di disprezzare Dio, ma può anche svelare la fragilità dell’uomo che lo fa come puro sfogo di rabbia nelle diverse situazioni, senza reale intenzione di disprezzare Dio, come non riesce a smettere di fumare. In entrambi i casi, essa svela qualcosa del mondo interiore di quella persona.

Se uno è abituato a mentire come fatto ordinario, senza sentire il minimo di rimorso, per ottenere benefici, nascondere misfatti o recare danno a qualcuno, è perché quella menzogna è radicata dentro di lui, e ne esprime l’anima. Egli vive nella menzogna, al punto da diventare lui stesso menzogna.

Se uno è abituato a linguaggi estremi, con toni altisonanti, con aggettivi qualificativi che esasperano un concetto, una frase, o un discorso, probabilmente quella persona haLinguaggio

bisogno di esagerare i toni perché sta cercando attenzione…

Ma è anche probabile che lo faccia perché l’animo di quella persona è “estrema”, nel senso letterale del termine. L’estremo è un punto limite che segna un confine. Una persona “estrema”, attraverso il suo linguaggio, sta dicendo agli altri che il suo EGO è la misura delle cose, il confine oltre il quale non vi è nulla. La moderazione, la temperanza e il buon senso si dissolvono tra le parole urlate di chi deve vincere una campagna elettorale, o di chi deve convincere gli altri del suo valore… forse anche della sua insostituibilità. La normalità lo spaventa, perché lo spaventa l’idea di non essere superiore agli altri. Egli vive nella paura di scoprirsi normale, e la paura finisce per prenderlo in ostaggio ed essere il suo padrone.

Se uno ha sempre in bocca parole come “verità” e “giustizia”, e le ripete ossessivamente, è molto probabile che egli, in qualche angolo nel profondo del suo cuore, sa che egli vive negando quei valori. Ed è probabile che costui, più che convincere gli altri delle sue eroiche virtù, sta cercando di convincere solo se stesso.

Se, quando si parla di Dio, il linguaggio di una persona è formulato attraverso gli assoluti, è probabile che questa persona nel profondo del suo mondo interiore vive una forte insicurezza esistenziale. In tal caso, il suo linguaggio assoluto, mentre ostenta sicurezza, declamando dichiarazioni di fedeltà ai dogmi e alle tradizioni, svela un profonda povertà spirituale. L’uomo spirituale non ha bisogno di ostentare, perché la solidità della sua identità viene da una profonda armonia interiore e da un equilibrio fra mondo interiore e mondo ulteriore.

Se il suo linguaggio è da crociato, come se Dio gli avesse direttamente rivelato di essere il giusto difensore della fede, è probabile che questi non abbia alcuna percezione dell’uomo… e del suo essere… umano, ma solo del suo EGO. E anche in tal caso, ciò che egli percepisce di sé è distorto, gonfiato, snaturato.

Se il linguaggio di una persona è il silenzio, anche davanti a fatti nei quali egli dovrebbe pronunciarsi, perché c’è un gene in pericolo, è probabile che nel suo animo egli sia esistenzialmente muto, incapace di esprimersi… Come se in lui la parola fosse imprigionata…

Oppure al contrario, è probabile che il suo silenzio sia segno di una capacità di ascolto profondo e di contemplazione. Quest’ultimo si distingue dal primo perché pronuncia parole di saggezza quando occorrono, e se non occorrono, egli saprà stringere una mano, dare una carezza, poggiarla su una spalla, comunicando così molto di più di quanto comunicheranno e parole.

Il linguaggio è non solo un mezzo di comunicazione. La persona non usa il linguaggio, ma è linguaggio. Egli può usare molte modalità di linguaggio, ma è, egli stesso linguaggio. Per questo l’uomo, con uno strumento così potente come la parola, può affliggere o sanare, uccidere o riportare in vita.

Un dono così grande deve essere usato per elevare, promuovere, riconoscere, servire la verità, orientare le coscienze al bene e operare il bene.

E.C.

UOMO DEL MIO TEMPO (1946)

Giovedì 09 Settembre 2010 20:29

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di Salvatore Quasimodo

La poesia è sviluppata sul tema secondo il quale l’uomo nel corso della storia_ha modificato solamente il modo di combattere, infatti ancora oggi fa la guerra_perciò sotto vari aspetti è ancora primitivo. Al termine della seconda guerra mondiale, ancora sconvolto dagli orrori cui ha assistito, Salvatore Quasimodo lancia un appello perché un futuro di pace, di umana fratellanza possa prospettarsi alle giovani generazioni.

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Sei ancora quello della pietra e della fionda,

Uomo del mio tempo.

Eri nella carlinga, con le ali maligne,

le meridiane di morte – t’ho visto – dentro il carro di fuoco,

alle forche, alle ruote di tortura.

T’ho visto: eri tu,

con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo.

Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero

gli animali che ti videro per la prima volta.

E questo sangue odora come nel giorno

quando il fratello disse all’altro fratello: “Andiamo ai campi.”

E quell’eco fredda, tenace, è giunta fino a te,

dentro la tua giornata.

Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue.

Salite dalla terra, dimenticate i padri:

le loro tombe affondano nella cenere,

gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

(S. Quasimodo)

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Riflessione di E. Caruso

Il mondo ha bisogno di un nuovo inizio….

ha bisogno di poeti che liberino con la loro potenza creativa

una nuova luce e nuovi colori…

colori di un mondo dove finalmente il lupo dimorerà con l’agnello (Isaia 11:6 )…

e dove i popoli forgeranno le loro spade in vomeri (Isaia 2:4 )…

Il mondo ha bisogno di nuovi martiri che col paradosso del loro sangue testimonino la follia dell’odio…

ha bisogno di un uomo nuovo capace di guardare al cielo

e commuoversi per il miracolo della vita.

E quel giorno Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi (Apocalisse 4:4 ).

E la guerra sarà soltanto un lontano ricordo di un’era

per la quale l’umanità rinata a se stessa e a Dio

vorrà ripulirsi dalla vergogna…

e tornare sulla strada della vita che ama,

dell’amore che genera

e della gioia che illuminerà ancora una volta

i volti di un’umanità stanca e smarrita.

 

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Reazioni dell’anima – di Daniela Virgilio

Lesta si muove ormai la delusione:

percorre ogni sua strada in contro senso.

Se arretra è solo per guardare con distacco…

avere più chiarezza e meno impatto.

Ma corre già l’ennesima condanna:

l’amore che le ossa pure bagna

quell’ombra che per vita ti accompagna

che intreccia pene e poco ci guadagna.

Un soffio il suo parlarti lentamente

un bacio sulla fronte tra i capelli

desio si svela al vento travolgente

che gonfia vele… in direzione tempo.

Condanna innocente

che mai non fu così piacere eterno…

che forte ti avvolge e prepotente ti prende

ruffiana tra fili d’argento la luna complotta.

 

(Daniela Virgilio)

Cosa è diventato l’uomo del nostro tempo?

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Quadro di Jean-Michel Basquiat_morto di overdose a 28 anni, nel 1988,_esponente_del graffitismo americano che ha portato_questo movimento dalle strade metropolitane alle gallerie d’arte. Dopo un incidente che gli comporterà l’asportazione della milza, mentre è ricoverato in ospedale, legge Gray’s Anatomy di Henry Gray. Questa lettura e la sua vicenda personale lo porteranno a vedere l’uomo come una figura scomposta, senza forma e con la parte interna del corpo esposta e senza barriera tra sé e il mondo.

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Ho visto morire sul bordo di una strada senza asfalto di un villaggio africano

un uomo in preda alle convulsioni e con la schiuma che gli usciva dalla bocca.

Schiuma di una droga che gli uomini del villaggio si fabbricano

per non sentire gli spasimi della fame…l’ecstasy dei poveri…

pozione che li fa sentire onnipotenti fino al collasso.

Attorno a lui alcuni uomini e donne del villaggio.

Guardavano.

Mi chiedevo: perché non lo aiutano? Perché non lo portano in ospedale?

Mi viene risposto: che aiuto? Quale ospedale?

Ma portatelo a casa!

No…perché se muore in casa in questo stato il suo spirito non se ne andrà più

e tormenterà i familiari.

Ho visto uno sconosciuto nel pieno centro di Roma cadere a terra e morire sull’istante,

mentre i turisti, fra indifferenza e curiosità, continuavano a mangiare i loro gelati e a passeggiare…

tra gli immancabili con la fotocamera a immortalare la scena da mettere poi su Facebook

come il trofeo di una vacanza in cui hanno visto una cosa che capita una volta nella vita.

Nessuno che si chiedeva: chi era? Qual era la sua storia?

Solo in due, prima dell’arrivo dell’ambulanza…

uno a chiudergli per l’ultima volta gli occhi…

e uno per fare un segno di croce sul cadavere e dire una preghiera…

sperando solo che di preghiere lui ne abbia potuto dire in vita.

Ho visto un uomo dentro un’auto capovolta e accartocciata sul bordo dell’autostrada,

spaventato e sanguinante tra le lamiere contorte.

Diceva che vedeva il mondo sottosopra e le auto passare accanto, rallentare,

guardare… e poi passare oltre. Forse qualcuno ha dato l’allarme al casello. Forse.

Ma non è mai arrivata alcun soccorso…nessuna ambulanza.

Ho visto quell’uomo tirato fuori dalle lamiere da nordafricani che si erano fermati.

Extracomunitari… parola maledetta che condanna “gli altri”, quelli che non sono come noi,

ad essere sempre “extra”… “fuori”… “altri”.

E mi chiedo perché extracomunitari sono chiamati quelli di pelle scura

e mai americani e quelli che somigliano a noi europei…

Ho visto quest’uomo soccorso dagli extracomunitari…Samaritani del nostro tempo.

Invocavano Allah e fasciavano la mano sanguinante del malcapitato.

Vedo l’uomo del nostro tempo disorientato e smarrito.

Arrabbiato e geloso.

Rivale di tutto e di tutti.

Perennemente insoddisfatto e accusatore dei suoi fallimenti.

Diffidente e difensivo… aggressivo e violento.

Vedo un uomo che ha perso il centro e non sa più guardare al cielo…

perché gli vengono le vertigini.

Un uomo orizzontale, piatto e senza vita…

senza orizzonti…senza progetti…senza fiamma.

Un uomo che ha paura del cielo

ma che cerca un salvatore…una luce…una verità…un senso.

Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò (Mt 11:28)

…E NON ABBIATE PAURA!…

 

(E. Caruso)

Enzo Bianchi – Cristiani e infelici. Riscoprire la forza trasformante delle beatitudini

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Perché i cristiani non riescono più a rendere ragione della loro felicità davanti al mondo? Perché vivono la “straordinaria avventura di credere” (Giovanni Paolo II) e poi si comportano come se il loro destino non fosse quello di essere felici…come se la fede fosse solo “dolorismo”, con la conseguenza di dover accettare come destino di portare pesanti fardelli e osservare cumuli di prescrizioni e divieti? Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose, ce ne parla a proposito del suo ultimo libro sulle Beatitudini_(E. Bianchi, Le vie della felicità. Gesù e le beatitudini, Rizzoli, 2010)

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Scrive Enzo Bianchi nel suo libro appena uscito: “Il santo è l’uomo nuovo,quello che vive secondo_il modello lasciato_da Gesù Cristo;è l’uomo delle beatitudini;è l’uomo spogliatosi_dal proprio egoismo,che vive per Dio e per gli altri;è l’uomo trasfigurato.È l’uomo veramentee pienamente umano…

…Consolante è la parola di Gesù che suggella le beatitudini, il suo invito alla gioia: «Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». Una ricompensa che però ha la sua caparra già nel nostro oggi. Vivendo le beatitudini, infatti, pur con tutti i nostri limiti e peccati, possiamo sperimentare già qui e ora la felicità che consiste nel vivere come Gesù e con lui. «È lui la porzione, ed è lui che ti dona la porzione. È lui che ti indica il tesoro, ed è lui stesso il tesoro per te» come ricorda Gregorio di Nissa. Gesù, la nostra beatitudine, ci_insegna un cammino di felicità, apre tutti i giorni davanti a noi le vie della felicità cui anela ogni essere umano.

Su “Avvenire” del 5 maggio 2010 scriveva: “Che senso ha oggi leggere le beatitudini? Perché meditare su queste paradossali parole di Gesù? Innanzitutto, credo, per una ragione umanissima. Nel contesto socioculturale in cui viviamo, noi cristiani siamo chiamati, oggi più che mai, a mostrare con la nostra vita cammini di umanizzazione e di salvezza percorribili da tutti gli uomini. Ora, la maniera più efficace per scoprire questi cammini consiste nel praticare la ricerca del senso, esercizio che ai nostri giorni pare sempre più raro: è diventato difficile, soprattutto per le nuove generazioni, dare senso alla vita e alle realtà chela costituiscono, tanto che da più parti si levano voci che denunciano la «crisi del senso». In questa situazione noi cristiani dovremmo saper mostrare a tutti gli uomini, umilmente ma risolutamente, che la vita cristiana non solo è buona, segnata cioè dai tratti della bontà e dell’amore, ma è anche bella e beata, è via di bellezza e di beatitudine, di felicità. Chiediamocelo con onestà: il cristianesimo testimonia oggi la possibilità di una vita felice? Noi cristiani ci comportiamo comepersone felici oppure sembriamo quelli che, proprio a causa della fede, portano fardelli che lischiacciano e vivono sottomessi a un giogo pesante e oppressivo, non a quello dolce e leggero diGesù Cristo (cfr. Mt 11,30)?

 

 

 

LA SOLITUDINE… Stare tra la gente e sentirsi soli nel nostro tempo

 

Uno dei mali della nostra società… società opulenta… evoluta… prospera… società delle comunicazioni globali e dell’informatica, degli sms e delle chat…

Eppure una società di individui troppo spesso soli, incapaci di comunicare oppure di sentire il respiro della comunicazione dell’altro verso di sé… oppure desiderosi di compagnia e di comunicare… ma senza alcuno che riconosca loro il diritto di esistere… cioè di dire e di dirsi… di esistere perché in relazione con un TU che sia disposto ad ascoltarli e prendere coscienza del mistero della loro esistenza.

Può essere agghiacciante… la solitudine è una dimensione ineliminabile della nostra esistenza. Spesso si ha più paura della solitudine che della stessa morte. Forse è per questo che si registrano più suicidi nei paesi che hanno raggiunto un alto livello di benessere. Si è pieni di oggetti e vuoti di relazioni umane.

Ma la solitudine è anche un mistero… uno spazio sacro che si apre alle profondità della natura umana… spazio di silenzio e ascolto, di contemplazione e di revisione di modi di vivere, dove la persona può ripartire e rinascere e crearsi una nuova vita. E’ nella solitudine che l’uomo prende coscienza del vuoto della sua esistenza senza una relazione umana e umanizzante con il prossimo… con la moglie… col marito… con i figli… il datore di lavoro… il vicino di casa… L’uomo non è condannato alla solitudine. Se lo è lo è diventato per la propria chiusura o per la cattiveria degli uomini…

La solitudine è anche uno spazio unico di maturazione. E’ la condizione per scoprire il mondo… perché se il mondo sono io… non c’è spazio per null’altro che l’io… un io ingigantito e sproporzionato… un io destinato ad accasciarsi al suolo perché non può reggere allo sforzo di dover costantemente alimentare la falsa gloria di se stesso… La solitudine è il più grande motore che spinge gli uomini gli uni verso gli altri e rendere meno selvaggia e più “umana” l’umanità…

(E. Caruso)

Una delle più grandi crisi di transizione della storia umana

 


Diciamo sempre che il mondo cambia… che è cambiato… che il modo di vivere non è più quello di un tempo… che non si arriva più a fine mese…

Ma quando parliamo di cambiamento, di cosa stiamo realmente parlando? Il più delle volte la gente intende con questa parola solo ciò che la tocca nella immediatezza della vita quotidiana. Ma questo cambiamento è solo la punta dell’iceberg, la superficie sulla quale emergono i “sintomi” di quello che è il vero cambiamento a cui la nostra generazione sta assistendo. In realtà, il vero cambiamento sta avvenendo nelle parti più profonde della coscienza umana e del suo spirito, nelle radici stesse della storia e delle culture. Sta avvenendo dentro di noi e nel grembo del mondo e non ce ne accorgiamo, se non dai “sintomi” che influenzano le nostre abitudini e sicurezze.

Se ci facciamo la domanda: “Ma cosa sta davvero accadendo all’umanità di questa generazione, al di là delle chiacchierate da bar o da salone del parrucchiere?”… Quale sarebbe la risposta. Un amico filosofo, Marco Guzzi, risponde così:

Viviamo tutti insieme, in diretta mondiale, e in simultanea, la più grande, la più profonda, la più radicale, e quindi anche la più sconvolgente trasformazione culturale di cui abbiamo memoria storica. Ma ancora non ne siamo pienamente consapevoli, e sembra anzi che facciamo a gara a distrarcene, a far finta di niente, e ad occuparci di particolari più o meno insignificanti.
Attraverso questo straordinario processo, che è in atto in verità da secoli e che procede negli ultimi decenni con un’accelerazione impressionante, ogni concezione teorica, ogni consuetudine sociale, e ogni prassi consolidata, ma anche ogni struttura istituzionale e forma di aggregazione umana, viene sottoposta ad un travaglio, ad una digestione direi, dopo la quale niente è più come prima
”.

Marco Guzzi nella Rivista “Formazione e Lavoro” – 1/2009

La tentazione del dio fai-da-te per eludere il mistero

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Mosè parla «faccia a faccia» con l’Altissimo, «come uno parla con il suo amico». Intanto, il popolo si prostra davanti «a un toro che mangia erba» (è la bellissima ironia del Salmo 106, v. 20).

Su quello che accadde subito dopo si è soffermata la catechesi che Benedetto XVI ha pronunciato ieri, sul celebre episodio biblico del «vitello d’oro». Il popolo ha ceduto all’impazienza e alla demoralizzazione: «Fateci vedere qualcosa». Non importa se si tratta di qualcosa di meno alto, di meno puro, di meno assoluto del vero Dio. Dateci un pretesto per festeggiare ed essere felici, insomma, e ci basta. Dio non si vede, di Mosè non c’è più traccia. Dateci un dio portabile, una religione sostenibile. Alla tentazione si cede sempre in due: gli umori del popolo che chiede pane e giochi, da una parte, i dispensatori del sacro a buon mercato dall’altra. Storia infinita. I venditori di almanacchi, amuleti, divi fai-da-te, eventi toccare­per- credere, sono sempre pronti. Pensatori di complemento scrivono i testi, arredatori di grido confezionano icone. Un po’ sacre (da conservare un brivido d’infinito), un po’ profane (è la comunicazione, bellezza): con l’uso, la differenza non si vedrà più di tanto. Si comincia con «la materia di cui sono fatti i sogni», si finisce con le cromature di una berlina da brivido. (Questa non mangia erba, mangia strada: ma l’idea è quella). La fede stessa non è mai al riparo da questa debolezza, che induce, nei momenti della stanchezza e della prova quando sembra che più niente cammini davanti a noi, la tentazione di ‘farsi un dio’ più vicino: a costo di mettere i paramenti a un dio di bronzo (che non mangia neppure l’erba).

«È questa una tentazione costante del cammino di fede – dice chiaramente il Papa –: eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti». L’espediente può sembrare persino innocuo, sulle prime: si tratta di venire incontro alla gente, di dare concretezza al mistero. Purtroppo, la deriva di un ‘dio al consumo’ è micidiale: non hai idea di cosa finirà nel catalogo. Un toro, è ancora niente. Di qui, la bellissima ‘collera di Dio’. Passione pura, ogni volta. E struggimento irrevocabile, per questo inizio dell’autodistruzione della creatura. Ma qui viene anche il bello della storia. Sorpresa nella sorpresa, sulla quale insiste astutamente il commento del Papa: riprendendo l’astuzia del testo (che rispecchia, a sua volta, l’astuzia di Dio).

Mosè, che non era certo uno ‘tenero’ col popolo, in quel preciso momento, prende ostinatamente le difese del popolo. «Lasciali perdere – lo provoca Dio – farò di te una grande nazione». «Vuoi che gli altri dicano che hai liberato questo popolo dalla schiavitù – replica Mosè – per poi farli perire fra i sassi del deserto, aggiungendo la beffa all’abbandono?». «È a loro che Ti sei promesso – conclude Mosè – è a loro che devi dare un futuro. Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto». Ragazzi, così si prega, quando ti è affidato un popolo. Questo significa mettersi in mezzo, e ‘fronteggiare’ anche Dio, per amore del popolo. Mosè lo fa, perché sa che il suo azzardo corrisponde esattamente all’intenzione di Dio. In ogni modo, l’azzardo c’è tutto. Il Figlio sigillerà per sempre questo azzardo, conclude il Papa, tra Dio e Dio. Quando erano al sicuro, com’è giusto, Gesù incalzava i suoi discepoli con la richiesta di fedeltà a ogni costo. Nel momento del pericolo reale, però, quando le guardie arrivano, dice: «Lasciateli andare, prendete me». Il popolo è certamente stolto quando cede all’idolo, e chi ne ha cura – non senza essersi purificato fino a togliersi la pelle – deve ruvidamente fronteggiare una simile stoltezza. Ma dalle guide che Dio manda ad ogni generazione – quelle che hanno intelligenza e follia sufficienti per onorare l’incarico – Dio si aspetta che abbiano fegato per fronteggiare anche l’Altissimo, nel momento del pericolo, in favore del popolo. Niente a che vedere, insomma, con ‘gadget’ e ‘grida’ a buon mercato.

Pierangelo Sequeri
Avvenire, 2 giugno 2011

Perché oggi si ha paura di dormire? La paura di incontrarci col nostro profondo

Alcuni stralci di uno dei saggi dell’ultimo numero della rivista «Vita e Pensiero».

di Claudio Risé

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In una società caotica, che ci ha svuotati dello spazio interiore, nel quale potevamo gustare il silenzio e ciò che lentamente nel silenzio nasce e matura…. la vita, la coscienza, la nostra identità, le relazioni umane che ci costituiscono e che ci fanno quello che siamo, la capacità di guardare oltre la materia e contemplare lo spirito… dobbiamo ritrovare quello spazio interiore… Ma soprattutto dobbiamo ritrovare il coraggio di non aver paura di incontrarci con le nostre profondità. Interiorità e Relazione col Mondo non sono in opposizione tra loro. Non sono alternative… sono momenti coessenziali perché l’esperienza della vita acquisti il suo senso più pieno. Cristo ci attende nel profondo di noi stessi e, insieme, nell’incontro con l’altro. E nell’incontro con l’altro io posso, rientrando nelle mie profondità, rielaborare il senso di quello e di tanti altri incontri e dare pieno sviluppo alla mia identità. Nessuno diventa ciò che è da solo, chiuso nelle proprie profonditòà, ma solo se si apre nella relazione con l’altro… col mondo… e col mistero della vita. Ma senza l’incontro con il mio profondo, non ho lo spazio dove elaborare il frutto di questa esperienza. (E.C.)

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Tanto per rimanere vicini a noi, lo sapeva anche Jim Morrison che «nel sonno puoi trovare ciò che il giorno non ti può dare». Eppure il sonno sta diventando più difficile. Secondo il Centro di Medicina del sonno dell’ospedale Niguarda (Milano), un italiano su tre soffre di questi disturbi.

Come mai uno stato da sempre onorato («La metà della vita. E la migliore», secondo Goethe) sta oggi diventando così difficoltoso? Per tentare di rispondere occorre mettere a fuoco qualche caratteristica del sonno. Ad esempio il fatto che il sonno coincida con una sospensione dello stato di coscienza abituale. Si tratta dunque di una condizione che ha a che vedere con la coscienza, non fosse che per il silenzio che essa vi assume. E per il comparire, durante il sonno, nei sogni, di un altro tipo di linguaggio e di scenario, che la psicoanalisi ha chiamato “inconscio”, ma noto da sempre alla gran parte delle culture umane.

I disturbi del sonno, dunque, possono essere osservati come afferenti al rapporto con la coscienza, e più precisamente al suo ritmico avvicendarsi con l’inconscio. Come se l’uomo del nostro tempo faticasse ad affidarsi alla scansione veglia-sonno, coscienza e inconscio; soprattutto, come se non accettasse più la sospensione della coscienza diurna (nella sua forma attuale).

L’uomo sembra temere, oggi in modo particolare, l’ingresso nel sonno, nel sogno, con il suo linguaggio fatto principalmente di immagini, spesso simboliche, e le sue espressioni verbali concise, contratte, evocative. Parole, quelle che si odono tra le immagini del sogno, molto diverse dal “discorso” sulle cose frequentato assiduamente, oggi, dalla coscienza di veglia.

Dietro il contemporaneo “timore di dormire” si intravede la paura di un incontro con un mondo “altro”, innanzitutto rappresentazione dinamica e narrativa degli aspetti dell’umano espulsi dalla vita di oggi, che si ripresentano puntualmente nei sogni.

Non si tratta di aspetti da poco. Nel sonno e nelle immagini dei sogni troviamo ad esempio l’esperienza religiosa e del sacro, che le pretese assolutiste del processo di secolarizzazione hanno cacciato dalla coscienza e dalla vita quotidiana. Dio, gli dèi, le immagini divine differenziate presenti nell’inconscio collettivo, si fanno avanti nei sogni. Con i rispettivi luoghi di culto: la chiesa, il tempio greco, la moschea islamica, la sinagoga e altri appositamente allestiti dall’inconscio del sognatore (la radura nella foresta, la capanna del sudore degli indiani d’America e così via). La psiche, l’anima, di cui la tecnoscienza non vuole parlare, appena la ascoltiamo ci racconta la ricerca dell’Altro. Lo scenario del sogno ci apre un campo ben più ampio della rimozione dei desideri sessuali, collegati ai vissuti interni al “romanzo familiare”, su cui si focalizza la psicoanalisi freudiana.

Nei sogni presentati e interpretati nelle loro pagine, infatti, la vita religiosa e la vita sociale con le loro diverse appartenenze, comunità e gerarchie (non solo la famiglia) compaiono con frequenza, con significati che, al di là delle pulsioni, riguardano l’identità, il destino e il senso della stessa vita personale e del gruppo.

Spesso, anzi, accade il contrario di quanto afferma l’implacabile machine interprétative (così chiamata da Gilles Déleuze e Felix Guattari) freudiana: non sono gli dèi che alludono alla sessualità, ma sono le immagini sessuali che raccontano delle appartenenze e identità sociali, la direzione della vita, l’avvicinarsi della morte.

Qui siamo all’altro grande rimosso dalla coscienza contemporanea, che si teme di incontrare nel sonno. Si tratta delle relazioni e dei rapporti sociali, dell’incontro con l’altro nella società. Quella contemporanea è una società pletorica dal punto di vista burocratico e istituzionale, ma riluttante a riconoscere sentimenti e legami personali.

Già gli studiosi dei fenomeni totalitari del secolo scorso (Lederer o Arendt, tra gli altri) avevano notato come l’annichilimento dell’umano attraverso grandi costruzioni burocratico-politiche (temute da Max Weber all’inizio del Novecento) si sviluppasse con la distruzione delle culture tradizionali fondate sulle credenze religiose, sulle relazioni di territorio e produttive (agricoltura, artigianato e industria, professioni).

La desertificazione sociale che generò i mostri del Novecento ripropone oggi, ma a livello globale, le sue caratteristiche burocratiche e le fantasie di dominio di una tecnoscienza onnipotente che modifichi direttamente le strutture dell’umano, a cominciare dalla persona unica e irripetibile, con le sue relazioni e i suoi sentimenti.

Se nel secolo scorso il Superuomo sarebbe stato costruito dal laboratorio del partito, oggi si delira di un’autogenerazione umana realizzata in parte attraverso il pensiero, in parte in laboratori, che (per ora) verrebbero selezionati dal mercato, come già avviene per le diverse tecniche di fecondazione e riproduzione.

Dopo quella di Dio viene così distrutta l’idea, e la realtà, di “spazio pubblico”: «un luogo in cui le passioni siano rese pubbliche e trasformate sotto la tutela di contenitori collettivi (famiglia, gruppo, comunità, eccetera)», scrive Pietro Barcellona in Il suicidio dell’Europa. Questi luoghi formativi delle relazioni tra persone, costitutivi della società stessa (oltre che del soggetto), vengono sostituiti da aggregazioni virtuali o burocratiche. L’obiettivo non è più la formazione di un soggetto che interagisca positivamente con la comunità, ma il piacere e/o potere di un individuo ormai avulso da relazioni affettive, emozioni e passioni personali, ridotto all’esercizio di funzioni che realizzano piaceri, o poteri, di cui gli altri sono eventualmente oggetto, ma non compagni di avventura.

Lo spazio pubblico sottratto all’uomo a favore dell’interesse “privato” (privo di anima) riprende però forma quando ci addormentiamo, nel sogno che lo ha da sempre accolto in quanto territorio indispensabile allo sviluppo psicologico. Così le figure, i miti, i percorsi simbolici tradizionali delle varie culture, cacciate dalle scuole, dai media, dalle rappresentazioni politiche, insomma dalle istituzioni ufficiali del mondo tecnoscientifico, si ripresentano con inattesa chiarezza nel sogno dell’individuo, spersonalizzato ma oscuramente in cerca della propria anima.

Addormentarsi e sognare diventa, oggi più che mai, un “diventare altro”, frequentare percorsi imprevedibili, penetrare nelle crepe di una superficie sociale scientificamente levigata e ben controllata.

Anche per questo, forse, addormentarsi inquieta. Inoltre, lungi dal limitarsi a essere «la realizzazione di un desiderio», come pensava Freud, già chiuso nella gabbia individualista del Novecento, il sogno presenta il futuro, chiedendone al sognatore il riconoscimento e l’impegno a realizzarlo.

Quando la rabbia divora chi la prova

QUANDO IL DISAGIO SCENDE IN CAMPO

Un sentimento di frustrazione e di esclusione di angoscia e di inutilità, un rancore che apre a un realismo crudele. Forse permette di comprendere se stessi ma a prezzo del più amaro disincanto La collera improduttiva e l´ira dei giusti dal mito alla storia

Hostium rabies diruit, la bestiale violenza del nemico ha distrutto. Così si intitolava una serie di francobolli emessi dalla Repubblica Sociale Italiana, per commemorare la rovina di Montecassino, di san Lorenzo, di santa Maria delle Grazie, e di altri monumenti italiani bombardati dagli alleati. In questo caso, “rabbia” ha a che fare con la bestialità e col furore degli “altri”, dei barbari, con la loro cieca violenza. La rabbia come l´opposto della civiltà, dunque; come ferinità anti-umana; e si deve supporre, che data la sua inferiorità, sarà la rabbia a essere sconfitta. Il che com´è noto non avvenne: non basta definire “rabbiosa” la potenza contro cui combattiamo per poterla vincere – a parte il fatto che solo la propaganda del fascismo repubblicano poteva fingere di ignorare che le responsabilità della guerra, e delle distruzioni, era dei nazisti prima che degli angloamericani; che cioè la rabbia era assai più interna che esterna, che era appunto quella che a suo tempo Petrarca aveva chiamato “tedesca rabbia” –.Ma oltre alla rabbia degli altri, esterna – che a ben guardare è anche interna –, c´è anche una rabbia che nasce e si forma nel cuore della civiltà. Ad esempio, quella dei “giovani arrabbiati” inglesi della metà degli anni Cinquanta, che trova il suo manifesto in Ricorda con rabbia, la pièce teatrale scritta nel 1956 da John Osborne. E qui la rabbia è un sentimento di frustrazione e di esclusione, di inutilità e di angoscia; è un rancore che apre a un realismo crudele. Una rabbia che, forse, fa capire qualcosa di sé e del mondo, ma al prezzo del più atroce disincanto.Ma c´è anche – e soprattutto – una rabbia improduttiva, un risentimento che a lungo consuma internamente l´anima, e che poi esplode in furibonda violenza; la rabbia dei vinti che si ribellano alla sconfitta – ritenuta immeritata – con gesti convulsi, compulsivi, fuori controllo, distruttivi e autodistruttivi; una rabbia impotente, che fa perdere l´umana dignità – che fa andare fuori si sé – senza dare la vittoria. È la rabbia di Capaneo – il re che tentò di conquistare Tebe, e che venne fulminato da Zeus –, che Dante punisce, nell´Inferno, proprio attribuendogli un´eterna rabbia contro Dio.In diverse dosi e percentuali, la rabbia ha in sé la dismisura, l´estremismo, l´inefficacia. Anche se è la reazione comprensibile a un´ingiustizia patita – e posto, quindi, che non sia una manifestazione di comoda cecità davanti alla proprie responsabilità – la rabbia ha un che di autolesionistico; anche se il soggetto che ne è portatore la rivolge all´esterno, per affermare se stesso, in realtà la rabbia colpisce anche chi la prova, manifestandone l´impotenza. Quando la rabbia assume un volto politico è, di fatto, la rivolta da fame, la jacquerie; esplosione di efferata violenza, senza visione e senza prospettive, che in breve implode su se stessa e si consegna alle atroci punizioni del potere. Oppure è la protesta, la pura espressione di un disagio che si sfoga nel semplice manifestarsi, e che quindi è tanto fragoroso quanto inerte. Nata con potenzialità politiche, la rabbia termina nell´impolitica, nell´inefficacia. È un´energia che si spegne subito in entropia.La rabbia è quindi diversa dall´ira. Per quanto anche questa sia una passione violenta, e a volte si rivolga contro se stessa, per quanto smisurata possa essere, l´ira non è solo degli iracondi ma è anche degli eroi, dei magnanimi, dei santi, di Cristo contro i mercanti, di Dio nel Giorno del Giudizio, il Dies Irae. Se la rabbia è un´ira che implode, una pretesa di autoaffermazione che è in realtà passiva, l´ira può essere segno anche di sicurezza: si può essere irati rimanendo in sé. Se la rabbia ha torto, anche quando ha qualche ragione, perché è sempre distorta e contorta, l´ira può essere giusta e retta, cioè non solo giustificata nelle cause ma anche indirizzata a un fine adeguato, con un´azione efficace; se l´ira è terribile, la rabbia è sgradevole (esiste l´ira di Dio, non la rabbia di Dio); se la rabbia è la rivolta autodistruttiva, l´ira è la rivoluzione creatrice di un nuovo ordine – o il riformismo rapido, incisivo, operoso –.Si potrebbe dire che uno dei principali problemi politici in Europa e in Italia, oggi, è decifrare il disagio sociale e civile, nelle sue varie e imponenti manifestazioni, e operare non tanto per spegnere l´energia della rabbia quanto per risparmiarle l´esito impolitico. Per incivilire operosamente il barbaro. Per rovesciare la frustrazione in speranza. Per far sì che chi è fuori di sé rientri in sé, e si metta – anche con la giusta ira – a fare politica.

 

La Repubblica 10 maggio 2012


Siamo nati dall’Amore…. Siamo nati per l’Amore…

SIAMO NATI DALL’AMORE.

SIAMO NATI PER AMORE.

SENZA AMORE L’ANIMA SI PROSCIUGA

E LA NOSTRA VITA LENTAMENTE MUORE.

PERCIO’ VOLGETE LO SGUARDO ALL’AMORE

E A CRISTO, A COLUI CHE E’ LA SORGENTE DELL’AMORE.

ATTINGETE A QUESTA SORGENTE

E ABBIATE LA VITA

E SIATE NELLA GIOIA.

NULLA TURBI IN VOI QUESTA GIOIA.

E QUALUNQUE COSA FATE… O DITE…

FATELO SOLO PER AMORE.

SOLO L’AMORE RICOSTRUISCE IL MONDO.

NON LA RAGIONE, NON LA CONOSCENZA.

NELL’AMORE LA RAGIONE E LA CONOSCENZA

SI TRASFORMANO IN AMORE.

SENZA AMORE SI ABBRUTTISCONO

E ABBRUTTISCONO L’ANIMA.

SOLO L’AMORE SALVA.

IL RESTO E’ MENZOGNA.

 

(E.C.)

La Vita è un Grande Viaggio. È il coraggio di osare e di fare scelte che le dà forma.

La vita di ognuno di noi è un grande viaggio. Ognuno lo compie secondo l’impulso innato del proprio cuore: sarà la fede… Sarà un ideale… Sarà la ricerca di risposte o il bisogno di lasciare un impronta del proprio passaggio prima di consegnare la propria vita all’oblio della morte. Durante questo viaggio ci saranno molti che si lasceranno trascinare dall’onda, ma non sperimenteranno mai la forza della vita in tutto ciò che essa ha da offrire a chi osa aprirsi ad essa.

Ci saranno anche coloro che compiranno questo grande viaggio determinati di trovare la direzione… per trovare il traguardo. E per ognuno vi è un traguardo speciale. Chi avrà il coraggio di mettersi in cammino, di uscire dalla propria zona di conforto, farà delle scelte, correrà dei rischi. A volte sbaglierà strada, cadrà e avrà la sensazione di essersi perso. Arriveranno i momenti temuti di notte oscura in cui tutto sembra essere stato compiuto invano, dove nulla ha avuto senso.

E’ il coraggio di questi momenti, nel fare delle scelte, nell’osare il rischio, che la vita prende forma. Chi possiede questo coraggio non è più forte né meglio degli altri, ma diventa più consapevole e umile, perché ha conosciuto il prezzo della vita. E saranno queste scelte a dare forma alla sua vita, a creare e irrobustire la sua umanità e lo spazio DELL’INTERIORITÀ dove si diventa umani, insieme agli altri e mai come dei solitari. Sarà la capacità di fare scelte, di assumersene la responsabilità e di rialzarsi dopo ogni caduta, riconoscendo con umiltà e onestà anche gli errori, ciò che farà della vita veramente IL Grande Viaggio verso la Meta e che farà di chi lo compie un vero Uomo o Donna.

Per un cristiano questo Grande Viaggio è l’avventura più affascinante, perchè coincide con la ricerca del Padre, e la sua scoperta nell’esperienza dell’incontro con il Risorto, e della esperienza dello Spirito di Dio nell’intimo della propria vita e della propria storia personale e relazionle.

Per un cristiano,

Dio Padre è la nostra Meta, il nostro Traguardo;

Cristo la nostra Via, la Luce che illumina il passo, la Verità che svela la nostra verità;

lo Spirito il vento di Dio che ci sospinge dal di dentro nel Viaggio come le vele di una nave in navigazione.

Beato chi sentirà nella propria vita il Vento dello Spirito…

 

(E.C.)

Dentro la dura notte l’anima chiede salvezza, di Marco Guzzi

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Ecco un passaggio di articolo di Marco Guzzi.

“Il passaggio verso la libertà richiede cioè un profondo abbandono di tutto ciò che la Maschera e l’Ombra ritengono molto importanti, e cioè di tutto ciò che questo mondo ritiene fondamentale e prioritario.

Non ci sono scorciatoie.
Siamo tutti nuovamente di fronte al mistero della conversione liberatrice, tutto da ripensare d’altra parte, tutto da ricomprendere, tutto da realizzare nella sua divina bellezza.
Siamo tutti di nuovo di fronte alla proposta di Cristo, al mistero vivente della sua Nuova Umanità, che ha attraversato tutti i nostri inferi, e ne conosce perciò le vie di uscita, e che possiamo rivestire anche ADESSO: “dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,23).

Marco Guzzi, Dentro la dura notte l’anima chiede salvezza

Martini: senza silenzio non si fa la rivoluzione

Giovedì 08 Marzo 2012 11:51

di Carlo Maria Martini – “Avvenire” del 6 marzo 2012

Tra le molte cose che si possono dire sulla maniera in cui è vissuta oggi la dimensione contemplativa dell’esistenza, viene in mente la disabitudine alla pratica della preghiera e alle pause contemplative. In questo la nostra civiltà occidentale si distingue nettamente dalle civiltà dell’Oriente, dove sono in onore la pratica e le tecniche contemplative e il gusto per la riflessione profonda.

Forse la gente prega e riflette più di quanto non sappia o non dica. Si tratta di aiutarla a dare un nome più preciso, un indirizzo più costante, a certe impennate del cuore che, più o meno intensamente, sono presenti nella storia di ognuno. L’esodo massiccio dalle città nei periodi di vacanza e nei fine settimana esprime in fondo anche questo desiderio di ritorno alle radici contemplative della vita.

Lo sfondo generale lo dà la cultura occidentale attuale, che ha un indirizzo tutto teso al «fare», al «produrre», ma che genera per contraccolpo un bisogno di silenzio, di ascolto, di respiro contemplativo. Sia l’attivismo frenetico sia certe maniere di intendere la contemplazione possono rappresentare una «fuga» dal reale. Per far evolvere questa situazione non basterà risvegliare una ricerca di preghiera, occorrerà anche purificare, orientare certe forme scorrette o insufficienti di ricerca. In particolare occorrerà evitare le contrapposizioni tra azione, lotta e rivoluzione da un lato, e contemplazione, silenzio e passività dall’altro. Bisognerà dare uno specifico orientamento sia all’azione sia alla contemplazione. (…) Va tenuto presente anzitutto il tono esasperato che assumono le contraddizioni della civiltà industriale.

Questo rende ancor più stimolante e profetico il compito di elaborare modelli e forme di preghiera contemplativa per l’uomo d’oggi. Si può ricordare la crisi di certi adulti che, sparite certe forme tradizionali di preghiera legate al ritmo pre-industriale, faticano a trovare nuove forme. Si può ricordare la consolante richiesta di silenzio contemplativo da parte di certi giovani. E la confluenza di più civiltà nella trama internazionale della nostra società. Il confronto con le forme di preghiera provenienti soprattutto dall’Oriente può diventare uno stimolo per una più rigorosa scoperta degli originali valori della preghiera cristiana, sullo sfondo di un dialogo e di un reciproco arricchimento con altre tradizioni. La proposta di riflettere sulla dimensione contemplativa della vita intende provocare il recupero di alcune certezze che hanno patito qualche scolorimento e qualche eclissi: l’importanza del silenzio, il primato dell’essere sull’avere, sul dire, sul fare, il giusto rapporto persona-comunità. Mi pare venuto il momento di ricordare che l’abitudine alla contemplazione e al silenzio feconda e arricchisce, che non si ha azione o impegno che non sgorghi dalla verità dell’essere profondo. L’uomo «nuovo» – cui la fede ha dato un occhio penetrante che vede oltre la scena e la carità, un cuore capace di amare l’Invisibile – sa che il vuoto non c’è e il niente è eternamente vinto dalla divina Infinità. Sa che l’Universo è popolato da creature gioiose, e di essere spettatore e già in qualche modo partecipe dell’esultanza cosmica, riverberata dal mistero di luce, amore, felicità del Dio Trino. Perciò l’uomo nuovo, come il Signore Gesù che all’alba saliva solitario sulle cime dei monti, aspira ad avere per sé qualche spazio immune da ogni frastuono alienante, dove sia possibile tendere l’orecchio e percepire qualcosa della festa eterna e della voce del Padre.