C’è un aspetto della visita di Papa Francesco in Sudamerica poco raccontato dai media occidentali. La presenza del Capo della Chiesa infatti, al di là degli incontri ufficiali e delle parole di benvenuto, ha di fatto evidenziato l’enorme distanza esistente a volte tra l’anelito di equità cercato delle popolazioni e l’effettiva possibilità di manifestare il proprio pensiero.
Francesco ha sottolineato con forza l’errore di un sistema basato sul profitto:“Il futuro dell’umanità è nelle mani dei più umili – ha detto – nella loro capacità organizzare e nella ricerca collettiva delle tre T: Terra, Tetto, lavoro (Trabajo, in spagnolo)”. Allo stesso tempo, ha sottolineato con forza: “E Gesù si rivolge ancora una volta a parlarci e dice ‘Non c’è bisogno di escluderli, date loro voi stessi da mangiare. Niente più scarti!”. Lo ha fatto ad esempio in Bolivia, in un incontro a Santa Cruz de la Sierra, chiedendo ai movimenti popolari costituiti da artigiani, contadini, operai e indigeni di “combattere contro il sistema che impone profitti a ogni costo”.
Parole sottolineate dagli applausi della folla e dai sorrisi delle autorità. Ma questo discorso che esalta le sfide dei movimenti di lotta sociale, in realtà non è particolarmente gradito a chi comanda. Certi temi, meno si affrontano e meglio è. Lo si è visto da come sono state bloccate alcune possibili espressioni di dissenso, proprio dei movimenti popolari. In occasione dell’arrivo in Paraguay, ad esempio, è stata vietata l’esposizione di striscioni che riguardassero temi sgraditi: niente riferimenti ai contadini senza terra, nessuna possibilità di sottolineare le lotte sociali. Persino il dibattito sull’aborto – sia dei gruppi favorevoli come di quelli contrari – non è stato permesso. Altro che libertà di pensiero, altro che occasione per evidenziare i grandi problemi della società sudamericana. L’ordine è stato: non parlare. Uno schiaffo per coloro che condividono le idee del Papa sul cambiamento di cultura e mentalità, sulla necessità del dialogo.
Certo un atteggiamento delle autorità molto distante dalle esortazioni di Bergoglio, quando afferma: “Vogliamo un vero cambiamento, un cambiamento delle strutture, di questo sistema che cerca profitto ad ogni costo e che io chiamo ‘il letame del diavolo’; non ce la facciamo più, non ce la fanno più né i lavoratori, né i contadini né la Madre Terra”. In sostanza, c’è da cambiare uno stile di vita, ed è un compito che spetta primariamente ai governi.
La protesta prova comunque a farsi sentire: contadini, lavoratori e studenti hanno annunciato manifestazioni in coincidenza della visita. Ma saranno relegati lontano dal percorso del Santo Padre, dunque anche da telecamere e visibilità. Se i media occidentali non si accorgeranno di loro, resterà un grido muto.
Unica concessione: un incontro ufficiale con alcune selezionate organizzazioni, nel secondo giorno di permanenza in Paraguay. La manifestazione, quella vera, può attendere.
Ultimamente una grande questione divide politici, intellettuali, associazioni e gente comune: l’esistenza della cosiddetta “teoria gender “. E di conseguenza, se sia reale o meno la sua introduzione nelle scuole di ogni ordine e grado.
Gender o no gender, questo è il problema.
I negazionisti del gender sostengono che la famosa “teoria” sia in realtà una invenzione di coloro che pretendono di combatterla. Forse perché questi ultimi interpreterebbero male i cosiddetti “studi di genere”. Forse perché deformerebbero volontariamente certe visioni, attribuendole al variegato mondo LGBT, in modo da avere nemico più facile da combattere e da demonizzare (il noto argomento dell’”uomo di paglia”).
Alcuni si spingono fino a dire che la teoria di genere sarebbe stata creata, per le finalità di cui sopra, in qualche stanza segreta del Vaticano …
Visto che l’argomento è di grandissimo interesse, è venuto il momento di fare un tentativo di esporre in modo più chiaro possibile le ragioni che stanno dietro alla posizione di chi sostiene l’esistenza della teoria e denuncia il fatto della sua promozione da parte di alcune istituzioni e all’interno di alcune scuole.
Divideremo l’esposizione in tre parti:
Cosa intendiamo con l’espressione “teoria gender”?
Esiste tale teoria (altrove che nella mente di coloro che pretendono di combatterla)? viene promossa da qualche istituzione?
La teoria di genere viene introdotta in qualche modo nelle nostre scuole?
Parte I. Cosa intendiamo con l’espressione “teoria gender”?
Sembra che l’espressione non sia univoca e non sia sempre descritta negli stessi termini anche da coloro che la criticano. Bisogna stare attenti a non semplificare eccessivamente i termini della questione. Ad esempio, dire che “la teoria gender elimina ogni differenza tra maschio e femmina” oppure che per essa “non esiste il sesso ma il genere”, sarebbe semplicistico e impreciso.
Alcuni obiettano, come accennato, che in ogni caso si deve parlare solo di “studi di genere” e non di “teoria” di genere.
In verità, non si capisce il perché di tutta questa avversione per il termine “teoria”. Sarebbe infatti inverosimile ritenere che gli “studiosi” di genere si limitino a “studiare” e non abbiano avanzato nessuna tesi organica, nessun insieme di conclusioni coerente, nessuna (appunto) teoria.
Per il vocabolario Treccani, una “teoria” è una “Formulazione logicamente coerente di un insieme di definizioni, principî e leggi generali che consente di descrivere, interpretare, classificare, spiegare, a varî livelli di generalità, aspetti della realtà naturale e sociale, e delle varie forme di attività umana. In genere le teorie stabiliscono il vocabolario stesso mediante il quale descrivono i fenomeni e gli oggetti indagati …”.
Altri vocabolari danno definizioni ancora più ampie: “modo di pensare, opinione, pensiero; idea, concezione …”.
Ora, come vedremo, coloro che coltivano o applicano gli studi di genere formulano una serie di definizioni(“genere”, “identità di genere”, “ruolo di genere”, ecc.), di principi (distinzione tra sesso e genere, derivazione culturale del genere, prevalenza dell’identità di genere, ecc.) che consentono a loro avviso di interpretare aspetti della realtà naturale e sociale e delle attività umane (differenze/disparità tra donne e uomini, discriminazioni di genere, stereotipi di genere, transizioni di genere, ecc.).
Dunque, una teoria, o delle teorie.
Questa teoria o queste teorie, vengono denominate “di genere” (o “gender”, dal termine inglese) perché si basano sulle nozioni di “genere”, come distinto dal sesso biologico, di “identità di genere”, di “ruolo di genere”, ecc. In modo analogo, dal punto di vista linguistico, si parla di teoria “dell’evoluzione” perché si basa sul concetto dell’evoluzione delle specie, o di teoria della “relatività” perché si basa sulla relatività dello spazio/tempo, ecc.
E’ quindi corretto dal punto di vista linguistico, e coerente dal punto di vista logico, parlare di “teoria/teorie di genere”.
Si può riconoscere che non tutti quelli che applicano gli “studi di genere” hanno esattamente la stessa visione su tutte le questioni. Da questo punto di vista sarebbe forse più proprio parlare di “teorie di genere” al plurale.
Nonostante ciò il ricorso all’espressione singolare “teoria di genere” rimane legittimo perché è possibile individuare un “nucleo duro” sotto le diverse prospettive. In modo simile si parla ad esempio di “teoria dell’evoluzione” al singolare, malgrado la indubbia diversità di “teorie” sui meccanismi o sulla storia dell’evoluzione delle specie, poiché alcuni concetti e principi di fondo rimangono gli stessi (ad esempio il fatto e la possibilità della transizione naturalistica da una specie all’altra).
Mutatis mutandis, anche le teorie di genere hanno un fondamento comune: la teoria gender ha il suo “cuore” che giustifica l’utilizzazione dell’espressione al singolare.
La teoria prende le mosse dalla distinzione tra sesso biologico e “genere”. Questa prima distinzione è importante. Infatti il “genere” non ha una derivazione naturale-biologica ma culturale, e si potrebbe definire come un insieme di ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini.
La teoria di genere, anzitutto, riduce drasticamente (fino ad annullare) il peso che ha il sesso biologico nella determinazione dei ruoli, comportamenti e attributiche vengono considerati appropriati per uomini e donne. Proprio perché questo insieme di ruoli, comportamenti e attributi costituisce il “genere”, ed esso è un fatto di culturanon di natura. Nelle sue forme più pure, la teoria considera che nessun ruolo, comportamento o aspetto psicologico, considerato tipico degli uomini o delle donne, trovi una base reale nella natura sessuata dell’essere umano.
Il sesso biologico sarebbe (o dovrebbe essere) sostanzialmente indifferente rispetto alla costruzione dell’identità psicologica e del ruolo familiare e sociale di una persona.
Si introduce quindi la definizione di “identità di genere”, cioè la percezione profonda che un soggetto ha di appartenere a un genere piuttosto che a un altro (uomo, donna, o di solito, anche altri), indipendentemente dal proprio sesso biologico. A questa identità di genere (anche questo è un punto essenziale della teoria) si attribuisce una certa prevalenza sul sesso biologico.
Questa prevalenza dell’identità di genere sul sesso biologico non è da tutti intesa allo stesso modo: per alcuni (più radicali) sarebbe solo l’identità di genere e non il sesso biologico che permetterebbe di rispondere alla domanda “Sono uomo? Sono donna? (Sono altro?)”. In altre parole basterebbe l’auto-percezione di essere donna/uomo/altro, per essere veramente donna/uomo/altro, anche se il sesso biologico indica il contrario. In questa prospettiva l’identità “transgender” (identità di genere contrastante con il sesso biologico) non viene considerata come intrinsecamente problematica, e infatti molti ne auspicano la depatologizzazione, richiedendo la rimozione della “disforia di genere” dalle classificazioni nazionali e internazionali di patologie.
Per altri invece (forse meno radicali) il contrasto tra identità di genere e sesso biologico rimane un problema, ma questo problema si deve risolvere a beneficio dell’identità di genere. In altre parole, in casi di disforia di genere, il problema non si risolverebbe aiutando la mente a armonizzarsi con la realtà corporale, ma all’opposto modificando il corpo perché si accordi il più possibile con la percezione psicologica. Si tratta in questo caso non tanto della normalizzazione del “transgenderismo” (come nella prima prospettiva) ma della normalizzazione del “transessualismo”. In entrambi i casi però ritroviamo la prevalenza dell’identità di genere sul sesso biologico.
Alcune delle conseguenze immediate di questi principi generali della teoria gender, che si ritrovano sostanzialmente in tutte le sue forme, sono le seguenti:
– essendo il sesso biologico praticamente ininfluente dal punto di vista psicologico e sociale, anche nella società familiare il sesso biologico è indifferente. Infatti proprio l’ambito della famiglia è quello maggiormente toccato dalla teoria gender, in quanto esso rappresenta (secondo una corretta impostazione antropologica e morale) il contesto sociale in cui il sesso biologico ha (e dovrebbe avere) maggiore rilevanza. Secondo la prospettiva gender sarebbe quindi indifferente che la famiglia sia composta da un uomo e da una donna, oppure da due uomini o da due donne.
– i comportamenti e i ruoli tipicamente maschili e femminili sono tendenzialmente tutti considerati “stereotipi”. Qui è bene intendersi: riconosciamo senza problemi che esistono stereotipi negativi che riguardano il maschile e il femminile (ad esempio il modello di uomo e donna della TV e della pubblicità: donna magra, sexy, che vale solo per le sue apparenze fisiche; uomo muscoloso, infedele, ecc.). Il problema è che la teoria di genere, volendo (o pretendendo) di combattere i cattivi stereotipi, finisce per cadere nell’estremo opposto: tutti i ruoli e comportamenti “maschili” e “femminili” sarebbero stereotipi culturali, imposti dalla società o dalla famiglia, da decostruire.
A questo punto comincio già a sentire l’obiezione, l’eterno ritornello: “Tutto questo l’avete inventato voi!”.
In effetti, non ho ancora mostrato che tutta questa “bella” teoria viene promossa e applicata per davvero, addirittura da importanti enti ed istituzioni. Forse è tutta una invenzione degli integralisti pro-life, medievali e complottisti (nonché omofobi e transfobici).
Parte II. Esiste la teoria gender? viene promossa da qualche Istituzione?
Premessa: cercheremo di procedere in modo rigoroso, rimandando ove possibile ai documenti autentici e ufficiali. In questa seconda parte mostreremo come la “teoria gender”, espressione di cui abbiamo spiegato la legittimità e il significato nella prima parte, esista effettivamente, e non solo nelle menti di coloro che la denunciano e pretendono di combatterla. Anzi, viene elaborata o promossa non solo da alcuni ideologi o “studiosi di genere”, ma anche da importanti istituzioni.
Riscontreremo negli atti e documenti istituzionali, e nei progetti destinati alle scuole, le definizioni e i principi propri della teoria gender, oppure anche le conseguenze teoriche e pratiche in quanto derivano o sono collegate contestualmente a quelle definizioni e a quei principi.
le definizioni di “genere” (distinto dal sesso biologico) e di “identità di genere”;
il principio della sostanziale indifferenza del sesso biologico rispetto alla costruzione dell’identità psicologica e del ruolo familiare e sociale di una persona;
il principio della prevalenza dell’identità di genere sul sesso biologico;
… e alcune delle conseguenze tipiche della teoria, che spesso si ritrovano nei documenti, in quanto collegate ai suddetti principi e definizioni:
la qualificazione come stereotipi culturali di genere di praticamente tutti i comportamenti e i ruoli considerati tipicamente maschili o femminili;
la normalità e promozione delle diverse famiglie omogenitoriali;
la normalità e promozione dei diversi orientamenti sessuali (in particolare l’omosessualità).
Cominciamo con le citazioni di alcuni autori, studiosi di genere, senza avere la pretesa di esporre nemmeno parzialmente la storia della teoria di genere.
Nel 1955 i medici John Money, Joan Hampson e John Hampson, della John Hopkins University, introducono nella letteratura medica il termine “gender”. Money, nel suo Amore e mal d’amore (Feltrinelli, Milano 1983, p.298-299) formula le seguenti definizioni: il “genere” è “stato personale, sociale e legale di maschio, femmina o misto definito in base a criteri somatici e comportamentali più generali del semplice criterio genitale. (…) L’identità di genere è il vissuto privato del ruolo di genere, il ruolo di genere è la manifestazione pubblica dell’identità di genere di maschio, femmina o di individuo ambivalente (…) quale viene vissuta in particolare nell’immagine di sé e nel comportamento”. Ancora: “L’identità / ruolo di genere comprende tutto ciò che ha a che fare con le differenze comportamentali e psicologiche tra i sessi, indipendentemente dal fatto che siano intrinsecamente o estrinsecamente legate ai genitali”(p. 32-33).
Famoso è l’esperimento condotto da J. Money sui gemelli Reimer proprio per dimostrare l’assunto che il “gender”, comprendente gli aspetti psicologici, comportamentali e sociali, sarebbe una costruzione puramente culturale e sociale, indipendente dal sesso biologico. Non ci soffermiamo sulla questione, trattata tante volte su questo sito.
Su questa linea di pensiero si innesta a un certo punto la cultura femminista più radicale. Simone de Beauvoir, pronuncia quelle parole ormai famose, nel Secondo sesso (Il Saggiatore, Milano 2002, p.325): “Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna.”
Particolarmente esplicito è il pensiero della femminista Shulamith Firestone, nella Dialettica dei sessi (Guaraldi, Firenze 1974, p.12): “Il fine ultimo della rivoluzione femminista non consiste nell’eliminazione dei privilegi, ma nella stessa cancellazione delle distinzioni tra i sessi (…) Si ci sbarazzassimo della famiglia ci sbarazzeremmo anche delle repressioni che vedono la sessualità posta in formazioni specifiche. (…) Il nostro passo finale deve esserel’eliminazione della stessa condizione di femminilità e di infanzia.”
Sempre nel contesto del femminismo, concetti tipici del pensiero gender si trovano anche nel Cyborg Manifesto (1985) di Donna Haraway: “Non c’è nulla nell’essere “femmine” che vincoli naturalmente le donne. Non esiste nemmeno qualcosa come “essere” femmine, in sé una categoria altamente complessa, costruita da controversi discorsi scientifici sulla sessualità (…) La consapevolezza del genere, della razza o della classe è qualcosa che ci viene imposto dalla terribile esperienza storica delle contraddittorie realtà sociali del patriarcato, del colonialismo e del capitalismo” (traduzione mia: cercare testo “There is not even such a state” al seguente link).
Una forma più matura della teoria la troviamo negli scritti di Judith Butler (nata nel 1956, ancora in vita), tra i più importanti esponenti contemporanei della “Gender Theory” e della “Queer Theory”. In Gender trouble. Feminism and the subversion of identity (Routledge, New York 2007, p.7) afferma: “Il genere è costruito socialmente, non è né il risultato casuale del sesso né sembra essere fisso come il sesso. Se il genere rappresenta il significato culturale che assume il corpo sessuato, allora non si può più dire che il genere derivi dal sesso in nessun modo. Portata alle logiche conseguenze, la distinzione sesso/genere suggerisce una discontinuità radicale tra i corpi sessuati e i generi costruiti socialmente.”
In una intervista del 2013 al Nouvel Observateur, Judith Butler precisa di non aver inventato lei gli “studi di genere” e aggiunge: “La nozione di “genere” viene utilizzata dopo gli anni 1960 negli Stati Uniti in sociologia e antropologia. In Francia, in particolare sotto l’influsso di Lévi-Strauss, si è preferito per lungo tempo parlare di “differenze sessuali”. Negli anni ’80 e ’90, l’incrocio tra la tradizione antropologica americana e lo strutturalismo francese ha fatto nascere la teoria di genere (…) Noi non abbiamo mai una relazione semplice, trasparente e innegabile con il sesso biologico. Dobbiamo passare attraverso un quadro discorsivo, ed è questo il processo che interessa la teoria di genere [théorie du genre].”
Noto en passant che nel mondo anglosassone e francese, i cultori degli studi di genere (si veda per altri esempi qui e qui) non si fanno tanti problemi a utilizzare l’espressione “gender theory”, “théorie du genre” (cioè “teoria di genere”) o “gender theorist”(“teorico di genere”), contrariamente a quel che succede da noi dove, per motivi misteriosi e ingiustificati, l’espressione viene rifiutata quasi con orrore (spesso proprio da coloro che la promuovono).
Col passare degli anni e a causa di meccanismi che non ci interessa in questo momento approfondire, queste tesi vengono recepite in documenti provenienti da istituzioni internazionali e nazionali. Limitiamo il nostro discorso ai tempi più recenti.
Tra i documenti internazionali che introducono abbastanza chiaramente la prospettiva gender possiamo sicuramente menzionare la Convenzione di Istanbul del 2011. Il tema affrontato è quello del contrasto della violenza contro le donne, finalità ovviamente condivisibile. Tuttavia questa finalità viene attuata in un contesto che risente della teoria di genere e delle posizioni del femminismo radicale. Nel preambolo si legge: “Riconoscendo la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere, e riconoscendo altresì che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”. A scanso di equivoci si definisce il termine “genere”: “Articolo 3. Definizioni. (…) (c) con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini”. Inoltre si precisa all’art. 4 che l’attuazione delle disposizioni della Convenzione “deve essere garantita senza alcuna discriminazione fondata sul sesso, sul genere, sulla razza, sul colore (…) sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere, ecc.”
Il documento internazionale che forse più chiaramente promuove la teoria di genere è una recente Risoluzione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, approvata lo scorso 22 aprile 2015, intitolata: “Discriminazione contro le persone transgender in Europa“. Al paragrafo 6.2.1 della Risoluzione si chiede agli Stati di prevedere“procedure rapide, trasparenti e accessibili, basate sull’autodeterminazione, per cambiare il nome e il sesso anagrafico delle persone transgender sui certificati di nascita, carte d’identità, (ecc. …)”. A paragrafo 6.2.4 si chiede agli Stati di “considerare l’introduzione di un’opzione al terzo genere sulle carte d’identità per coloro che lo richiedono”. Al 6.3.3 si chiede di “correggere le classificazioni di patologie utilizzate a livello nazionale e promuovere la revisione delle classificazioni internazionali, in modo da garantire che le persone transgender, inclusi i bambini, non siano considerati come affetti da patologia mentale“.
La Risoluzione chiede, in sostanza, che venga depatologizzata la “disforia di genere”: infatti secondo l’interpretazione più estrema (e pura) del principio dell’indifferenza del sesso biologico, il contrasto tra questo e l’identità di genere non è necessariamente problematico, perché il sesso biologico è indipendente dal profilo psicologico. L’identità transgender non sarebbe patologica. Inoltre per (l’interpretazione più radicale del) principio della prevalenza dell’identità di genere sul sesso biologico, la sola identità di genere sarebbe sufficiente per essere pubblicamente identificato in base al genere percepito (attraverso delle procedure legali rapide e semplici basate sulla autodeterminazione, auspicate dalla Risoluzione), nonostante il sesso biologico contrario.
La Risoluzione ci regala un’altra perla gender. Al paragrafo 5: “L’Assemblea guarda con favore all’emergere deldiritto all’identità di genere, per prima riconosciuto nella legislazione di Malta, che assicura a ogni individuo il diritto al riconoscimento della propria identità di genere, e il diritto a essere identificati e trattati in armonia con questa identità“. A quanto pare, emerge un nuovo diritto umano all’identità di genere. Concretamente, se, ad esempio, una persona che è geneticamente, morfologicamente, neurologicamente, insomma, biologicamente uomo, si percepisse come “donna” (identità transgender), avrebbe il diritto di essere riconosciuto e trattato da tutti come donna. Altrimenti si commetterebbe nei suoi confronti una “discriminazione” sulla base dell’identità di genere e una violazione del nuovo diritto umano (emergente).
Chiarissimo. Per rendere il tutto ancora più chiaro, si può anche consultare il Rapporto esplicativo della Risoluzione che a p.5 ci fornisce tutte le definizioni necessarie (“transgender”, “identità di genere”, ecc.). Il rapporto nota con grande soddisfazione (p.13, n. 57) che l’11 giugno 2014 il Parlamento danese ha approvato delle procedure di riconoscimento del genere che hanno reso la Danimarca “il primo paese in Europa a basare il riconoscimento legale del genere esclusivamente sull’autodeterminazione della persona transgender.”
E’ interessante rilevare che su 7 rappresentanti italiani al Consiglio d’Europa, ben 6 hanno votato a favore si questa Risoluzione ispirata alla più pura teoria del gender (vedi a questo link). Solo un voto contrario. Tutti sono anche deputati o senatori nel Parlamento italiano (due del Pd, tre del M5S; unico voto contrario di un senatore della Lega Nord).
Queste posizioni dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa costituiscono la recezione a livello istituzionale di tesi promosse da associazioni LGBT, o specificamente transgender (come “Transgender Europe“), ma anche da rilevantissime associazioni che operano a livello internazionale per i cosiddetti “diritti umani”.
Si pensi a Amnesty International:questa associazione promuove da anni le tesi più radicali della teoria gender. Per convincersene basta leggere la “Dichiarazione programmatica di Amnesty International sui diritti delle persone transgender“. In questa dichiarazione troviamo tra l’altro una definizione particolarmente ampia di “transgender” (p. 1): “persone la cui identità di genere e/o espressione di genere è differente dalle aspettative convenzionali basate sul sesso biologico assegnato loro alla nascita (…) non tutte le persone transgender si identificano come maschi o femmine; il termine transgender può comprendere persone che appartengono al terzo genere, nonché persone che si identificano con più di un genere o con nessuno (…) Questa definizione include, tra le altre, persone transgender e transessuali, travestiti, crossdresser, no gender, liminal gender, multigender e queer, nonché persone intersessuate e dal genere variabile…”.
Tutti questi “gender”, del resto, sarebbero perfettamente normali e non patologici, in quanto anche Amnesty (a p. 5 e 6) promuove la depatologizzazione di ogni identità transgender. Il documento ovviamente dà per scontata l’assoluta normalità delle famiglie omogenitoriali e dell’orientamento omosessuale (che possono derivare del resto da una transizione di genere).
E’ indicativo che questo documento gender di Amnesty sia reperibile alla sezione “risorse utili” del sitodedicato alla scuola(nel contesto del progetto “Scuole attive contro l’omofobia e la transfobia”). Approfondiremo quest’aspetto nella terza parte del nostro studio.
La teoria gender, promossa a livello internazionale, non poteva che introdursi in qualche modo, sia per via culturale che istituzionale, anche in Italia.
Lasciando da parte per il momento le associazioni, a livello istituzionale non si può non menzionare l’attivismo dell’UNAR in questo senso. L’UNAR è l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, istituito con decreto legislativo del 9 luglio 2003, n. 215, all’interno del Dipartimento delle Pari Opportunità (Presidenza del Consiglio dei Ministri). Nonostante il nome (e il principio di legalità) l’UNAR si occupa spesso di questioni LGBT e ha emanato diversi documenti ispirati alla teoria gender.
Anzitutto le definizioni (a p. 7: identità di genere, ruolo di genere; e poi nel glossario da p. 24: transgender, queer, omonegatività, ecc.). La definizione di “identità di genere” a p. 7 fa già capire l’adesione al principio dell’indifferenza del sesso biologico, rispetto a ciò che costituisce l’uomo e la donna nel senso più profondo, e al principio della prevalenza dell’identità di genere sul sesso biologico: “Identità di genere è il senso intimo, profondo e soggettivo di appartenenza alle categorie sociali e culturali di uomo e donna, ovvero ciò che permette a un individuo di dire: “Io sono un uomo, io sono una donna”, indipendentemente dal sesso anatomico di nascita.”
Il secondo principio è ancora esemplarmente espresso alla p. 12, rispetto al caso della transessualità: “Per la transessualità vale il principio dell’identità. Se la persona di cui si parla transita dal maschile al femminile, non importa in che fase della transizione si trovi, né se si sta sottoponendo all’iter della riassegnazione chirurgicadel sesso, se lei sente di essere una donna va trattata come tale. Lo stesso vale per la transizione female to male”.
Pure le conseguenze della teoria gender sono palesi nelle “Linee guida”: la promozione dei modelli familiari omogenitoriali è evidente dalle pp. 14 a 18, e la normalizzazione dell’omosessualità (e della transessualità) si rileva in tutto il documento. Anche la considerazione dei comportamenti tipicamente maschili o femminili come meri stereotipi che non hanno mai una base naturale ma sarebbero solo costruzioni sociali, si riscontra ad esempio nella definizione di “ruolo di genere” alle pp. 7-8.
Lo stesso UNAR ha emanato la famosa “Strategia nazionale per il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”. Questa riguarda anche la scuola, ed è quindi oggetto della terza e ultima parte di questo studio. Parte in cui mostreremo come, anche in Italia, la teoria gender si sia infiltrata all’interno del sistema scolastico: strategie nazionali, progetti, materiale didattico, fiabe per bambini.
Solo educazione al rispetto delle diversità, contro il bullismo e le discriminazioni, oppure promozione della teoria gender?
Parte III. La teoria gender viene introdotta in qualche modo nelle nostre scuole?
Molte direttive, iniziative e progetti rivolti alle scuole hanno per oggetto l’educazione alla parità di genere, la lotta al bullismo omofobico, il contrasto alle discriminazioni, l’educazione al rispetto delle diversità. Queste finalità potrebbero apparire condivisibili. Tuttavia, molti denunciano il fatto che i mezzi indicati per raggiungere finalità come la lotta al bullismo e il rispetto delle diversità si ispirino alla teoria gender, così come sarebbe ispirato al gender il quadro teoricosottostante. Infine le finalità stesse sarebbero almeno parzialmente viziate da un riferimento di natura ideologica.
Vediamo dunque se le definizioni, i principi e le conseguenze della teoria gender si possono riconoscere in alcuni progetti destinati alle scuole, di ogni ordine e grado: progetti che qualche volta sono stati già applicati, altre volte sono stati solo proposti.
Si tenga a mente che, nelle scuole, l’infiltrazione della teoria gender sembra avvenire a volte in modo più subdolo e meno chiaro. Può capitare di trovare in certi progetti espressioni tipiche della teoria gender, eppure non trovare chiaramente espressi i principi della teoria: ad esempio, non tutti i progetti che criticano “gli stereotipi” riguardanti il maschile e il femminile sono chiaramente riconducibili alla prospettiva di genere (benché in generale la tendenza sia proprio quella).
In Italia, una certa importanza in questo contesto deve essere attribuita a un documento dell’UNAR (di cui abbiamo parlato) che è la “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere“. La Strategia, da implementare dal 2013 al 2015, poggia su quattro assi: educazione e istruzione; lavoro; sicurezza e carceri; comunicazione e media. Ci interessa soprattutto il primo. Per redigere il documento l’UNAR si è avvalso di un “Gruppo nazionale di lavoro LGBT”, con funzioni consultive, che comprende tutte associazioni, ovviamente, rigorosamente LGBT. Ad esempio il Circolo omosessuale “Mario Mieli” e associazioni transgender come il Movimento Identità Transessuale e il Consultorio Transgenere. La “Strategia nazionale” comprende un glossario (pp. 46 e ss.) con le definizioni tipicamente alla base della teoria gender: genere; identità di genere (“la percezione di sé come maschio o come femmina o in una condizione non definita”); ruolo di genere; queer; transgender; ecc..
Il documento sembra riconoscere il disturbo da identità di genere e quindi, da questo punto di vista, non sembra far propria la versione più “radicale” della teoria gender, ma parla a più riprese del sostegno ai processi di “transizione di genere” (pp. 16 e 36). Analizzando la parte dedicata alle scuole, troviamo affermazioni proprie della prospettiva gender: a fondamento del bullismo omofobico e transfobico ci sarebbe una “cultura che prevede soltanto una visione eteronormativa e modelli di sessualità e norme di genere“ (p. 20); tra gli obiettivi ci sono quelli di “favorire l’empowerment delle persone LGBT [quindi anche transessuali e transgender, come si specifica a p. 47] nelle scuole, sia tra gli insegnanti che tra gli alunni”, e di “contribuire alla conoscenza delle nuove realtà familiari, superare il pregiudizio legato all’orientamento affettivo dei genitori (ecc.)” (p. 22); tra le misure concrete proposte:“integrazione delle materie antidiscriminatorie nei curricula scolastici (…) con un particolare focus sui temi LGBT“,“accreditamento delle associazioni LGBT, presso il MIUR, in qualità di enti di formazione“ (p. 23).
Abbiamo già parlato nella parte precedente della “Dichiarazione programmatica di Amnesty International sui diritti delle persone transgender“, ispirata alla più radicale teoria gender, e come essa fosse reperibile alla sezione “risorse utili” del sito dedicato alla scuola, nel contesto del progetto “Scuole attive contro l’omofobia e la transfobia”. Un estratto della “Dichiarazione” si trova anche nella guida per docenti “Diritti LGBTI, diritti umani” (a p. 60), di questo progetto rivolto alle scuole secondarie. Nella “guida” troviamo che le definizioni, i principi e le conseguenze della teoria gender sono ricorrenti: oltre al solito glossario gender (p. 47), che riporta una definizione eloquente di “transgender” (“Termine “ombrello” per indicare in senso generale una persona in cui identità biologica, socio-culturale e psicologica non coincidono. In senso ristretto, indica una persona che rifiuta lo “stereotipo di genere”, la suddivisione binaria in maschile e femminile, non identificandosi con nessuno dei due”), a p. 4 vengono ricordate alcune richieste di Amnesty International al Governo italiano, tra le quali: “Eliminare ogni forma di discriminazione nella legislazione sul matrimonio civile, prevedendo il matrimonio per le coppie omosessuali (…) Garantire che gli atti dello stato civile e tutti i principali documenti siano modificabili per rappresentare adeguatamente l’identità di genere“; a p. 34 vengono previste attività da svolgere con gli allievi che consistono nell’immedesimarsi con persone transgender; ci si propone di lottare contro gli “stereotipi” legati al genere e all’orientamento sessuale.
Riguardo a quest’ultimo aspetto, è necessario aprire una parentesi: come abbiamo detto nella prima parte di questo studio: “riconosciamo senza problemi che esistono stereotipi negativi che riguardano il maschile e il femminile (ad esempio il modello di uomo e donna della TV e della pubblicità: donna magra, sexy, che vale solo per le sue apparenze fisiche; uomo muscoloso, infedele, ecc.). Il problema è che la teoria di genere, volendo (o pretendendo) di combattere i cattivi stereotipi, finisce per cadere nell’estremo opposto: tutti i ruoli e comportamenti “maschili” e “femminili” sarebbero stereotipi culturali, imposti dalla società o dalla famiglia, da decostruire”. Anche pensare che mamma e papà abbiano ruoli specificamente differenti, e quindi insostituibili, sarebbe uno stereotipo di genere.
Da questo punto di vista, riconoscere la normalità delle “famiglie” cosiddette “omogenitoriali”, parificandole alla famiglia naturale uomo-donna, costituisce già di per sé un’adesione a uno dei principi fondamentali della teoria gender: cioè che il sesso biologico non ha nessuna importanza quanto ai comportamenti, i ruoli, l’aspetto psicologico e sociale della persona.
Infatti se la differenza tra i sessi, quanto ai comportamenti e ai ruoli, non ha importanza nella famiglia, a maggior ragione non avrà importanza in nessun altro contesto sociale. Se la differenza sessuale è vista come indifferente rispetto alla dimensione familiare (che è la prima dimensione sociale!) e rispetto al profilo psicologico delle persone nella famiglia (ad esempio lo sviluppo psicologico dei bambini), la differenza sessuale sarà considerata ininfluente in ogni contesto sociale. Infatti la famiglia è la società che in modo più immediato è collegata alla sessualità.
Siamo i primi a dire che la cultura giochi una parte, anche importante, nella formazione dei ruoli sociali e dei comportamenti tendenzialmente attribuiti a uomini o a donne. Nessuno sostiene che i ruoli sociali siano esclusivamente determinati dal sesso biologico: questa è una posizione caricaturale che i teorici del gender attribuiscono qualche volta ai loro oppositori (utilizzando l’argomento dell’uomo di paglia che invece addebitano volentieri alla controparte). Tuttavia la teoria gender dimentica che, molto spesso, l’elemento naturale c’è: molti comportamenti tipicamente maschili e femminili sono tali perché trovano (non una determinazione ma) un fondamentonella natura bio-psicologica dei sessi (il dimorfismo sessuale esiste anche a livello dell’encefalo, con conseguenze sul profilo psicologico e quindi sui comportamenti). (Altre volte invece l’elemento culturale è diretto semplicemente ad esprimere simbolicamente la differenza sessuale, e ciò non è sempre una “imposizione malvagia”).
Se, ad esempio, le femmine scelgono tendenzialmente giochi o lavori diversi dai maschi, questo fatto non è attribuibile semplicemente a uno stereotipo culturale da decostruire (come vorrebbe il gender): ci sono infatti lavori (come quelli che coinvolgono maggiormente la relazione interpersonale. es. infermiera) che realizzano attitudini naturali più tipiche delle femmine; così come ci sono lavori incentrati maggiormente sui meccanismi (es. ingegneria) che realizzano attitudini più tipiche dei maschi. Questo non vuol dire che una femmina non possa fare l’ingegnere o che un maschio non possa fare l’infermiere: vuol dire però che se ci sono proporzionalmente più maschi interessati ai meccanismi e più femmine interessate alla cura delle persone, questo fatto non rappresenta necessariamente una “imposizione culturale” come il gender vuole farci credere, ma lo sviluppo spontaneo di tendenze naturali (come dimostrano, tra gli altri, gli studi del dott. Lippa).
Queste tendenze naturali hanno una importanza ancora maggiore nella società familiare (ed è in questo contesto che la teoria gender commette gli errori più gravi) perché è in questa che la differenza sessuale ha maggior peso: essa è sia essenziale per la genesi della famiglia (generazione tra sessi diversi) che importante per lo sviluppo dei membri della famiglia: il ruolo materno è diverso dal ruolo paterno sia dal punto di vista biologico(specialmente nelle fasi iniziali del rapporto madre-bambino: gestazione, allattamento, ecc.) che dal punto di vista psicologico. Evidentemente, non ogni comportamento tipicamente attribuito a mamma o a papà è “naturale” (lavare i piatti, ecc.) ma ciò non vuol dire che nessun comportamento tipico abbia fondamento nella natura dei sessi.
Se quindi vengono considerati come stereotipi non solo quelli genericamente proposti dalla TV e dalla pubblicità (i veri cattivi stereotipi) ma anche la composizione uomo-donna nella famiglia, e ogni differenza tra il ruolo materno e paterno, allora ci troveremo di fronte a una chiara espressione della teoria gender. Così anche se ognicomportamento tendenzialmente maschile o femminile viene considerato uno stereotipo di genere, da decostruire: cioè se ogni comportamento considerato tipicamente maschile o femminile viene ricondotto esclusivamente a un condizionamento culturale.
Un esempio abbastanza chiaro di questa tendenza a oltrepassare i veri cattivi stereotipi per cadere nelle esagerazioni della teoria gender lo troviamo, tra i tanti esempi che si potrebbero fare, nel progetto “Dillo con parole sue”, per “contrastare la violenza di genere e il bullismo omofobico e transfobico”, applicato nelle scuole primarie e secondarie di Lentate, Cesano, Seveso e Meda (MB) nell’ottobre-novembre del 2014. A p.3 il progetto sembra riferirsi a veri stereotipi: “L’immaginario della donna fisicamente perfetta, ma un po’ “stupidina”, del maschio bello, autorevole e conquistatore uniti con un modello di società incentrata sempre di più su un sistema di bisogni indotti e pratiche soluzioni sempre acquistabili e disponibili”.
Tuttavia poi a p. 6 l’impostazione gender riguardo agli stereotipi emerge: “L’idea che si debba aderire ad un ruolo di genere precostituito per essere considerati “normali” è un ostacolo alla piena realizzazione di chi per qualsiasi ragione non vi si riconosce. Tra le aspettative sociali dell’essere maschi e femmine l’eterosessualità è forse la più forte. (…) L’orientamento sessuale eterosessuale è preferibile all’omosessualità, un’identità di genere congruente al sesso biologico è preferibile alla transessualità, poiché vengono considerati naturali e ovvi; ciò che si distanzia da questa normalità viene considerato un difetto nel binarismo di genere. Chi decide che un certo comportamento è “normale” siamo noi che, ancorati a certi principi e stereotipi, decidiamo di vivere ignorando altre realtà”. Un’impostazione quindi che abbraccia il principio (tipicamente gender) dell’indifferenza del sesso biologico rispetto all’identità psicologica: avere una identità di genere congruente oppure contrastante con il sesso biologico sarebbe ugualmente normale.
Sulla stessa linea si colloca il percorso formativo “Educare alle differenze di sviluppo sessuale, identità di genere, ruolo, orientamento affettivo sessuale e situazione familiare”, proposto da “Intersexioni”, per il personale educatore e insegnante e realizzato a Vaiano (Prato) nel gennaio 2015. Si legge che “Il percorso mira allo sviluppo di conoscenze, abilità e competenze nell’utilizzo a fini educativi dei più recenti risultati degli studi di genere, dei queer studies e dei family studies”. E’ costituito da tre moduli intitolati: “La formazione dell’identità e gli stereotipi di genere”; “Dalla famiglia alle famiglie”; “Binarismo sessuale, varianza di genere e accoglienza delle differenze”.
Nel mese di ottobre 2014, la Regione Lazio spende 120 mila euro per realizzare una serie di progetti scolastici contro l’omofobia. Il presidente della Regione Zingaretti sottolineò l’importanza della cosa anche per l’ampiezza dell’iniziativa, rivolta a ben 25 mila studenti di 50 scuole secondarie di primo e secondo grado del Lazio. Uno dei progetti si intitola“LGBT … All Right(s)!” e si propone di far acquisire a docenti e a studenti “informazioni, conoscenze, strumenti e metodologie per combattere l’omo-lesbo-transfobia e promuovere i diritti sociali per le persone LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali)”, così anche trasmettere informazioni “relative ai concetti di identità di genere/sessuale, orientamenti sessuali LGBT“.
Merita di essere menzionato anche il progetto “Rainbow – Playful Toolkit” (Milano, 2012), finanziato dall’Unione Europea, che “mette in connessione associazioni gay e lesbiche europee, scuole e professionisti dei media attraverso lo studio degli stereotipie promuove il diritto di bambini e bambine, ragazze e ragazzi alla loro identità – con particolare riferimento algenere e all’orientamento sessuale …” (p. 5). Leggiamo a p. 7: “Le prescrizioni sociali sul genere (ruoli di genere) amplificano quindi le differenze tra maschi e femmine, che non sono però mai “universali”. (…) Tra le aspettative sociali relative all’essere maschi e femmine, l’eterosessualità (…) è forse la più forte”. A p. 8: “Gli stereotipi relativi al genere (…) condizionano la nostra educazione sin dalla nascita anche in riferimento alle emozioni”. A p. 9: “È importante riconoscere questa discriminazione sociale … contrastarla e superarla, dando visibilità ai tanti esempi di matrimonio omosessuale e di famiglie omogenitoriali”. Il progetto contiene inoltre dei giochi, tra i quali: “Chi resta indietro?” (pp. 18-19), in cui si chiede ai ragazzi di calarsi nei panni di un personaggio, che può essere ad esempio un“uomo gay con compagno convivente da 10 anni”, oppure un “transessuale MtF con compagn* extracomunitario”(l’asterisco è tipico del linguaggio gender, per non “discriminare” utilizzando una parola al maschile o al femminile).
Infine, i principi e le conseguenze della teoria gender hanno ispirato tutta una serie di favole rivolte a bambini molto piccoli, incluse in progetti destinati anche agli asili nido o presenti in molte biblioteche comunali nel settore infanzia.
Un esempio noto è “Nei panni di Zaff” (edizioni Fatatrac, 2005). Il libro è stato inserito in diversi progetti alla lettura: ad esempio è stato oggetto di una “lettura animata” ai bambini delle scuole primarie nel progetto “Generare culture non violente”, a Bari nel mese di novembre 2014. Racconta la storia di un bambino, potremmo dire, transgender, che vuole essere una “principessa” e che realizza felicemente il suo desiderio. Leggiamo: “Tutti gli dicevano: Ma Zaff! Tu 6 maschio. Puoi fare il re … ma la principessa proprio no. Le principesse il pisello non ce l’hanno!!”; Zaff: “E va bene, ho il pisello ma che fastidio vi dà? Lo nasconderò ben bene sotto la gonna …”. A un certo punto arriva la principessa “sul pisello”, che consegna il suo vestito a Zaff, dicendogli che potrà essere “la principessa col pisello”. “Il segreto per vivere per sempre felici e contenti: Essere ciò che sentiamo di essere senza vergognarsi mai”.
A livello delle conseguenze della teoria di genere, molte favole promuovono la normalità e la “bellezza” dell’omosessualità e, in particolare, dell’omogenitorialità. E’ il caso della favola “Perché hai due papà?” (edizioni Lo Stampatello, 2014), che è stata proposta in asili nido, ad esempio, nel Comune di Venezia e a Roma (asilo nido “Castello Incantato”, Bufalotta, novembre 2014). Si tratta della storia di una coppia gay che ricorre all’utero in affitto per avere dei bambini. Nella favola si legge: “Franco e Tommaso si amavano: volevano fare una famiglia e avere dei bambini. (…) Franco si è fatto dare un ovino nella clinica americana. (…) i dottori hanno fatto incontrare l’ovino e il semino portati da Franco e Tommaso, e li hanno messi nella pancia di Nancy: Lia ha cominciato a crescere! Lia ha due papà: nessuno dei due l’ha portata nella pancia ma entrambi, insieme, l’hanno messa al mondo. Sono i suoi genitori.” E’ preoccupante questa promozione della cosiddetta omogenitorialità verso bambini così piccoli, oltretutto giustificando e presentando come “meravigliosa” la pratica dell’utero in affitto che costituisce reato nel nostro paese.
Molti altri esempi di progetti e iniziative gender nelle sistema scolastico si possono reperire nel dossier pubblicato da ProVita su questo tema (la lista di casi però non è esaustiva).
Recenti mutamenti normativi (su questo sito abbiamo parlato spesso della “Buona scuola“) potrebbero portare a introdurre la prospettiva gender obbligatoriamente anche nelle attività curricolari.
Insomma, la teoria gender esiste, anche nelle nostre scuole.
Il nostro sguardo in questi giorni viene orientato su due punti focali, Atene e Bruxelles. Quasi fosse una partita a ping-pong, dove aspettiamo di vedere chi farà il punto decisivo, ci concentriamo ora da un lato ora dall’altro, ignorando ciò che si vede durante il tragitto. Visto che nessuno ne parla, la notizia “non esiste”; eppure dal 1 luglio in Spagna – tra l’indifferenza generale – è entrata in vigore una delle leggi più repressive dell’intero sistema europeo, per certi versi più rigida addirittura del periodo franchista: la cosiddetta “ley mordaza”, letteralmente “legge mordacchia”, o legge bavaglio che dir si voglia.
Approvata con i soli voti del Partito Popular, usa la leva della multa per soffocare ogni ipotesi di libertà d’espressione. Sanzioni fino a 30.000 euro se si protesta davanti a una sede istituzionale, se si fa una fotografia a un poliziotto in azione, se non si interrompe una manifestazione quando ordinato, se si impedisce uno sfratto. Altri 30.000 euro di multa se non si collabora con la polizia per identificare gli attivisti. Ok alle retate preventive e alla costituzione di “black list” di dissidenti. C’è persino l’obbligo di lasciare la prima fila libera negli spettacoli, per dare modo ai controllori di posizionarsi se e quando vogliono ed eventualmente interrompere la rappresentazione. Infine l’inversione dell’onere della prova: per attivare i procedimenti basterà la testimonianza della polizia, e spetterà al cittadino dimostrare di essere innocente. Nessuno però lo racconta, distratti come siamo dall’Euro e dalla Bce. E non ci si accorge di come il mondo stia cambiando, di come i nazionalismi siano ritornati ad essere protagonisti della vita politica dei vari Paesi, di come i muri stiano tornando ad alzarsi.
Non è solo una questione di consensi che Le Pen o Salvini stanno incamerando, oppure dei voti che lo stesso Tsipras ha conquistato battendo il tasto dell’amor patrio; è un panorama più complesso quello che ci si pone davanti.
L’Inghilterra ha tirato su le barriere per proteggere la Manica, la Francia ha messo i poliziotti a difesa degli scogli di Ventimiglia, l’Ungheria ha sconfessato l’Europa e deciso di costruire un muro che non sarà solo sistemato lungo il confine con la Serbia; la lunghezza complessiva di 175 chilometri (altezza 4 metri) lo porterà inevitabilmente anche a coprire parte del confine con la Romania, con buona pace di Shengen.
In realtà, l’Ungheria non viola nessun regolamento o convenzione internazionale con questa misura. Budapest infatti ha osservato che nel resto d’Europa ci sono esempi di iniziative analoghe sulla frontiera fra Grecia e Turchia o in Spagna. E proprio qui la Guardia civil ha usato i mezzi antisommossa contro un gruppo di immigrati che cercava di raggiungerla a nuoto dal Marocco: quindici morti.
Ognuno tira su il proprio muro, dunque, e come spesso accade la realtà è ben lontana dai valori affermati nei trattati.
Ma torniamo ai principi della legge di cui nessuno parla: chi viene sorpreso a bere alcolici per strada sarà punito con una multa fino a 600 euro. E’ vietato fare appelli a manifestazioni di piazza su Twitter, Facebook e Instagram. Per farsi un’idea della paranoia che la ispira – scrive il giornalista spagnolo Miguel Mora – questa legge punisce allo stesso modo “la fabbricazione o il commercio di armi” e “le manifestazioni o riunioni non comunicate”.
Tutto sta accadendo a circa dieci anni dalla crisi economica mondiale, innescata nel 2007 dal crollo in America di mutui subprime, cioè di un prestito a lungo termine che la banca concede a persone con un reddito basso e/o insicuro. La crisi, inizialmente solo finanziaria, si è trasformata in economica. Impossibile non evocare la grande crisi del ’29, dove le profonde diseguaglianze sociali crearono un’economia instabile. Le esportazioni frenarono, il commercio si bloccò, la disoccupazione divenne uno status tangibile. Nelle vite politiche internazionali si accentuarono i nazionalismi.
E’ ciò che sta succedendo anche oggi, più o meno con la stessa tempistica. Certo, le condizioni culturali ed economiche attuali non permettono di ipotizzare la guerra come una soluzione praticabile, e dunque è improprio azzardare l’ipotesi un nuovo Hitler dietro l’angolo. Ma anche ipotizzare un referendum per dire no alla Merkel fino ad appena un mese fa era soltanto fantascienza…
La crisi greca ci insegna che il libero mercato non è libero.
E se non è libero il mercato, non è libero l’uomo.
Quando un mercato cosiddetto libero è controllato dalle poche famiglie più potenti al mondo, quell’un percento che guadagna più di 95 mila dollari l’ora, senza versare una goccia di sudore, e dalle banche che moltiplicano il denaro con pure operazioni di speculazione finanziaria, esso non è affatto libero, e non è neanche un mercato. Il mercato prevede uno scambio di beni. Quella in cui viviamo oggi è la società della rapina.
Quando, in un paese civile, un uomo ha lavorato per più di cinquant’anni col sangue e il sudore, e lo vedi piangere dalla disperazione perché i suoi risparmi sono stati trattenuti dalle banche, per permettere allo Stato di pagare i suoi debiti, dobbiamo chiederci quanto civile sia diventato il paese nel quale viviamo.
Quando i governi non garantiscono più la protezione dei diritti più fondamentali della persona e delle famiglie, ma sono diventate delle succursali di entità oscure e nascoste che manovrano tutte le ricchezze della terra, viene da chiedersi se non siamo finiti sotto una forma invisibile di dittatura, mascherata di democrazia.
Il libero mercato e la società non sono liberi finché a tutti non vengano riconosciuti i diritti umani più fondamentali e uguali opportunità.
In un libero mercato può essere giusto che chi merita salga più in alto o riceva di più, ma quando per avere di più si crea un sistema internazionale di predazione e di rapina dei beni che non sono il frutto del proprio lavoro, l’umanità si muove verso la sua distruzione.
Questo ci insegna la crisi greca. Questo ci insegna la mutazione del progetto di una Europa Unitaria in una alleanza trasversale tra pochi potenti per l’accrescimento della propria ricchezza nazionale a danno degli altri partner dell’Unione.
Occorre ripensare l’intero progetto dell’Unione Europea.
Occorre ripensare l’intero progetto dell’economia.
Per far queste due cose occorre pensare per intero – e progettare – un nuovo modello di umanità.
Siete sicuri di aver capito cosa sta accadendo in Iraq e perché Obama abbia dichiarato guerra all’Isis? Come sempre c’è la verità formale, quella sotto gli occhi di tutti, e quella sostanziale, che è molto diversa ma permette di cogliere, per chi lo desidera, cosa stia avvenendo davvero. L’Isis non esce dal nulla ma è un “mostro” religioso e militare che proprio gli Usa e alcuni alleati strategici come il Qatar e l’Arabia saudita negli ultimi due anni hanno incoraggiato e sostenuto. Fermi tutti e andiamo in profondità. L’Isis rappresenta l’evoluzione naturale dell’Isil ovvero di una forza estremista irachena su posizioni simili a quelle di Al Qaida che nel corso degli anni Duemila combatteva gli americani in Iraq a forza di attentati. Erano i nemici di ieri. Poi è venuto il tempo delle rivoluzioni colorate. Pacifiche e facili in Egitto e Tunisia, violenta in Libia. E in Siria, dove la protesta di piazza è stata subito repressa e la “rivoluzione popolare” si è trasformata in una guerra civile. Durissima, spietata e sporca. Combattuta da chi? Da eroici rivoltosi sunniti siriani? Solo in parte. Soprattutto da guerriglieri provenienti da altri Paesi, motivati dal denaro, dalla disperazione e dall’esaltazione religiosa; una forza composta dalle milizie che avevano combattuto in Iraq e che avevano contribuito a rovesciare Gheddafi, un’accozzaglia di fanatici ultrareligiosi e ammiratori di Al Qaida. Ovvero quell’estremismo terrorista che l’Occidente in teoria combatte dal 2001. Ma, si sa, le regole della politica internazionale non corrispondono a quelle della morale e le alleanze possono essere molto flessibili. Certi nemici, all’occorrenza, possono diventare amici.
E così è stato. Arabia Saudita e soprattutto Qatar hanno fornito aiuti finanziari, gli americani e verosimilmente i turchi assistenza militare e fornitura d’armi. A posteriori Hilllay Clinton si è addirittura rammaricata che l’aiuto fosse stato troppo timido. E nel frattempo l’America era stata sul punto di attaccare la Siria che era stata accusata da tutti di aver usato armi chimiche contro i ribelli, un attacco a cui si oppose con successo Putin con ottime ragioni: oggi sappiamo che a usare le armi chimiche furono proprio i ribelli che l’Occidente smaniava di soccorrere. Quali ribelli? Quelli dell’Isis. La guerra civile si è prolungata. Assad non è caduto e nella primavera del 2014 i guerriglieri dell’Isis, ben armati e ben finanziati, hanno cercato nuovi sbocchi. Hanno girato i cannoni e i blindati e ha iniziato a scorazzare verso sud ovest, puntando l’Iraq filoamericano, spingendosi fino alle porte di Bagdad e di Mosul; mentre l’America lasciava fare. Obama snobbava l’Isis – o più verosimilmente faceva finta – fino a definirlo una “squadra giovanile”. Della serie: non perdiamo tempo, sono delle giovani teste calde che non ci preoccupano.
Riassumendo: dei ribelli tacitamente sostenuti dagli americani e dai loro alleati attaccavano il governo di Bagdad amico degli stessi americani. Per lunghe settimane Washington ha lasciato fare, decidendosi tardivamente a sostenere il governo iracheno e decisamente controvoglia, ovvero con pochi raid. Intanto Qatar e sauditi continuavano a finanziare l’Isis. Nelle ultime settimane l’accelerazione, i media hanno iniziato a occuparsi quotidianamente dell’Isis, diffondendo storia umane agghiaccianti, storie di stupri, violenze, brutalità, fino a quando sono state diffuse le drammatiche immagini della decapitazione dei due giornalisti americani per mano di (supposti) occidentali convertiti all’Islam. E l’Isis è diventato improvvisamente il problema numero uno. L’opinione pubblica occidentale scioccata di fronte a immagini terribili e a un estremismo religioso che non può trovare giustificazioni, indotta a invocare una reazione forte contro i fanatici dell’Isis. La gente comune non segue le sottigliezze geostrategiche, non conosce gli antefatti, ma reagisce emotivamente a immagini “che parlano da sole”. E Obama, seguendo uno schema classico dello spin, ha risposto all’accorato appello di centinaia di milioni di americani giustamente preoccupati, annunciando una guerra che sarà naturalmente “lunga”, coinvolgendo nello sforzo finanziario proprio quei Paesi, Qatar e sauditi, che fino a ieri avevano finanziato l’Isis. Nuovo ribaltamento di fronte: gli ex nemici, diventati amici, tornano ad essere nemici; anzi molto nemici. Gente da annientare.
Risultato: questa zona del mondo a oltre 11 anni dalla Guerra Lampo che avrebbe dovuto liberare l’Iraq non solo non conosce pace ma vede divampare disordine, violenza e morte un po’ dappertutto: dalla Libia a Gaza, passando per l’Egitto, la Siria, l’Irak. E gli americani si trovano “costretti” ancora una volta a portare la liberazione, impiegando, in quello che appare un moto ormai perpetuo, la loro forza militare. La lotta al terrorismo è diventata una guerra perpetua al terrorismo. E una regione che fino a poco tempo fa era un baluardo di stabilità è diventata il focolaio di crescente instabilità, con conseguenze pesantissime per noi europei, che viviamo non lontano da quelle zone, e per tutti coloro – europei ma anche cinesi e indiani – che del petrolio mediorientale hanno bisogno. L’America invece di quel petrolio da qui a 6-7 anni non avrà più bisogno, grazie allo shale o il di cui dispone in grande quantità. Capito l’arcano?
L’Evangelii Gaudium non è un documento di transizione. E’ un testo programmatico di un pontificato. Una richiamo per l’intera Chiesa. Il filo conduttore è un costante richiamo alla conversione: mentale, affettiva, emotiva, spirituale, culturale verso un nuovo modo di vedere la Chiesa e il mondo. Il vangelo e il suo annuncio sono la vera fonte della gioia dell’umanità e la via d’uscita da una crisi epocale. Ma quanti, alla base lo stanno comprendendo? Ci si chiede se non stia prevalendo una sorta di idolatria della figura del pontefice, a cui il mondo cattolico è grato perché ha fatto alzare le sue quotazioni fin dalla sua elezione. Ma è vero?E’ la Chiesa che ne sta guadagnando oppure la figura di ciò che il papa rappresenta nell’immaginario collettivo?
Si dice che, dalla sua elezione, i pellegrinaggi e la pratica religiosa siano aumentati. Pare che le parole siano confermate dai fatti. Almeno a Roma, il martedì sera gli alberghi attorno a San Pietro, e in buona parte di Roma, registrano il tutto esaurito, in vista dell’Udienza generale del mercoledì, fin dall’elezione di papa Francesco.
Ma è d’obbligo la domanda: cos’è che muove questa “domanda” di vedere il Papa? La testimonianza della sua coerenza di vita? Il suo carattere fortemente carismatico? Il modo in cui abbraccia la gente? Se anche fosse, bisogna ricordare il messaggio più importante: le parole e le azioni di questo pontefice non sono una trovata mediatica. Sono un invito alla conversione, rivolto anzitutto alla Chiesa. L’Evangelii Gaudium è il programma per il lungo e complesso cammino di questa conversione.
Ma alla base, tra molti parrocchiani, e non solo, nelle parrocchie, pare che stia prevalendo “l’operazione Santa Marta”: la ricerca di contatti a Roma per quella raccomandazione che farebbe garantire un posto sicuro alla Messa mattutina del Papa. Più che entrare nello spirito della conversione a cui il pontefice invita, si ha l’impressione che sia più importante trovare il canale per entrare nel numero di quei fortunati 20 fedeli al giorno che potranno vedere Papa Francesco celebrare. E magari portare a casa qualche foto ricordo.
(E.C.)
Sulla strada di Papa Francesco (con qualche intoppo…)
In parrocchia scatta “l’operazione Santa Marta”, con venti fortunati che nel riserbo più assoluto (e all’insaputa degli altri) vanno a Messa dal Papa…
di Gianni Di Santo |VinoNuovo 19 giugno 2014
L’Evangelii Gaudium fatica a essere digerita dalle comunità parrocchiali. Mentre papa Francesco ridisegna le mappe di un annuncio missionario oltre i confini geografici della Chiesa-istituzione-curia, il fardello del cambiamento ricade inesorabilmente non solo sul popolo di Dio in generale, ancora sorpreso dall’effetto-Francesco, ma soprattutto sui laici “impegnati” e su tutti coloro che, ogni giorno, prestano il loro servizio alla Chiesa “domestica” e quindi alla comunità parrocchiale.
Me lo diceva molto bene Luigi Accattoli quando, a margine della presentazione del mio libro Chiesa anno zero,mi proponeva di riflettere non solo sull’istituzione-Chiesa ma anche sul popolo di Dio. Che effetto hanno le parole “nuove” di Francesco sulle comunità ecclesiali? Come stanno reagendo? Sono pronte a cambiare il loro modo di annunciare la parola oppure restano disorientate e quasi impaurite dal mettere in discussione antichi privilegi (anche spirituali), ritualità di collaborazione con i pastori ormai consolidate nel tempo, interessi personali e di gruppi in alcuni servizi pastorali?
Sono anche io convinto sempre più che la rivoluzione di Francesco avrà luogo se prima, dal di dentro della pancia della madre Chiesa, ci sarà un bagno di conversione interiore che toccherà non solo i presbiteri, ma anche quel popolo di Dio, i cosiddetti “laici”, che proprio con i pastori condivide la vigna del Signore e dovrebbe essere corresponsabile dell’annuncio evangelico.
Racconto, in proposito, un’esperienza tratta dalla mia comunità parrocchiale abbastanza significativa per spiegare ciò che bolle in pentola. Francesco va avanti, certo, ma con qualche intoppo.
Come tutti sanno, Santa Marta è il luogo dove Francesco vive e celebra la messa alle 7 di mattina, dove è solito salutare i partecipanti. Da vescovo di Roma quale si sente, ha giustamente permesso alle parrocchie romane di partecipare, a turno, alla messa mattutina. Al posto delle udienze personali dei precedenti pontefici, spesso riservate ai vip o ai soliti raccomandati, Francesco ha così reso visibile a tutti quanto la Chiesa sia davvero popolo di Dio. Ma siamo davvero sicuri che i parroci e le comunità parrocchiali intendano davvero la messa a Santa Marta come un cammino verso il nuovo annuncio oppure, invece, un perpetrare di antiche logiche medievali legate alla concessione di indulgenze, favori e regalie?
Grazie al mio lavoro, infatti, ho appreso alcuni giorni dopo che venerdì 13 giugno la mia parrocchia è stata a Santa Marta dal papa. Peccato: averlo saputo prima avrei pregato per l’iniziativa e avrei fatto festa. Come me, infatti (a oggi ancora non sono stato cacciato dal consiglio pastorale…), non lo hanno saputo metà dell’attuale Consiglio pastorale, tantissimi collaboratori, catechisti, educatori, i giovani e, ovviamente, la comunità parrocchiale nel suo intero. Un incredibile silenzio è sceso su tutta l’operazione Santa Marta.
A prenderla con il sorriso, mi immagino il pulmino, quatto quatto, alle quattro di mattina, mentre solca le vie del mio quartiere con i 20 fortunati prescelti alla volta del Vaticano, senza svegliare nessuno. Si dirà: il parroco sceglie chi vuole, e poi i posti sono pochi. Giusto, forse. Anche se avrebbe dovuto scegliere, secondo un’ottica di comunione che non è un mero stato esistenziale ma un dovere evangelico, in base alla “rappresentanza” e non in base a criteri personali che peraltro non ha spiegato a nessuno, nemmeno a coloro che hanno partecipato all’evento.
Ma, al di là della scelta di chi dovesse partecipare, lo sconcerto nasce dall’assoluto riserbo con il quale è stata gestita l’intera vicenda. Una notizia che i prescelti sapevano già almeno un mese prima e che nessuno ha osato condividere con amici (?!), educatori, catechisti, il resto della comunità, qualcuno perfino in famiglia. Mi domando: per paura di cosa? Un silenzio servile dove i laici, ahimè, fanno la figura del gregge e dove alcuni pastori (per fortuna non tutti sono così…) rimangono gli unici detentori del dono della grazia e di un retaggio di status ecclesiastico duro a morire che credevamo stesse per scomparire.
Un disastro pastorale, dunque, a prenderla dalle parti del vangelo. Un disastro ma anche una coerente azione pastorale a parer mio assai preconciliare che ha visto durante l’anno il consiglio pastorale arrendersi a organismo burocratico di “passacarte” e la comunione tra servizi pastorali e gruppi (sinodalità-prassi evangelica) assumere le vesti di contorni verbali e mai sostanziali. E la Chiesa “in uscita” di papa Francesco?
Ecco, questo è il punto. I laici, gli impegnati nelle comunità parrocchiali, sentono il bisogno di mettersi in discussione? Desiderano andare oltre il loro gruppetto di riferimento? Sapranno obbedire in piedi? Avranno la forza di dire, ad alta voce: «caro “don”, stai sbagliando!» nello spirito della correzione fraterna? E i pastori, i nostri amati pastori, riescono a capire che il soffio dello Spirito sta scendendo, inesorabilmente, anche sulle loro/nostre comunità templi/chiese e spazzerà via, prima o poi, ogni tradimento del vangelo?
Quando papa Francesco parla della povertà, elogia la povertà, invita alla povertà, esortando a guardare con amore ai poveri e ad esser loro vicini, innanzitutto spiritualmente, lo fa con passione. Addirittura scrive una “esortazione nell’esortazione”, perché ben 15 paragrafi (dal 186 al 201) sono tanti. Ed è una passione che richiama e riscrive una tradizione consolidata, nella Chiesa italiana e in quella universale.
Viene alla mente, ad esempio, il documento Sovvenire alle necessità della Chiesa, votato dai vescovi italiani riuniti in assemblea nel 1988. Quel testo (richiamato vent’anni dopo nel documentoSostenere la Chiesa per servire tutti) fondava, teologicamente e pastoralmente, il nuovo sistema di sostegno economico. Nel farlo, sottolineava un’evidenza: non può chiedere un aiuto economico chi non è povero, chi non testimonia i valori della povertà e della trasparenza con la propria vita quotidiana. I vescovi “riscrivevano” il numero 17 del decreto del Concilio Vaticano II sulla vita sacerdotale, Presbyterorum ordinis: «I preti, come pure i vescovi, evitino tutto ciò che può allontanare i poveri, e più ancora degli altri discepoli di Cristo vedano di eliminare dalle proprie cose ogni ombra di vanità». E ancora: «Non trattino dunque l’ufficio ecclesiastico come occasione di guadagno, né impieghino il reddito che ne deriva per aumentare le sostanze della propria famiglia»; quindi, «senza affezionarsi in alcun modo alle ricchezze, debbono evitare sempre ogni bramosia e astenersi accuratamente da qualsiasi tipo di commercio». Sovvenire giungeva addirittura a invitare i preti a fare testamento, «evitando così che i beni derivanti dal ministero, cioè dalla Chiesa, finiscano ai parenti per successione di legge».
L’assonanza con l’Evangelii gaudium è evidente. E rimanda appunto al Concilio. Nessun documento tratta in modo specifico della povertà; ma molti ne recuperano il valore e la necessità. L’assonanza è poi fragorosa con un testo per molti versi dimenticato, una lettera sottoscritta da cinquecento padri. L’iniziativa era stata del “gruppo del Collegio belga”, dal luogo dove fin dalla prima sessione avevano preso l’abitudine di riunirsi. C’erano il brasiliano Camara, il vescovo del Sahara Mercier, i teologi Congar e Chenu… Il 16 novembre 1965, tre settimane prima della conclusione del Concilio, una quarantina di loro si riunirono nelle Catacombe di Domitilla per celebrare l’eucaristia e impegnarsi solennemente a vivere in spirito di povertà. L’impegno fu poi firmato da altri, ma va aggiunto che molti padri non seppero dell’iniziativa e così non poterono firmare.
Il loro impegno risuona familiare, per noi che oggi vediamo lo stile di vita di papa Bergolio. «Cercheremo di vivere – leggiamo nella lettera dei padri conciliari – come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. Rinunziamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (…), nelle insegne di materia preziosa (…). Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, eccetera; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative». E così via.
Alla fine dell’”esortazione nell’esortazione” (201), papa Francesco aggiunge: «Temo che anche queste parole siano solamente oggetto di qualche commento senza una vera incidenza pratica». Timore legittimo. Ma la tradizione sulla quale le sue parole si fondano c’è, ed è solida. Bisogna farla vivere.
«Evangelii gaudium». Cioè «la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù». È già tutto nelle prime righe il senso dell’Esortazione apostolica di Papa Francesco resa nota questa mattina. Un documento di ampio respiro, per certi versi “programmatico”, in cui Bergoglio sottolinea e approfondisce le linee guida di quest’inizio pontificato. Ecco allora «la trasformazione missionaria della Chiesa» che per un credente significa «uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo».
E ancora, l’invito a essere vicini alle forme contemporanee di povertà e fragilità, dai senza tetto ai tossicodipendenti, dai rifugiati ai popoli indigeni, fino agli anziani sempre più soli e abbandonati e ai migranti. Presenza quest’ultima, che per Francesco, «pastore di una Chiesa senza frontiere» rappresenta «una particolare sfida». Perciò, scrive il Papa, «esorto i Paesi ad una generosa apertura, che invece di temere la distruzione dell’identità locale sia capace di creare nuove sintesi culturali».
Ma l’invito a non chiudersi in sé, a «uscire», riguarda innanzitutto la comunità ecclesiale nel suo insieme, riassunta nell’immagine della Chiesa «con le porte aperte». Tutti infatti possono partecipare in qualche modo alla vita comunitaria. E questo vale anche per i sacramenti, a cominciare dal Battesimo. E l’Eucaristia «sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e una alimento per i deboli».
Una sottolineatura, una riflessione nel segno dell’accoglienza, che percorre l’intero documento così come l’invito a «recuperare la freschezza del Vangelo» attraverso «una conversione pastorale e missionaria che non può lasciare le cose come stanno». Ecco allora che il pensiero tocca lo stesso papato e una sua possibile «conversione» perché «sia più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alla necessità attuali dell’evangelizzazione». E, allo stesso modo, l’invito a rendere più concreto quel senso di collegialità che rimane una degli auspici mai pienamente realizzati del Concilio. Una trasformazione che passa attraverso quella che il Papa chiama «salutare decentralizzazione» e un maggiore coinvolgimento delle Conferenze episcopali che le concepisca «come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale».
Ma la necessità di conversione riguarda tutti i campi e settori, dal rischio del clericalismo alla lotta contro la mondanità spirituale, dalla promozione del ruolo femminile al dovere di puntare, nelle omelie, sulla brevità, rifuggendo da «una predicazione puramente moralista e indottrinante» per lasciare spazio a immagini, espressioni, capaci di offrire sempre speranza. Meglio, avverte Francesco, «una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze».
Detto in altro modo, Gesù chiama la comunità nel suo insieme e ogni credente ad incontrare l’altro e a offrirgli la sua Parola, nella gioia. Un’attività evangelizzatrice che ha come modello la Vergine. «Perché ogni volta che guardiamo a Maria torniamo a credere nella forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto».
«Usciamo, usciamo». Incomincia così il n. 49 dell’Esortazione Apostolica di papa Francesco sul tema dell’evangelizzazione, che ha impegnato il recente Sinodo mondiale dei Vescovi. L’immagine non è occasionale, né casuale. Che si tratti di una chiave di lettura – e quindi di azione – del messaggio destinato alle Chiese cristiane, è confermato dalla dicitura che sta all’ingresso del primo capitolo: «Una Chiesa in uscita».
Francesco si mette a capo del popolo di Dio e lo guida all’uscita dalla schiavitù. Uscita dall’inerzia di una posizione di rendita, che può apparire rassicurante e persino confortevole, ma che ormai confina con l’assuefazione alla «mondanità spirituale». Uscita dalla mancanza di iniziativa, dalla perdita di creatività, dall’amorevole coltivazione della propria nobile malinconia: la storia della modernità ha deviato dal corso previsto, che doveva passarci sotto casa. Invece. E allora, tanto peggio per la storia, e per gli uomini, le donne e i bambini che ci sono dentro. L’accidia, la rassegnazione, lo scoraggiamento – scrive Francesco – portano alla «psicologia della tomba». Può sembrare un rifugio, un sacrario persino. Ma è un luogo di morti.
Non c’è però solo una cristianesimo ripiegato su se stesso perché vive una perenne «Quaresima senza Pasqua» (n. 6). In questi anni, i cristiani ci hanno messo del proprio per mortificare ciò che lo Spirito aveva pur messo in moto. Hanno creato contrapposizioni artificiose nel popolo di Dio, seminato arroganza di élites fra i cristiani diversamente impegnati, acceso vere e proprie «guerre» interne, nelle quali sono state dilapidate energie e sostanze che erano destinate alla missione comune (n. 94). Anche da queste stupide liti bisogna uscire. In fretta, e con un taglio netto. E bisogna pensare di più ai «poveri». Soprattutto al loro riconoscimento da parte di una religione che non se ne serve come strumento per disegni che non li riguardano.
Una religione la cui ambizione è solo quella di restituirli alla dignità spirituale della loro mente, dei loro affetti, della loro persona. E di una relazione con Dio che non devono mendicare, perché è semplicemente destinata e donata. La comunità umana e cristiana è in debito di inclusione e di reciprocità nei loro confronti. L’enorme sofisticazione delle nostre occupazioni di autorealizzazione spirituale ed ecclesiale, che poi ammettono all’aristocrazia della fraternità solo i portatori professionali dei carismi, deve metterci in imbarazzo una volte per tutte. «Occorre affermare, senza giri di parole, che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri. Non lasciamoli mai soli” (n. 48).
La caduta in verticale del gusto comunitario della vita è oggi direttamente proporzionale all’ossessione del godimento dei suoi piaceri, che seleziona i privilegiati della competizione per l’evoluzione migliore. La loro avidità è peggio del buco nell’ozono. È l’economia dell’esclusione, che «uccide». È l’idolatria del denaro di Epulone, che non ha alcuna «ricaduta» favorevole. (i cani hanno anche il salone di bellezza, a Lazzaro – come da copione – continuano a non arrivare neppure le briciole). È l’iniquità che genera fatalmente aggressività e violenza: nel contesto urbano, ormai, è un tratto di stile, per così dire. La Chiesa esce dalla tomba, e molti uomini e donne che non ci credevano più escono dal guscio. E ritrovano il piacere «spirituale» di essere «popolo», che sta diventando sconosciuto agli umani.
Questo e molto altro troverete, in questo poema sinfonico dell’evangelizzazione, in cui sono raccolti i motivi conduttori del magistero di Francesco. Due movimenti da non perdere. Il trattatello sulla città secolare, che mette a fuoco la differenza strutturale della missione nell’odierno contesto urbano (nn. 52–75). E il trattato sull’omelia liturgica (135–159). Cominciate pure di qui. Unite i due fili, e la mente si metterà in moto. La formula della nuova evangelizzazione perderà ogni ambiguità possibile, e mostrerà l’essenziale.
Nei paragrafi 36-39 della esortazione Evangelii gaudium il Papa riprende un discorso fondamentale di san Tommaso d’Aquino, ricordando che «insegnava che anche nel messaggio morale della Chiesa c’è una gerarchia, nelle virtù e negli atti che da esse procedono». Così, se, in assoluto, gli atti d’amore verso Dio sono superiori ad ogni altra azione, per quanto poi riguarda la condotta umana che concerne il prossimo, «le opere di amore al prossimo sono la manifestazione esterna [l’espressione interiore è l’amore a Dio, come detto] più perfetta della grazia interiore [che è frutto] dello Spirito».
Per questo motivo, dice il Papa, Tommaso «afferma che, in quanto all’agire esteriore […] ‘La misericordia è in se stessa la più grande delle virtù, infatti spetta ad essa donare ad altri e, quello che più conta, sollevare le miserie altrui’». Naturalmente, le miserie, per Tommaso e per il Papa (come egli ha chiarito molte volte), sono materiali, ma anche morali e spirituali (da cui il più volte reiterato richiamo ad andare verso le «periferie esistenziali»), e misericordia vuol dire altresì protezione dell’innocente, come esemplifica anche la Evangelii gaudium ai paragrafi 213-214, riferendosi anche agli esseri umani che vengono abortiti. Ciò che dal Papa è qui in parte esplicitato e in parte sottinteso è un concetto dello stesso san Tommaso e di sant’Agostino, cioè che il primato nella morale spetta al positivo, spetta all’amore, all’amore di Dio e all’amore del prossimo, tanto è vero che le virtù umane sono espressioni dell’amore.
Ad esempio, la giustizia nella sua pienezza è l’amore che vuole il bene che spetta a ciascuno (qualcun altro o il sé: c’è infatti anche una giustizia verso se stessi, ben diversa dall’autoindulgenza), la perfetta fortezza è l’amore che sopporta il dolore e le difficoltà in vista del bene di chi amiamo (il sé o gli altri), la saggezza compiuta è l’amore che individua i mezzi per procurare il bene di chi amiamo (il sé e gli altri), la temperanza nella sua pienezza è l’amore che ci custodisce capaci di amare pienamente gli altri o, perlomeno, ci rende capaci di non trattarli come mezzi, con lo scopo di utilizzarli, bensì come fini in se stessi. Come dice Agostino, «sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore [illuminato dalla ragione], poiché da questa radice non può procedere se non il bene». Anche Hegel negli scritti giovanili, scriverà che «l’amore è il compimento delle virtù».
Forse non è immediatamente chiaro come conciliare questo discorso con quanto lo stesso Papa dice nel testo che stiamo commentando: «Come bene osservano i Vescovi degli Stati Uniti […] la Chiesa insiste sull’esistenza di norme morali oggettive, valide per tutti». Il punto è che dall’amore per il prossimo deriva il divieto oggettivo di non assassinarlo, di non derubarlo, di non abortirlo, di non ucciderlo con l’eutanasia, ecc. Ma, se impostiamo la vita nella logica del primato del dovere, del primato del ‘no’, allora ci fissiamo solo sui divieti da non infrangere; viceversa, se il primato lo riconosciamo all’amore, allora la logica è quella del ‘sì’ all’uomo, quella della preminenza dell’amore, il quale desidera sempre il massimo per l’amato.
Siamo abituati da secoli di legalismo a pensare che l’uomo morale sia colui che conduce la sua vita a colpi di senso del dovere. Tuttavia, l’uomo pienamente morale rispetta sì dei doveri, ma vive motivato dall’amore. Infatti, il dovere prescrive di compiere per ingiunzione quella stessa azione che l’amore giusto, se ci fosse, avrebbe già compiuto liberamente.
Sessant’anni fa don Giussani riproponeva al liceo Berchet di Milano la sfida del cristianesimo come risposta ragionevole ed entusiasmante alle esigenze di ogni uomo. E nel 2005 alla sua morte don Julian Carrón raccoglieva il testimone del fondatore.
Nell’Esortazione apostolica «Evangelii gaudium», Francesco indica il cammino della Chiesa per i prossimi anni. Don Carrón, lei guida la Fraternità di Cl. Cos’ha da imparare il movimento da queste indicazioni?
Siamo sfidati a rinnovare l’incontro personale con Cristo, ogni giorno e senza sosta. È qui l’origine della «conversione pastorale e missionaria» che viene sollecitata dal documento. Francesco dice chiaramente che la sorgente dello slancio missionario è un uomo che vive della memoria grata di Cristo e vuole condividere la gioia provocata dal Vangelo. Lui indica il punto sorgivo, chiede che l’annuncio si concentri sull’essenziale.
Il Papa scrive che il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale e che, «restando pienamente se stesso, nella totale fedeltà all’annuncio evangelico e alla tradizione ecclesiale, esso porta anche il volto delle tante culture e dei popoli in cui è accolto e radicato». Come accade questo nel vostro movimento, che ha messo radici in molti Paesi?
La presenza di nostre comunità in 80 Paesi, in contesti molto diversi, e le amicizie nate con persone di tradizione ortodossa, anglicana, ebraica, musulmana, buddista, testimoniano che quando si punta sull’essenziale si può entrare in dialogo col cuore di ogni uomo a qualsiasi latitudine. Accadono fatti commoventi: una donna africana non riusciva ad avere figli, la famiglia del marito premeva su di lui perché l’abbandonasse, come vuole la tradizione locale. Ma l’uomo, vedendola così lieta nell’esperienza che viveva nella comunità di Cl, ha resistito alle pressioni non volendosi privare della gioia della fede che lei testimoniava, e che era più grande dell’impossibilità di generare. È un piccolo-grande esempio di come il cristianesimo valorizza ed esalta tutto l’umano.
Nel documento viene sottolineato il valore dell’esperienza come veicolo privilegiato per la trasmissione della fede. E nella pedagogia di Cl l’esperienza svolge un ruolo fondamentale. Da più parti, specie in ambienti legati al tradizionalismo, arrivano critiche sul pericolo che l’enfatizzazione dell’esperienza personale metta in ombra il riferimento rigoroso alla dottrina e quindi rappresenti un attentato alla verità. Lei che ne pensa?
Papa Francesco si colloca nella scia dei suoi predecessori, Giovanni Paolo II e Paolo VI, quando affermavano che «l’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri, piu all’esperienza che alla dottrina, più alla vita e ai fatti che alle teorie» ( Redemptoris Missio 42; cfr. Evangelii Nuntiandi 21, 41, 76). Solo se l’uomo sperimenta la pertinenza della verità della fede alle esigenze della vita può trovare ragioni adeguate per aderire ad essa. Nel cristianesimo la verità è diventata carne perché l’uomo potesse farne esperienza e, così, trovare i motivi d’una adesione pienamente ragionevole. È quanto è accaduto ai primi: Andrea e Giovanni non sapevano chi era quell’uomo, ma lo hanno seguito per la corrispondenza umana che hanno scoperto nell’incontro con Lui. Nessuno li aveva mai guardati così prima di allora!
Francesco sottolinea che i movimenti sono una ricchezza della Chiesa che lo Spirito suscita per evangelizzare tutti gli ambienti. E aggiunge che «è molto salutare » che non perdano il contatto con la parrocchia «e si integrino con piacere nella pastorale organica della Chiesa particolare». Come vivono i ciellini questo rapporto, che in passato è stato motivo di incomprensioni e contrasti?
Il Papa sta chiedendo di uscire verso le periferie esistenziali per incontrare tutti, credenti e non credenti, senza aspettare che gli uomini vengano a cercarci. Lui per primo sta dando l’esempio, con le sue parole e la testimonianza che offre. Cl è nata e si è diffusa negli ambienti – scuole, università, lavoro, quartieri – ma i ciellini non snobbano affatto le parrocchie. Solo nella diocesi di Milano ce ne sono quattromila impegnati a vario titolo: catechismo, cori, società sportive, doposcuola, attività educative negli oratori. Riproporre una contrapposizione o una rivalità tra Cl e le Chiese locali è qualcosa che non corrisponde al vero: il compito a cui il Papa chiama tutti è la collaborazione all’unica missione della Chiesa, andare incontro agli uomini per testimoniare la gioia del Vangelo. Dobbiamo tutti spostare il baricentro.
Il primo documento scritto interamente da Francesco è dedicato all’evangelizzazione, ed è stato firmato il giorno stesso in cui si è concluso l’Anno della fede indetto da Benedetto XVI. C’è dunque una forte continuità tra due pontefici che molti continuano a descrivere come molto diversi?
È la passione per Cristo ciò che accomuna Benedetto e Francesco. Il primo ha intercettato la necessità di ripartire dai fondamentali, il secondo ha raccolto il testimone insistendo sull’urgenza missionaria. Entrambi hanno chiara la percezione che la fede non può più essere un dato scontato e che all’origine della missione c’è l’urgenza della conversione personale. Francesco lo dice a chiare lettere all’inizio dell’Evangelii gaudium (n. 7): «Non mi stancherò di ripetere quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del Vangelo: ‘All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva’». Qui emerge chiaramente nella differenza dei temperamenti e delle sensibilità che ovviamente rimane (e che è sempre una ricchezza) – l’unità d’intenti. Ma scusi, chi davvero conosce e vive la Chiesa poteva pensare altrimenti?
Prima di tutto c’è il bene da fare e da far crescere
La morale è norma del bene per le persone. Essa insegna a vivere bene facendo il bene. Il Vangelo è via alla vita buona e ci dà norme per percorrerla. Sono qui le due polarità della morale: la persona e la norma. La persona anzitutto, soggetto dei propri atti. E la norma che li dirige al bene. La Chiesa, istruita dal Vangelo, ha assolto lungo i secoli il servizio della verità morale, insegnando norme di azioni nei vari campi dell’agire. Come in altri ambiti della teologia e del magistero – quando occorre declinare insieme due coefficienti distinti ma complementari di uno stesso assetto di vita – anche tra “persona” e “norma” si sono avuti degli squilibri, sull’una o l’altra polarità. A seguito delle sollecitazioni venute dai rivolgimenti scientifici e culturali del nostro tempo, specialmente nel campo delle cosiddette “questioni eticamente sensibili”, il magistero e la teologia hanno dovuto elaborare norme per orientare i comportamenti. La catechesi e la predicazione ne mediano l’insegnamento e la diffusione, rischiando però di limitare l’attenzione a ciò che la Chiesa autorizza o proibisce. A questa deviazione normativistica e proibizionistica contribuisce molto l’enfasi dei mass-media, che riducono la dottrina morale della Chiesa – e il suo umanesimo del “sì” – a una serie di “no”. Cosicché agli orecchi della gente arrivano perlopiù princìpi, leggi, veti, divieti. Norme fredde, rigorose: incuranti delle persone, delle loro situazioni, delle loro storie – nella unicità, singolarità, concretezza di ciascuna. In un simile habitat etico molte persone finiscono per sentirsi più giudicate che comprese, più gravate che sorrette, più colpevolizzate che accompagnate. E si perdono d’animo, s’allontanano.
Consapevole di questo sbilanciamento, Papa Francesco ha voluto riequilibrare sulla “persona” il rapporto con la “norma”. Lo fa ogni giorno con i suoi gesti, nelle sue omelie. Lo ha fatto intravedere in alcuni dialoghi-interviste. Lo ha spiegato nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, cui attingiamo in questa riflessione (che segue quella pubblicata il 20 dicembre scorso, ndr). La teologia e la catechesi in campo morale, non esauriscono il loro compito con l’elaborazione e l’enunciazione della norma. La legge è oggettiva: valet ut in pluribus, vale in generale e in astratto. L’agire è soggettivo: singolare e concreto. L’annuncio morale deve farsi carico di questa singolarità e concretezza, in ciò che essa ha di complesso, conflittuale, sofferto, drammatico per le persone. Caricarle esclusivamente del peso della norma, abbandonandole al suo giudizio, non è conforme né al messaggio del Vangelo né alla missione della Chiesa. Non è consono, ci sta dicendo il Papa, al Vangelo della misericordia e al volto della Chiesa, a un tempo Maestra di verità e Madre di misericordia.
Non si tratta di sminuire la radicalità e l’ideale evangelico. Si tratta di evitare la subordinazione delle persone alla legge. Non è la persona per la legge, ma la legge per la persona. In ordine non al bene ideale, ma al bene possibile, di cui una persona è capace in una situazione o in una fase del suo cammino di vita. In questa attenzione alla persona, il Papa ricorda ai Pastori i condizionamenti del conoscere e del volere, che abbassano o annullano il grado di responsabilità delle persone. Essi «non possono dimenticare ciò che con tanta chiarezza insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica: “L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali”». Per questo diventa difficile giudicare e vale il consiglio evangelico: «Non giudicate» (Mt 7,1).
Il Papa esorta i sacerdoti e gli operatori pastorali a una proposta morale positiva e a una prassi pastorale d’accompagnamento. La catechesi morale non deve privilegiare le proibizioni, i divieti, i mali da evitare, ma il bene da compiere: «Indicare sempre il bene desiderabile, la proposta di vita, di maturità, di realizzazione, di fecondità, alla cui luce si può comprendere la nostra denuncia dei mali che possono oscurarla. Più che come giudici oscuri che si compiacciono di individuare ogni pericolo o deviazione, è bene che possano vederci come gioiosi messaggeri di proposte alte, custodi del bene e della bellezza che risplendono in una vita fedele al Vangelo».
L’altra esortazione è a una prassi etico-pastorale d’accompagnamento, in un cammino personalizzato di crescita graduale, segnato dalla forza sanante e vitale dei sacramenti: «Bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno. Ai sacerdoti ricordo che il confessionale non deve essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore, che ci stimola a fare il bene possibile. Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute». Di qui il richiamo a tenere «le porte aperte». Dalle porte delle chiese, a quelle della comunità ecclesiale, alle porte dei sacramenti, le quali «non si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi». Questo vale in particolare per «il Battesimo che è “la porta”». E per l’Eucaristia, la quale «non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli». E invece «di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa – ricorda a tutti il Papa – non è una dogana, è la casa paterna, dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa».
Scendendo dalle sicurezze oggettive della norma alla sua mediazione nel vissuto soggettivo delle persone, si può incorrere nell’errore. Questo pericolo non può arroccarci sulla norma e abbandonare le coscienze alla loro solitudine. Fossero pure erronei – invincibilmente erronei, li dice la teologia morale –, i sinceri giudizi di coscienza sono da rispettare. Questo patrimonio personalistico della morale cattolica è alla base dell’incoraggiamento del Papa a non rinchiuderci nella legge, ma ad avvicinarci alle coscienze, accompagnandole nella deliberazione del bene possibile e aiutandole a rialzarsi da ogni caduta: «Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli».
Mettendo al centro la persona, il Papa polarizza sulla grazia la morale. Morale della grazia, non della legge. «Noi – infatti – non siamo più sotto la legge, ma sotto la grazia», assicura san Paolo (Rm 6,15). Che non significa una grazia senza la legge. Ma una legge assunta dalla grazia, che è dono per conoscere e adempiere il bene, e perdono, misericordia, per non soccombere al male.
Approvato il decreto legge del Consiglio dei Ministri
Da Avvenire – 10 gennaio 2014
Il figlio “assume il cognome del padre ovvero, in caso di accordo tra i genitori risultante dalla dichiarazione di nascita, quello della madre o quello di entrambi i genitori”.
Lo prevede il ddl approvato oggi dal Consiglio dei ministri. Una norma valida anche anche per i figli nati fuori dal matrimonio o adottati. Una nota di Palazzo Chigi ha resco conto dell’approvazione nel Consiglio dei ministri di oggi (su proposta del presidente Enrico Letta, e dei ministri della Giustizia, Annamaria Cancellieri, degli Affari esteri, Emma Bonino e del Lavoro e delle politiche sociali, Enrico Giovannini) del testo dà piena attuazione alla sentenza della Corte Europea di Strasburgo e prevede l’obbligo per l’ufficiale di stato civile della iscrizione all’atto di nascita del cognome materno in caso di accordo tra entrambi genitori.
Nel dare piena attuazione alla sentenza della Corte europea inerente al cognome materno, tuttavia, il Consiglio dei Ministri ha rilevato che la complessa materia presenta ulteriori profili che, oltre ad essere ovviamente aperti al dibattito parlamentare, saranno, in sede governativa, approfonditi da un gruppo di lavoro presso la Presidenza del Consiglio, con la partecipazione de i rappresentanti dell’Interno, degli Affari esteri, della Giustizia e delle Pari Opportunità.
Il disegno di legge, composto di 4 articoli, modifica l’articolo 143-bis del codice civile. Le disposizioni si applicano alle dichiarazioni di nascita successive all’entrata in vigore della legge. Il doppio cognome dei figli era oggi all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri, dopo la condanna all’Italia dei giorni scorsi da parte di Strasburgo, che richiamava il nostro Paese all’applicazione del diritto di dare il cognome della madre.
di Barbara Spinelli – la Repubblica 9 ottobre 2013
Inutile parlare di Europa madrepatria della democrazia, e proclamare nella sua Carta dei diritti che
siamo «consapevoli del suo patrimonio spirituale e morale», dei suoi «valori indivisibili e universali
di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà », quando tutto in noi pare spento: tutti i
miti che fanno la nostra civiltà, assieme ai tabù che la sorreggono. E tra i primi forse il mito di
Antigone, senza il quale non saremmo chi siamo. Oppure la solenne legge del mare, che obbliga a
salvare il naufrago, quasi non esistesse peggiore sciagura delle acque che si chiudono mute
sull’uomo. Il mare è senza generosità, scrive Conrad: inalterabile, impersona l’«irresponsabile
coscienza del potere».
Sono uniti, i due miti, dalla convinzione che fu già di Sofocle: la norma superiore cui Antigone
ubbidisce – fissata da dèi arcaici, precedenti gli abitanti dell’Olimpo – il re di Tebe non può violarla, accampando la convenienza politica e le proprie transeunti idee di stabilità. È norma insopprimibile, e Creonte che antepone il diritto del sovrano, il nomos despòtes, paga un alto prezzo. Così la legge del mare.
Quando sfoggia vergogna, l’Europa suol cantilenare, come dopo Auschwitz, una sua frase inane ma
contrita: «Mai più!» Inane perché contempla il passato, non il presente. Ma almeno è contrita. Oggi
nemmeno questo: il «mai più» neanche è pronunciato, la violazione è attribuita a cieca fatalità e si
esibisce impudica. Un ministro – si chiama Angelino Alfano, già ignorò il diritto d’asilo nell’affare
kazako – sta sul bordo del mare e dice che i 232 morti sottratti alle acque di Lampedusa non
saranno gli ultimi: «Non c’è ragione per pensare e per sperare che sarà l’ultima volta».
Colpisce il divieto di pensare, più ancora di quello di sperare. Neanche pensare possiamo, che
l’Europa sia qualcosa di diverso da un fortilizio militarizzato. Che stiamo lì per difendere non solo
un muro di cinta, ma gli esseri umani che disarmati provano a valicarlo. Per il ministro, ben altra è
la questione amletica: dobbiamo sapere «se l’Europa intenda difendere la frontiera tracciata dal
trattato di Schengen. Uno Stato che non protegge la sua frontiera semplicemente non è. L’Europa
deve scegliere se essere o non essere».
Quattro considerazioni, a questo punto.
Primo: l’Europa è sì davanti a un bivio esistenziale, ma non quello che con porte bronzee nega
l’idea stessa del bivio. Deve decidere se vuol essere all’altezza delle norme che professa, e che da
tempi immemorabili le prescrivono di accogliere i fuggitivi, i supplicanti, oltre che di tutelare i
confini da assalti stranieri. Né l’emigrazione economica clandestina né la fuga da guerre o dittature
(spesso sono la stessa cosa) sono equiparabili a attacchi esterni. Vengono equiparati invece, e per
questo è lecito parlare di guerra nel Mediterraneo. Il fuoriuscito stipato con i suoi nei barconi è
trasformato in nemico. In homo sacer, come scrive Giorgio Agamben: vita nuda, soggetto non
legale, bandito pur appartenendo agli Dèi: uccidibile. Entra in Europa e «vive in orbita», dice la
lingua burocratica. La legge antichissima si spense, quando nel 2004 l’Unione creò Frontex
(Agenzia che gestisce le frontiere esterne). Frontex coordina le misure di polizia, pattuglia coste,
garantisce il rimpatrio dei clandestini. La protezione dei diritti umani è un obiettivo residuale, un
ornamento.
Seconda considerazione: l’Europa ha sue responsabilità, ma l’Italia non ne ha di minori. Il reato di
clandestinità, introdotto nel 2009 dal governo Berlusconi, definisce un crimine in sé l’esodo senza
permessi anticipati. Di qui la parentela con la guerra: come se il clandestino fosse un combattente
irregolare e specialmente insidioso, perché non combatte a viso scoperto, indossando l’uniforme,
ma conduce una sorta di guerriglia che si confonde e confonde. Ecco la legge di Tebe che si
sovrappone alla norma di Antigone. La sicurezza e la stabilità– quest’ultima è addirittura eretta da
Enrico Letta a «valore assoluto» , nuovo non negoziabile articolo di fede – esigono sacrifici e
morte. Il migrante, bollato, è un pericolo sociale. La Corte Costituzionale s’oppose (sentenza n.
78/2007), escludendo che lo stato d’irregolarità sia sintomo presuntivo di pericolosità sociale; ma il
reato appena ritoccato (scompare la pena detentiva) resta. Fin dal 2002 la legge Bossi-Fini preparò
il terreno: ingiungendo il respingimento immediato del migrante (poco importa se restituito o no
alle dittature cui scampava) e rendendo impraticabili le procedure di concessione di asilo.
Di qui il pervertirsi della norma instaurata prima ancora che Cristo nascesse –Soccorrere è un
dovere, non soccorrere è un reato — iscritta nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati come nella
Carta europea dei diritti fondamentali dell’Unione (art. 18). Non soccorrere è peccato di omissione,
e più precisamente crimine di indifferenza. Che senso ha dire «mai più», se non vediamo che il
delitto di clandestinità per forza incentiva l’omissione di soccorso. Chi aiuta il naufrago incorrerà in
processi e pene per favoreggiamento del reato, e preferirà voltare lo sguardo altrove. È già successo.
Nei paesi occupati dai nazisti, in Polonia ad esempio, chi tendeva la mano all’ebreo rischiava la
morte.
Terza considerazione: parole come vergogna andrebbero abolite, nel lessico della politica. Nascono
dall’emozione, dalla scossa introspettiva, non necessariamente osano l’aperto, l’agorà dove si
disfano e si correggono le leggi positive. Dette dal Santo Padre hanno un senso, ma in politica conta
l’azione, non l’emozionarsi e il compatire. Lo Stato sociale e la politica di asilo sono nati per
sostituirsi alla carità, che è grandiosa e non si vanta e non si gonfia, ma è affidata al singolo o alla
Chiesa.
Infine la quarta considerazione: le guerre da cui evadono i “migranti” il più delle volte ci vedono
protagonisti. Le abbiamo attizzate noi, pretendendo di portare ordine e creando invece caos e Stati
disfatti: in Africa orientale, Afghanistan, Iraq, Somalia e Eritrea, Siria. I confini siriani che
scatenano conflitti, fu l’Europa coloniale a disegnarli. Gli esodi hanno a che vedere con noi.
Qualche tempo fa, in una trasmissione della radio tedesca (Südwestrundfunk, 26 giugno 2008, il
titolo era: Guerra nel Mediterraneo), venne intervistato un alto dirigente della Guardia di Finanza
italiana, Saverio Manozzi, arruolato nell’agenzia Frontex. Difficile dimenticare quello che ammise.
Più che salvare, i guardiani delle mura erano chiamati alla caccia, alle retate: «Ho avuto a che fare
con ordini secondo cui il respingimento consisteva nel salire a bordo dei barconi o delle navi, e nel
portar via i viveri e il carburante affinché i transfughi non potessero continuare il viaggio, e
facessero marcia indietro».
Salvataggi e aiuti sono considerati un azzardo morale,perché fomentano sempre nuovi immigrati.
Meglio dissuaderli con l’arma ultima: quasi 20.0000 affogati nel Mediterraneo, dal 1988. Si muore
anche appesi ai fili spinati di Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole sulle coste del Marocco. O
nelle acque del fiume Evros, ai confini fra Turchia e Grecia. In Francia, respinti sono i Rom.
Di azzardo moralesi parla molto in questi anni di crisi. È l’assillo dei moderni Creonte. Gli Stati
indebitati dell’Unione non vanno troppo aiutati: la solidarietà (welfare compreso) incita i viziosi a
rammollirsi, a peccare ancora e ancora. Se assicuri la casa dal fuoco, non baderai più ai fiammiferi
che accendi: ti rilasserai. La logica della polizza assicurativa si fonda sul sospetto, non sulla
promessa e il dover-essere di Antigone. Se cadi disteso per terra o nel fondo marino qualche colpa
ce l’avrai. Come dice Kafka: stramazzando susciterai ribrezzo, paura, perché dal tuo corpo emanerà
L’Europa muore perché muoiono le grandi idee e i sogni di coloro che ne sono stati padri fondatori, dopo l’ultima guerra mondiale. L’Europa muore perché è divenuta fiacca per sua stessa opulenza, perché ha perso il senso dell’ottimismo e della speranza del futuro, e perché non ha un progetto. Il luogo simbolo della morte dell’Europa non sono, più che le fabbriche chiuse, ma i mari del Canale di Sicilia e Lampedusa, dove l’Europa guarda indifferente e lascia morire i suoi fratelli. Il progetto dei padri fondatori per l’Europa era un’Europa solidale e una fraternità di popoli. A questo progetto, per paura dell’altro e del futuro, per l’egoismo e i vari nazionalismi, abbiamo abdicato.
(E.C.)
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Rassegna stampa
di Barbara Spinelli – il Fatto 9 ottobre 2013
Estratto del contributo di Barbara Spinelli al libro “Grammatica
dell’indignazione” edito da Gruppo Abele
Chi domina nell’Unione non è la Germania, o la Francia, e tantomeno la Gran Bretagna. Dominano i mercati, quindi il pilota automatico che è al loro servizio. Non è una prospettiva tranquillizzante, quando gli Stati s’accontentano della dottrina economica tedesca (che ciascuno faccia con massima diligenza i propri “compiti a casa”: solo dopo verranno – se verranno – la cooperazione, la solidarietà, gli eurobond, la statualità federale compiuta) e dopo essersi accontentati contemplano stupiti lo sconquasso che hanno provocato e si mettono a inveire contro gli indignati, o a gridare al flagello populista che incombe.
Come se il pericolo che corriamo fosse proprio questo: la rabbia vendicativa dei popoli, quelli immiseriti dalla crisi in Grecia, Italia o Spagna e quelli impauriti all’idea di pagare per tutti, come Germania o Olanda (…) É una menzogna questo inveire contro il nemico designato che sono i populismi antieuropei delusi dall’Unione, e ha toccato l’acme nel settembre del 2012, in una riunione del workshop Ambrosetti a Cernobbio, quando l’ex presidente del Consiglio Mario Monti ha reso esplicito il turbamento che più l’infastidiva: l’assalto di partiti e movimenti popolari contro le terapie recessive imposte ai Paesi debitori – dunque peccatori – dalle autorità di Bruxelles e dalla Germania che su di esse fa leva.
Citiamo testualmente le parole che Monti rivolse in quell’occasione al presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy, perché sono significative: “C’è il rischio che mentre la costruzione europea si perfeziona, le difficoltà dell’Eurozona facciano emergere grandi, crescenti e pericolosi fenomeni di rigetto nelle opinioni pubbliche dei vari Paesi, con tendenze all’antagonismo e populismi che mirano alla disgregazione” (i corsivi sono nostri). E ha proseguito: “La contrapposizione tra Paesi del Nord e del Sud dell’Europa fa riemergere vecchi stereotipi e vecchie tensioni. È paradossale e triste che mentre si sperava di completare l’integrazione europea si verifichi un pericoloso fenomeno opposto che mira alla disintegrazione dell’Europa. E questo avviene in quasi tutti i Paesi”.
Il fenomeno è senza dubbio triste ma non propriamente paradossale, se si considera che la cura di risanamento ha accentuato povertà e sofferenze in tanti Paesi del Sud Europa, senza riuscire dopo sforzi sì immani a ridurre il loro debito pubblico. Alla fine dell’estate 2013 si è cominciato a parlare di fine della recessione – di luce in fondo al tunnel – ma la redenzione non prelude a un Paradiso e neppure a una comune suddivisione di rischi presenti e futuri.
E lo stato di bisogno resta, nonostante quel lucore che s’intravvede nel tunnel. In Paesi come Grecia e Italia il tenore di vita è franato, con punte massime ad Atene: le risalite son più ardue delle discese. La disoccupazione giovanile raggiunge e supera nel Sud Europa il 50 per cento, e la ripresa promessa non sembra intaccarla. E aumenta il numero di chi vive sotto il livello di sussistenza, dimenticato dalla cassa integrazione e dall’assistenza pensionistica o medica. Paradossale è piuttosto la reazione alla sfida degli indignati e arrabbiati, comodamente ammucchiati da chi severamente li addita come fossero una falange compatta di antieuropei: la cosa giudicata più urgente e utile – tale fu nel settembre 2012 la proposta di Monti, entusiasticamente accolta da Van Rompuy – fu un ennesimo vertice europeo straordinario, da consacrare solennemente alla “lotta al populismo”.
In altre parole: il nemico cui vanno addossate le colpe più svariate della malattia europea è il malato. Su di esso si china – in posizione di lotta – il medico che l’ha ridotto in queste condizioni comatose. Il vertice anti-populismo non ha fortunatamente mai visto la luce. Ma l’idea che lo ha sorretto resta quella, e s’aggira come utile spettro nelle cancellerie e nei partiti dominanti: verrà ripescata, ogni volta che si farà vivo l’incubo populista sotto forma di spirito antagonista, cioè di idee e proposte che chiedono non solo cambi di governo ma autentiche alternative alle consumate democrazie nazionali, e alle dottrine professate con immutato sussiego dai prìncipi che pretendono di rappresentarci, e di proteggerci al tempo stesso dai mercati e dalla cosiddetta eurocrazia di Bruxelles.
Cosa viene esattamente minacciato dallo spirito antagonista, presto e disinvoltamente ribattezzato spirito disgregatore? Viene minacciata e annientata , così ripetono i sedicenti architetti nazionali dell’Unione, la “costruzione europea che si sta perfezionando”, ovvero la “speranza di completare l’integrazione”. Tutto andrebbe bene verso il migliore dei mondi possibili, la strada che si sta percorrendo è per definizione buona è giusta (come potrebbe non esserlo, visto che è “senza alternative”), ma purtroppo c’è chi paradossalmente e tristemente mostra di non credere nell’edificante Divina Commedia, nella buona novella dell’Europa veniente. Da una parte s’accalcano i reprobi che “rigettano” l’Europa, dal momento che rigettano i propri governanti e il dogma del “non-c’è-alternativa”: sono tutti coloro che invece di sperare nei presunti architetti dell’Unione hanno la faccia tosta di “far casino”, disordinando il bell’ordine esistente, le sue terrene gerarchie, le sue ferali farmacologie. Sono relegati nell’Inferno, nel girone insolentemente chiamato Periferia Sud. Dall’altra parte veleggiano gli eletti, nell’alto dei cieli: in continua ascesa, sicuri e benedetti da Dio, predestinati alla ricompensa.
Il terrore del casino è l’unica cosa veramente triste, anche se niente affatto paradossale perché i padroni nazionali dell’Unione europea difendono i loro posti e le loro regalie: è logico che agiscano in questo modo. Si sono dimenticati, nel redigere la loro Divina Commedia, la maestosa invenzione medievale che fu il Purgatorio. Non c’è scala né via di mezzo nell’immaginario dei potenti d’Europa, tra il male e il bene. Il Purgatorio è estromesso, perché potrebbe inopportunamente prefigurare l’improvvida, incessantemente temuta Alternativa. Eppure c’è qualcuno, papa Francesco ad esempio, che ha lo sguardo un po’ più lungo dei prìncipi terreni. Non dovrebbe essere così,perché il papa “rugumar può” – ha il compito di interpretare le sacre scritture, di fare il pastore del gregge – ma a differenza del prìncipe o dell’imperatore “non ha l’unghie fesse”, non distingue sempre tra quel che è bene e che è male per la variegata città politica (Purgatorio, XVI).
Ma come ai tempi di Dante, ci sono epoche in cui la benefica dualità svanisce e non resta in campo che una voce soltanto. Si direbbe che viviamo una di queste epoche. Ai potenti del mondo (comprese le alte gerarchie ecclesiastiche), il Pontefice ha detto che l’età del sopire e troncare ha fatto il suo tempo, che è l’ora di osare e sperimentare, senza installarsi nelle comodità e chiudersi in se stessi. È accaduto durante il viaggio in Brasile del luglio 2013: ha chiesto ai giovani e fedeli di “far casino” – lìo è la parola spagnola, vuol dire anche disordine, confusione – e di uscire per strada e non aver paura dell’aperto. “Quiero lío en las diócesis, quiero que se salga fuera. Quiero que la Iglesia salga a la calle. Quiero que nos defendamos de todo lo que sea mundanidad, instalación, comodidad, estar encerrados en nosotros mismos”.
GLI ARCHITETTI D’EUROPA subito s’avventerebbero contro uno che parlasse così, uno che addirittura ringrazia per il casino che vien fatto (“Èste es mi consejo: gracias por el lío que puedan hacer”). Lo bollerebbero come il peggiore dei populisti, degli indignados. Riterrebbero i suoi discorsi paradossali e tristi, e subito convocherebbero un vertice straordinario per far fronte alla provocazione.
Solo una civiltà che ha dimenticato di essere mortale ha questa spudorata sicurezza di sé. Tempo fa, dopo essersi chiamata per qualche anno Mercato comune e prima di chiamarsi Unione, l’Europa aveva scelto di darsi il nome di Comunità. Comunità è un concetto più solidale e amichevole di Unione. Forse è il caso di restituirle questo bel nome cui ha rinunciato, se è vero che ogni liberazione avviene così: impadronendosi delle parole, e volgendole contro le menzogne che s’ostinano a raccontarci.
Recentemente il sociologo coreano Byung-Chul Han ha proposto l’immagine della stanchezza come chiave interpretativa della nostra epoca. Qualcosa si è esaurito, è scaduto, è divenuto privo di forza. In contrasto solo apparente con questa stanchezza di fondo il nostro tempo sembra sostenuto da una corrente eccitatoria permanente.
Come intendere questa oscillazione bipolare tra frenesia e stanchezza? Tutti ci lamentiamo di come il tempo della nostra vita sia in costante accelerazione. Rocco Ronchi per definire questa tendenza ha evocato l’immagine della “mobilitazione generalizzata” con la quale Ernst Jünger aveva definito il tempo caotico della prima guerra mondiale. La nostra mobilitazione permanente non ha però come bussola la difesa del suolo, dell’identità, dei confini. Noi non abitiamo piuttosto il tempo della liquefazione di ogni identità, della contaminazione, della globalizzazione, della relativizzazione di tutti i confini?
Questo significa che l’attuale mobilitazione in cui tutti siamo coinvolti non ha un obbiettivo fuori dalla riproduzione di se medesima. Siamo tutti stanchi e al tempo stesso tutti mobilitati. Siamo bipolari, costretti a servire un principio di prestazione inflessibile e superegoico per poi riconoscerci esausti, sfiniti, senza più risorse. Questo paradosso lo indicava già Heidegger nella
sua diagnosi del nichilismo occidentale: il nostro tempo è il tempo della riduzione del mondo a pura risorsa da sfruttare illimitatamente. In questo senso la nostra stanchezza rivela la verità dell’iperattivismo che non affligge solo le vite dei bambini occidentali ma, ben più radicalmente, la vita stessa dell’Occidente.
La vita è esausta, spossata, afflitta da una stanchezza reattiva alle sirene dell’iperedonismo che, non dimentichiamolo, produce anche la precarietà sociale ed economica che è il vero volto dell’Occidente sotto la maschera della sua giostra maniacale. Marcuse aveva già messo in luce come il capitalismo avesse trasfigurato il principio freudiano di realtà nel principio di prestazione.
Una nuova forma di alienazione si delineava: non solo quella relativa allo sfruttamento della forza lavoro – secondo lo schema marxista –, ma quella di una nuova forma di oppressione
della vita costretta ad essere necessariamente produttiva, liberata dai vincoli oscurantisti della tradizione, ma asservita ad un nuovo padrone: la necessità della affermazione ad ogni costo della propria individualità. Ebbene, la stanchezza che ci affligge oggi non mostra forse il limite di questo mito antropologico? Non mostra la corda del sogno narcisistico di diventare padroni di noi stessi, di realizzare il nostro nome a prescindere da quello dell’Altro?
Facciamo due soli esempi. Il primo è quello del disagio giovanile che non si caratterizza più per il conflitto vitale tra le generazioni, ma per uno spegnimento del sentimento della vita. Al centro non è più il disagio tra la giovinezza che avanza le sue esigenze di trasformazione del mondo e l’ordine granitico dell’esistente, ma il disagio di un vita spenta, stanca, lontana dal desiderio. I sintomi attuali degli adolescenti che si rivolgono allo psicoanalista (violenza, alcoolismo, tossicomanie, dipendenza dall’oggetto tecnologico, anoressia, bulimia, isolamento, ecc.) hanno questa radice in comune: non scaturiscono più dalla dissonanza tra il desiderio e la realtà, ma da una specie di affaticamento del desiderio stesso. La vita che dovrebbe sbocciare nel tempo della sua primavera tende a contrarsi, a chiudersi su se stessa, a ripiegarsi. Questo movimento regressivo contrasta solo apparentemente con l’esaltazione maniacale di cui si nutre la nostra Civiltà poiché, in realtà, è solo l’altra faccia di quella medaglia.
Il secondo esempio riguarda uno dei grandi simboli dell’Occidente; è la stanchezza di Benedetto XVI che, sfinito, lascia il suo posto mostrando il volto umano del rappresentante ideale e normativo di Dio in terra. Cosa vi possiamo leggere? Non solo un dramma interno alla Chiesa Cattolica e alla necessità di un suo profondo rinnovamento. Esso rivela una stanchezza profonda nella vita di tutte le istituzioni che non sembra più in grado di essere animata da passioni profonde. Il senso religioso della vita e quello laico della polis sembrano entrambi esauriti. Si pensi solo alla stanchezza che avvolge la politica come tale. In questo tornante non è in gioco l’esperienza della perdita di tutti i valori, lo spettro minaccioso del nulla, della morte di Dio come accadde alle soglie del Novecento.
Oggi quel grande smarrimento ontologico lascia il posto al frastuono della vita spensierata, all’homo felix dedito alla ricerca compulsiva della “sensazione”, prigioniera della idolatria degli oggetti, integralmente esteticizzata. Al centro non v’è più il nulla che minaccia l’essere, ma un troppo pieno che ottunde, un eccesso di presenza, una mancanza della mancanza, come direbbe Lacan.
Eppure questa ultima grande crisi economica mostra tutti i segni della gravissima patologia che affligge l’Occidente. Siamo in un punto di snodo: dobbiamo provare a leggere la stanchezza attuale dell’Occidente non solo come l’effetto di una disillusione fondamentale delle false promesse di felicità del capitalismo, ma anche come una domanda di un altro mondo possibile.
L’uomo dell’Occidente è un uomo stanco della vita o di questa vita? Dovremmo provare a leggere in questa nostra stanchezza non solo una caduta depressiva della vita, ma anche l’esigenza di un’altra vita. Essa contiene già in sé una domanda latente di pausa, di sconnessione dalla connessione perpetua a cui siamo “obbligati”, contiene già una esigenza positiva di silenzio.
L’economista è intervenuto con una proposta alla 47a Settimana sociale dei Cattolici italiani in corso a Torino
DOMENICO AGASSO JR – Vatican Insider 13/09/2013
TORINO
Ha lanciato la proposta dei “vif” – “valutazione di impatto familiare” – e ha promosso l’iniziativa dei distretti familiari, Stefano Zamagni, ordinario di Economia politica all’Università di Bologna, intervenuto in mattinata a Torino alla 47a edizione delle Settimane sociali dei Cattolici italiani con una relazione su “Le politiche familiari per il bene comune”. A margine della sua conferenza si è chiesto: in Italia c’è già il “via”, la valutazione di impatto ambientale, perché non introdurre il “vif”, la valutazione di impatto familiare? Ossia una procedura amministrativa di sostegno alle autorità decisionali istituzionali finalizzata a individuare, descrivere e valutare gli impatti sulle famiglie prodotti dalla realizzazione di un determinato progetto o iniziativa legislativa.
“Se il matrimonio crolla, crolla la famiglia”, ha sottolineato Zamagni, avvertendo che è urgente domandarsi “cosa occorre fare perché l’unione coniugale generi unità familiare”. L’economista ha espresso la tesi secondo cui “nel prossimo futuro la famiglia come istituzione è destinata a tornare al centro dell’attenzione, sia a livello politico che culturale”, perché il passaggio dal welfare State, basato sull’individuo, alla “welfare society”, basata sul nucleo familiare, “riporterà in auge la famiglia”; e poi, c’è un altro motivo: anche il mondo degli imprenditori “ha riscoperto la famiglia” intesa come “fattore decisivo per la competitività e l’innovazione”. Tra famiglia e imprese, ha dichiarato Zamagni, deve crearsi un accordo di “reciprocità”: “Se l’azienda risponde ai bisogni della famiglia, il lavoratore dà il meglio di se stesso, se invece non lo fa, si limiterà a rispettare orari e regole, ma non darà il meglio di sé”. Terzo motivo, la “curva della felicità”: a parità di condizioni, “chi vive in famiglia dichiara un indice di felicità superiore a chi sta da solo”. Sono questi i tre elementi che fanno dire all’economista che la famiglia è destinata ad avere sempre più spazio e importanza riconosciuta nel panorama pubblico e istituzionale.
Nel suo intervento Zamagni, a proposito di politiche familiari, ha parlato dell’esperienza del “distretto famiglia”, attivo per adesso in tre Regioni italiane, sull’esempio di quanto già avviato dalla Provincia di Trento come “sistema integrato per la promozione del benessere familiare e della natalità”, e successivamente riprodotto in altri contesti. “L’idea di fondo del distretto famiglia – ha spiegato Zamagni – è consentire la costruzione di alleanze locali per la famiglia, come avviene in Germania. La cifra del distretto è la governance di tipo societario, secondo cui tutti i soggetti realmente interessati al benessere delle famiglie, uniscono conoscenze, risorse economiche, beni relazionali, capacità imprenditoriali per la realizzazione di progetti concreti e non per proposte o desideri vari”.
La fede, la scienza, il male. Un dialogo a distanza fra Benedetto XVI e il matematico
pubblicato su La Repubblica il 24 settembre 2013
ll. mo Signor Professore Odifreddi, (…) vorrei ringraziarLa per aver cercato fin nel dettaglio di confrontarsi con il mio libro e così con la mia fede; proprio questo è in gran parte ciò che avevo inteso nel mio discorso alla Curia Romana in occasione del Natale 2009. Devo ringraziare anche per il modo leale in cui ha trattato il mio testo, cercando sinceramente di rendergli giustizia.
Il mio giudizio circa il Suo libro nel suo insieme è, però, in se stesso piuttosto contrastante. Ne ho letto alcune parti con godimento e profitto. In altre parti, invece, mi sono meravigliato di una certa aggressività e dell’avventatezza dell’argomentazione. (…)
Più volte, Ella mi fa notare che la teologia sarebbe fantascienza. A tale riguardo, mi meraviglio che Lei, tuttavia, ritenga il mio libro degno di una discussione così dettagliata. Mi permetta di proporre in merito a tale questione quattro punti:
1. È corretto affermare che “scienza” nel senso più stretto della parola lo è solo la matematica, mentre ho imparato da Lei che anche qui occorrerebbe distinguere ancora tra l’aritmetica e la geometria. In tutte le materie specifiche la scientificità ha ogni volta la propria forma, secondo la particolarità del suo oggetto. L’essenziale è che applichi un metodo verificabile, escluda l’arbitrio e garantisca la razionalità nelle rispettive diverse modalità.
2. Ella dovrebbe per lo meno riconoscere che, nell’ambito storico e in quello del pensiero filosofico, la teologia ha prodotto risultati durevoli.
3. Una funzione importante della teologia è quella di mantenere la religione legata alla ragione e la ragione alla religione. Ambedue le funzioni sono di essenziale importanza per l’umanità. Nel mio dialogo con Habermas ho mostrato che esistono patologie della religione e – non meno pericolose – patologie della ragione. Entrambe hanno bisogno l’una dell’altra, e tenerle continuamente connesse è un importante compito della teologia.
4. La fantascienza esiste, d’altronde, nell’ambito di molte scienze. Ciò che Lei espone sulle teorie circa l’inizio e la fine del mondo in Heisenberg, Schrödinger ecc., lo designerei come fantascienza nel senso buono: sono visioni ed anticipazioni, per giungere ad una vera conoscenza, ma sono, appunto, soltanto immaginazioni con cui cerchiamo di avvicinarci alla realtà. Esiste, del resto, la fantascienza in grande stile proprio anche all’interno della teoria dell’evoluzione. Il gene egoista di Richard Dawkins è un esempio classico di fantascienza. Il grande Jacques Monod ha scritto delle frasi che egli stesso avrà inserito nella sua opera sicuramente solo come fantascienza. Cito: “La comparsa dei Vertebrati tetrapodi… trae proprio origine dal fatto che un pesce primitivo “scelse” di andare ad esplorare la terra, sulla quale era però incapace di spostarsi se non saltellando in modo maldestro e creando così, come conseguenza di una modificazione di comportamento, la pressione selettiva grazie alla quale si sarebbero sviluppati gli arti robusti dei tetrapodi. Tra i discendenti di questo audace esploratore, di questo Magellano dell’evoluzione, alcuni possono correre a una velocità superiore ai 70 chilometri orari…” (citato secondo l’edizione italiana Il caso e la necessità, Milano 2001, pagg. 117 e sgg.).
In tutte le tematiche discusse finora si tratta di un dialogo serio, per il quale io – come ho già detto ripetutamente – sono grato. Le cose stanno diversamente nel capitolo sul sacerdote e sulla morale cattolica, e ancora diversamente nei capitoli su Gesù. Quanto a ciò che Lei dice dell’abuso morale di minorenni da parte di sacerdoti, posso – come Lei sa – prenderne atto solo con profonda costernazione. Mai ho cercato di mascherare queste cose. Che il potere del male penetri fino a tal punto nel mondo interiore della fede è per noi una sofferenza che, da una parte, dobbiamo sopportare, mentre, dall’altra, dobbiamo al tempo stesso, fare tutto il possibile affinché casi del genere non si ripetano. Non è neppure motivo di conforto sapere che, secondo le ricerche dei sociologi, la percentuale dei sacerdoti rei di questi crimini non è più alta di quella presente in altre categorie professionali assimilabili. In ogni caso, non si dovrebbe presentare ostentatamente questa deviazione come se si trattasse di un sudiciume specifico del cattolicesimo.
Se non è lecito tacere sul male nella Chiesa, non si deve però, tacere neppure della grande scia luminosa di bontà e di purezza, che la fede cristiana ha tracciato lungo i secoli. Bisogna ricordare le figure grandi e pure che la fede ha prodotto – da Benedetto di Norcia e sua sorella Scolastica, a Francesco e Chiara d’Assisi, a Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, ai grandi Santi della carità come Vincenzo dè Paoli e Camillo de Lellis fino a Madre Teresa di Calcutta e alle grandi e nobili figure della Torino dell’Ottocento. È vero anche oggi che la fede spinge molte persone all’amore disinteressato, al servizio per gli altri, alla sincerità e alla giustizia. (…)
Ciò che Lei dice sulla figura di Gesù non è degno del Suo rango scientifico. Se Lei pone la questione come se di Gesù, in fondo, non si sapesse niente e di Lui, come figura storica, nulla fosse accertabile, allora posso soltanto invitarLa in modo deciso a rendersi un po’ più competente da un punto di vista storico. Le raccomando per questo soprattutto i quattro volumi che Martin Hengel (esegeta dalla Facoltà teologica protestante di Tübingen) ha pubblicato insieme con Maria Schwemer: è un esempio eccellente di precisione storica e di amplissima informazione storica. Di fronte a questo, ciò che Lei dice su Gesù è un parlare avventato che non dovrebbe ripetere. Che nell’esegesi siano state scritte anche molte cose di scarsa serietà è, purtroppo, un fatto incontestabile. Il seminario americano su Gesù che Lei cita alle pagine 105 e sgg. conferma soltanto un’altra volta ciò che Albert Schweitzer aveva notato riguardo alla Leben-Jesu-Forschung (Ricerca sulla vita di Gesù) e cioè che il cosiddetto “Gesù storico” è per lo più lo specchio delle idee degli autori. Tali forme mal riuscite di lavoro storico, però, non compromettono affatto l’importanza della ricerca storica seria, che ci ha portato a conoscenze vere e sicure circa l’annuncio e la figura di Gesù.
(…) Inoltre devo respingere con forza la Sua affermazione (pag. 126) secondo cui avrei presentato l’esegesi storico-critica come uno strumento dell’anticristo. Trattando il racconto delle tentazioni di Gesù, ho soltanto ripreso la tesi di Soloviev, secondo cui l’esegesi storico-critica può essere usata anche dall’anticristo – il che è un fatto incontestabile. Al tempo stesso, però, sempre – e in particolare nella premessa al primo volume del mio libro su Gesù di Nazaret – ho chiarito in modo evidente che l’esegesi storico-critica è necessaria per una fede che non propone miti con immagini storiche, ma reclama una storicità vera e perciò deve presentare la realtà storica delle sue affermazioni anche in modo scientifico. Per questo non è neppure corretto che Lei dica che io mi sarei interessato solo della metastoria: tutt’al contrario, tutti i miei sforzi hanno l’obiettivo di mostrare che il Gesù descritto nei Vangeli è anche il reale Gesù storico; che si tratta di storia realmente avvenuta. (…)
Con il 19° capitolo del Suo libro torniamo agli aspetti positivi del Suo dialogo col mio pensiero. (…) Anche se la Sua interpretazione di Gv 1,1 è molto lontana da ciò che l’evangelista intendeva dire, esiste tuttavia una convergenza che è importante. Se Lei, però, vuole sostituire Dio con “La Natura”, resta la domanda, chi o che cosa sia questa natura. In nessun luogo Lei la definisce e appare quindi come una divinità irrazionale che non spiega nulla. Vorrei, però, soprattutto far ancora notare che nella Sua religione della matematica tre temi fondamentali dell’esistenza umana restano non considerati: la libertà, l’amore e il male. Mi meraviglio che Lei con un solo cenno liquidi la libertà che pur è stata ed è il valore portante dell’epoca moderna. L’amore, nel Suo libro, non compare e anche sul male non c’è alcuna informazione. Qualunque cosa la neurobiologia dica o non dica sulla libertà, nel dramma reale della nostra storia essa è presente come realtà determinante e deve essere presa in considerazione. Ma la Sua religione matematica non conosce alcuna informazione sul male. Una religione che tralascia queste domande fondamentali resta vuota.
Ill. mo Signor Professore, la mia critica al Suo libro in parte è dura. Ma del dialogo fa parte la franchezza; solo così può crescere la conoscenza. Lei è stato molto franco e così accetterà che anch’io lo sia. In ogni caso, però, valuto molto positivamente il fatto che Lei, attraverso il Suo confrontarsi con la mia Introduzione al cristianesimo, abbia cercato un dialogo così aperto con la fede della Chiesa cattolica e che, nonostante tutti i contrasti, nell’ambito centrale, non manchino del tutto le convergenze.
Con cordiali saluti e ogni buon auspicio per il Suo lavoro.
Scrive Luigi Accattoli nel suo blog, il 27 agosto us: “<<Giorni feriali / ore 08.00 / Santa Messa / con breve omelia>>: cartello a stampa sul cancello in capo alla scalinata che immette nel sagrato della chiesa dei Cappuccini a Sestri Levante. Dai gradini della chiesa regale veduta sulla Baia del Silenzio e sull’Isola di Sestri, oggi penisola”.
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Una provocazione.
Capita spesso di sentirlo dire, ovviamente da cattolici zelanti, proprio perché loro a Messa ci vanno: “Domenica vado alla Messa di don X, perché in 30 minuti siamo fuori”. Oppure “la migliore Messa in paese è alla Chiesa di S. X, perché dura solo 30 minuti. Fa una predica brevissima”.
Lasciamo stare che non sempre noi preti siamo altezza della Parola di Dio che stiamo spiegando alla gente, e che si suppone abbiamo spiritualmente interiorizzato e vissuto, prima di porgerla agli altri. Al Card. Ratzinger, non so se a torto o a ragione, viene attribuita una battuta spiritosa: “Credo nella divinità di Cristo e della Chiesa, perché ogni domenica essa sopravvive qualche milione di omelie”.
Qualche anima devota potrà storcere il muso, come se si volesse parlar male dei preti per puro spirito di contestazione. La verità è che ci sono moltissimi preti che “si preparano” l’omelia prima di salire all’altare. E preparare non significa “la lezione”. Piuttosto significa che prima della Messa, si preparano spiritualmente al sacramento che stanno per celebrare insieme al loro popolo.
Il punto di questa riflessione è un altro.
Si può dire che la Messa è migliore perché il prete se ne esce in 30 minuti?
Sorge spontanea la domanda: Ma per chi parla così, la Messa cos’è, una odiosa tassa da pagare alla Chiesa per “togliersi il pensiero del precetto domenicale” e per garantirsi dei punti per l’ingresso in paradiso?
Siamo alla stregua della società dei punti, dove se fai la spesa sempre nello stesso supermercato, oppure la benzina allo stesso distributore, viene data una tessera su cui l’esercente carica i punti, raggiunti il massimo dei quali si vince un premio?
Se un numero considerevole delle persone all’interno delle comunità pensa che la migliore messa è quella con la predica corta, o senza predica, in parte può dipendere da noi preti, ma resta un fatto: per molti cristiani la Messa è l’unica forma di partecipazione attiva alla vita della Chiesa e al suo culto.
Ora, qui potremmo tirar fuori tutti i ragionamenti del caso: “a Messa non si va per dovere ma per amore”; “Non si va a Messa per il prete o la predica, ma per Gesù”… Tutti ragionamenti giusti. Ma ce n’è uno ancora più elementare, che affronta la questione senza dover fare alta filosofia. Quale?
Parliamo della Messa domenicale. Quand’anche essa dovesse durare 60 minuti, si solleverebbero le critiche di molti: “Questa Messa non finisce più!” Ma, se facciamo i conti, della nostra settimana, molti dedicano a Dio un tempo totale di 60 minuti. Se anche la Messa durasse tanto, stiamo parlando di un’ora. Un’ora dedicata a Dio, alla Comunità e alle cose dello spirito. Il resto della settimana se ne andrà occupandosi delle cose della materia. Denaro in cima.
Facciamo una considerazione. Le messe hanno una durata diversa anche quando l’omelia avesse la stessa durata. Perché? In un giorno feriale la Messa è spesso priva di canti e animazioni e con 10 minuti di omelia la Messa può durare anche solo 35 minuti. Ma la domenica, se tutte le parti importanti sono cantate (solo il canto del gloria può durare anche 5-7 minuti) ed è presenta la corale che canta, la stessa Messa con l’omelia di 10 minuti può durare fino a 60 minuti. A questo punto dobbiamo chiederci? Cos’è che non tollero veramente? L’omelia o la durata della messa? A quanta gente si sente dire: io vado in quella parrocchia perché la domenica, in 30 minuti, siamo fuori.
A questo punto vanno dette due cose:
a) la durata di un’omelia non dovrebbe superare i 10 minuti. A tutti i sacerdoti capita, però, di andare oltre questo limite, di tanto in tanto. Le ragioni possono essere tante. E se chi parla sa toccare profondamente i cuori, anche 15 minuti di omelia saranno accolti come ossigeno puro. E per quanto si voglia essere maligni, di preti che sanno parlare al cuore ve ne sono più di quanto si voglia ammettere.
b) per chi non è interessato al vangelo, al mistero che sta celebrando ma è lì solo per una ricorrenza (un funerale, un matrimonio), nessuna parola riuscirà mai a penetrare la corazza del cuore, neanche se a predicare fosse Giovani il Battista in persona.
Poniamoci adesso la domanda più importante: ma perché vado a Messa? E perché ho scelto questa messa a quest’ora e non un’altra? Quando vado a Messa, cosa cerco davvero? Cerco di allargare gli spazi interiori di Dio nella mia vita o cerco solo di compiere un togliermi il pensiero? Se andare a Messa mi fa sentire in catene meglio che non vada.
Stiamo celebrando un mistero, quello dell’Amore infinito di Dio che nel sacrificio del suo Figlio salva l’umanità, o stiamo pagando un dazio, per garantirci il certificato di buona condotta?
Considerando quello che c’è in gioco, dire “Vado a messa da don X perché dura solo 30 minuti” solleva una viva preoccupazione. Meglio una Messa di 60 minuti, durasse anche tanto per un’omelia di 25 minuti, ben sapendo che anche il prete deve essere umile e saper quando staccare.
Ma porre un cartello sulla porta della Chiesa, che dice: “Venite gente, l’omelia sarà breve“, questo no.
Il dato di partenza è che la «globalizzazione, nelle sue forme e manifestazioni attuali, funziona molto male e produce un’enormità di danni. Così ho cercato di fare due cose: primo, segnalare i problemi irrisolti e far capire che così le cose non vanno; secondo, indicare i correttivi da adottare per far sì che la globalizzazione eserciti gli effetti positivi che sono nel suo potenziale». A passeggio per il campus della Columbia University, il Nobel per l’Economia del 2001, J0seph Stiglitz, prova a sintetizzare il senso della sua nuova fatica letteraria: Making globalization work, pubblicato dall’editrice Norton, in uscita oggi in Italia col titolo La globalizzazione che funziona (Einaudi, pagg. 336, euro 16,50; l’economista sarà a Torino, alle 18 di martedì 14, nell’ Aula Magna del Politecnico).
Professor Stiglitz, se il suo libro precedente (La globalizzazione e i suoi Joseph Stiglitz oppositori) era destinato ai policy makers, ora sembra rivolgersi al variegato mondo ‘no global’, per aiutarlo a uscire dall’angolo dell’opposizione fine a sé stessa. Conferma questa impressione? «In parte. E’ vero che in questo secondo libro cerco di indicare i correttivi alle principali distorsioni del sistema, e quindi in qualche modo di infondere una maggior dose di ottimismo sulla possibilità di trasformare i processi di globalizzazione. Ma ho soprattutto cercato di descriverne tutte le storture, dalla distribuzione ineguale delle risorse all’assoluto deficit di democrazia dei processi decisionali. Quindi, se da un lato è vero che il libro vuole offrire una prospettiva politica a quanti contestano la globalizzazione, dicendo loro “ci sono cose che si possono fare in modo molto più costruttivo che non standosene seduti a dire no su tutto”, dall’altro cerca di rivolgersi a una platea più vasta per cercare di accrescere la consapevolezza dei problemi. Vede, voi in Italia avete già un movimento “no global” molto forte, mentre da noi, qui in America, la stragrande maggioranza delle persone accetta tutto quel che le accade intorno in modo completamente passivo. E questo è pericoloso».
Proviamo a definirli, questi processi. Che le imprese vadano in giro per il mondo alla ricerca di nuovi mercati, non è certo una novità. In cosa consiste il salto di qualità? «Nel fatto che sono saltate tutte le regole del gioco, e che i soggetti più forti – cioè le grandi multinazionali – stanno cercando, con successo, di ridefinirle a loro esclusivo vantaggio. Una volta la ricerca del profitto era temperata da vincoli geografici e politici, dagli Stati nazione, dalle leggi, dalla nascita del movimento sindacale, dai sistemi di protezione sociale. Oggi tutto questo sta saltando, e chi prende le decisioni lo fa in modo del tutto arbitrario, senza alcuna controparte. Per questo cerco di mettere in evidenza quello che a mio avviso è il problema più grave, il deficit di democrazia. Prendiamo per esempio la questione della proprietà intellettuale. Lei pensa che se si mettesse ai voti una legge che autorizza le case farmaceutiche a negare ai Paesi poveri l’accesso ai farmaci per malattie gravi, di cui esiste la cura, questa legge verrebbe approvata? No di certo. E invece le cose vanno esattamente in questa direzione perché, appunto, le nuove regole del gioco sfuggono a qualsiasi controllo democratico. L’altro elemento dirompente è la velocità delle trasformazioni, che rendono difficile cercare di far fronte ai cambiamenti che impongono alle comunità” direttamente interessate».
Immagino si riferisca alla delocalizzazione delle imprese. Ma lo spostamento dei posti di lavoro dell’industria manifatturiera dai Paesi ricchi a quelli in via di sviluppo non è, in fondo, una forma di redistribuzione del reddito da accogliere positivamente? «Certo che sì. Peccato che, visti i soggetti interessati, si tratti di reddito che si sposta dai poveri dei Paesi ricchi ai poveri dei Paesi poveri, cioè dai poveri ai poverissimi. E’ già qualcosa, ma sarebbe auspicabile che il processo riguardasse anche i ricchi veri, che invece non ne vengono in alcun modo coinvolti. E poi c’è un problema in più: che ci piaccia o meno, viviamo ancora in strutture di tipo comunitario, che hanno meccanismi propri di solidarietà e di consenso. Per questo motivo nel libro cerco di mettere in guardia da un rischio concreto: che una globalizzazione incontrollata, senza sistemi di compensazione, possa alla fine suscitare delle reazioni di rigetto tali da bloccare e far regredire gli stessi processi di globalizzazione».
Torniamo alla questione della democrazia. Lei cita la Cina, e i vincoli che ha imposto ai flussi di capitali a breve termine, come uno degli esempi migliori di contrasto degli eccessi della globalizzazione. Eppure la Cina tutto è fuorché un Paese democratico. «E’ vero. Ma la Cina, che ha aperto al suo interno un dibattito importante sulla compatibilità sociale del proprio sviluppo economico, pur essendo antidemocratica si sta ponendo seriamente un problema d’interesse generale sulle condizioni di vita della popolazione. Quando sostengo che solo un investimento in democrazia può contrastare le pulsioni peggiori della globalizzazione, faccio un’equazione molto semplice: la maggior parte della popolazione sta alla base della piramide sociale, e un governo democratico è più incline a tenere conto delle istanze di tutti. Se poi vogliamo dire che questo non è di per sé una garanzia, perché le nostre democrazie spesso sono corrotte, questo purtroppo è innegabile».
Lei scrive della creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio, il Wto, come di un enorme successo. Mentre quell’istituzione, agli occhi di molti, è il demonio. «Questo è un esempio di quel che dicevo prima a proposito dell’esigenza, ma anche della possibilità, di modificare il corso delle cose. Certo che il Wto è un club elitario, certo che i processi decisionali al suo interno non sono democratici, e certo che i Paesi più ricchi cercano di usarlo per strappare condizioni di maggior favore. Sono tutte cose vere, su cui i governi prima o dopo dovranno agire. Però quella è l’unica sede esistente in cui si prendono decisioni, che alla fine vincolano tutti, sulla regolazione dei commerci mondiali. Se non esistesse gli Stati Uniti sarebbero in grado di dettare legge ovunque e contro tutti, mentre cosl sono costretti a stare al gioco: magari sbattono i pugni sul tavolo, ma alla fine sono costretti a ingoiare. E’ già successo in più d’una occasione».
Lei è stato per anni il chiefeconomist della Banca mondiale. Come ha fatto a resistere? «Se solo sapesse quanta gente n dentro la pensa esattamente come me».
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