Il sogno infranto di Samia Yusuf, simbolo della tragedia del popolo somalo

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Un viso che trasmetteva bellezza e insieme sofferenza. Aveva solo 17 anni. Aveva partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008. Rappresentava la Somalia. E lo ha fatto in ogni senso. Il suo corpo esile e senza muscolatura, sembrava quasi malato, in confronto a quello delle altre atlete, contro le quali avrebbe corso la gara dei 100 metri. Allo sparo della pistola lei rimane subito indietro a tutte. Il distacco è abissale. Ma Samia corre… corre come se la medaglia che lei deve conquistare non fosse quella d’oro olimpionica, ma quella della speranza di un futuro che in patria le viene negato. In Somalia non aveva né le attrezzature né le condizioni sanitarie per allenarsi e sperare in una gara competitiva. La sua Somalia è prostrata dalla fame. I bambini muoiono di fame ogni giorno.

Quando le altre atlete tagliavano il traguardo, lei era di gran lunga indietro, annaspando, 10 secondi in ritardo rispetto alla vincitrice, che in termini olimpionici significano un’eternità, mentre la platea si alzava in piedi e faceva il tifo per lei. In quel momento, la sconfitta di una ragazza apriva la porta ad un miracolo.

Il popolo cinese si alzava in piedi per rendere omaggio ad un’atleta che non aveva alcuna speranza di vincere, ma che aveva compiuto un grande gesto. Voleva rappresentare la sua Somalia. Lo ha fatto in ogni senso, mostrando al mondo, nella sua carne fiacca, le condizioni disperate di un popolo ridotto alla fame, e la voglia di vivere, non solo sua, ma del suo popolo.

La sua vicenda non termina a Pechino. Termina al largo di Malta, su un barcone, dove troveranno esanime il suo cadavere. All’inizio del 2012 lascia la Somalia per attraversare l’Etiopia, il Sudan, la Libia e tenta la traversata per raggiungere l’Europa, nella speranza, da quanto dicono le fonti, di trovare un allenatore e partecipare alle olimpiadi di Londra. Morirà a largo delle coste di Malta su un barcone pieno di immigrati clandestini.

La sua storia diventa simbolo della tragedia di un popolo. Ma nel nostro tempo e nel nostro mondo globalizzato non esiste tragedia di un popolo che non sia tragedia di tutta la famiglia umana. Samir ha perso la sua corsa. E in lei ha perso tutta quella parte di umanità che è annegata lungo le coste del primo mondo, in cerca di salvezza. Abbiamo perso tutti. Tuttavia, è una sconfitta che può trasformarsi in una occasione di riflessione, e di conversione. Si può fare… per Samir… per tutti coloro che sono morti c0me lei… per tutti coloro che gridano al mondo opulento d’Occidente e chiedono aiuto… Si può fare. Un mondo migliore è possibile. Deve nascere prima nei cuori e poi nei programmi politico-economici. Ma se non nasce nei cuori. Sarà di nuovo una sconfitta. E avremmo perso di nuovo. Perché senza l’amore un mondo migliore non sarà possibile.

(EC)

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di Juan José Mateo

Duran Farah, presidente del Comitato Olimpico somalo, ricorda la connazionale Samia Yusuf, atleta annegata mentre cercava di sbarcare in Italia.

Quattro anni prima di morire annegata durante un viaggio su un barcone con destinazione Italia, la velocista Samia Yusuf ha sfilato alla cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Pechino, nei quali Duran Farah, campione somalo, era per lei un punto di riferimento.
I due hanno vissuto quei giorni estasiati davanti alla magica struttura del Cubo d’Acqua, che accoglie le gare di nuoto; sorpresi per il gigantesco Nido d’Uccello, la casa degli atleti; pieni di progetti, di sogni, come chi si sente all’inizio di qualcosa di grande.
Il ritorno nella Somalia devastata dalla guerra è stato più che inciampare contro la dura realtà. Samia ha finito per emigrare in Etiopia. Poi in Sudan. Più tardi in Libia. Sempre cercando di raggiungere il paradiso dell’Italia. Fino a quando non è morta affogata. Farah rimane nel suo Paese. Diventa presidente del Comitato Olimpico grazie a un decesso. «Lo hanno ucciso in un attacco terroristico», racconta a proposito del suo arrivo alla presidenza del Comitato Olimpico del suo paese, riferendosi a Aden Yabarow Wiish, il predecessore morto in un attentato terroristico suicida ad aprile.

«Samia era giovane e in gamba. Una ragazza talentuosa che voleva competere e rappresentare la Somalia. È fuggita da quel paese», si lamenta Farah, in inglese e per telefono, mentre sale su un aereo. «In Somalia non c’è speranza per i giovani. Non esiste un’istruzione, non c’è futuro. Non c’è niente per cui guardare avanti. Per questo molti partono» e, continua, «Samia era una di questi giovani che decidono di andarsene. Decise di lasciare il Paese. Sfortunatamente è finita in una situazione molto difficile, critica, che riguarda anche tanti altri giovani della sua età; e quattro mesi fa, mentre stava cercando di attraversare il Mediterraneo, è annegata insieme ad altri».

Un padre assassinato. Il piatto vuoto sul tavolo come unica certezza quotidiana. I fucili di tutte le fazioni coinvolte nella guerra di Somalia disposti, ogni giorno, a tagliare la strada alle formazioni nemiche. Insulti. Grida. Rapine. La condizione della donna è uno strazio.
Tutto questo spinge la velocista specializzata nei 200 metri verso un viaggio pericoloso: prima cerca migliori impianti e allenatori in Etiopia, poi attraversa il continente alla ricerca del barcone che la porti in Italia.
Samia aveva terminato ultima la sua corsa a Pechino. Il pubblico l’aveva incoraggiata in piedi applaudendola, anche se arrivata 10 secondi dopo la vincitrice. Sebbene avesse apprezzato il gesto, la somala affermò che la scena aveva attivato il suo motore competitivo: voleva gli applausi, ha sostenuto, ma tagliando il traguardo per prima. Il viaggio è terminato nel Mediterraneo con Lampedusa a vista di binocolo, benché il Comitato Olimpico Internazionale non abbia ancora confermato ufficialmente la sua morte. In realtà tutto è cominciato a Pechino, quando Samia ha iniziato a cercare un posto che avrebbe potuto offrirle le attrezzature tecniche che dessero forma al suo sogno.

«Le condizioni di allenamento in Somalia sono pessime», afferma Farah. «Abbiamo un solo stadio in tutto il paese per allenarci. Una sola struttura adeguata, una singola pista di atletica in tutto il paese! E’ facile capire quanto sia difficile allenarsi in questo tipo di situazione», prosegue. «Non vi è alcun budget. Nessuna risorsa. In realtà è più difficile allenarsi per le donne come Samia», aggiunge, «è molto più difficile per le bambine rispetto ai maschi. Questo ha a che fare con la società somala, per la maggior parte musulmana. Ci sono persone a cui non piace vedere le bambine che corrono per le strade o indossano gioielli, e loro stesse si accorgono della disparità di trattamento».

I quattro anni trascorsi tra i Giochi Olimpici di Pechino 2008 e quelli di Londra 2012, ai quali mirava la defunta, hanno segnato pesantemente il volto di Farah. Nelle fotografie dell’ultima olimpiade, l’attuale presidente del Comitato Olimpico somalo non ha nulla a che vedere con l’atleta che quel giorno del 2008 ha salutato il mondo, molto orgoglioso di portare la bandiera del suo paese, mentre la seguiva una ragazza di 17 anni, magra, senza alcuna traccia di braccia muscolose e gambe scolpite in palestra, caratteristiche che contraddistinguono i velocisti.
«Quel giorno, Samia lo apprezzò», ricorda Farah. «Era la prima volta che lasciava la Somalia e si trovava in un posto così grande come quello stadio così bello. Era così eccitata. Pensava che quello fosse l’inizio di molte cose buone che le sarebbero accadute».

Juan José Mateo.
Articolo originale su El País, traduzione di Cristian Zinfolino

Da http://www.informarexresistere.fr/2012/08/23/il-sogno-infranto-di-samia-yusuf/#axzz256gZ0kVY

Tratto da: Il sogno infranto di Samia Yusuf | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/08/23/il-sogno-infranto-di-samia-yusuf/#ixzz256hgY7zZ
– Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!

 

 

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