Torturato e ucciso perché non si converte all’Islam

Non si converte all’islam: cristiano irakeno torturato e ucciso da miliziani dello Stato islamico

Da oltre tre settimane Salem Matti Kourk era barricato in casa per sfuggire agli islamisti. Terminate le scorte, egli è uscito in cerca di cibo ed è stato fermato, picchiato a morte e abbandonato in strada. Per il Patriarcato caldeo è “un altro martire, vittima della follia estremista”. Nella capitale un’autobomba uccide un giovane studente della comunità siro-cattolica.

 

AsiaNews 02/09/2014

 

Baghdad  – In Iraq nuovo sangue cristiano viene versato per mano delle milizie dello Stato islamico, che hanno avviato da tempo una “persecuzione continua” contro civili inermi, fra cui bambini. Fonti del Patriarcato caldeo riferiscono ad AsiaNews che ieri a Bartalah, una cittadina a maggioranza siriaca della piana di Ninive occupata da settimane, i fondamentalisti sunniti hanno torturato e ucciso un cristiano; egli era parte di un piccolo gruppo, che ha deciso di rimanere nelle proprie case all’arrivo dei miliziani jihadisti. Secondo quanto riferisce un testimone, il “martire” – come viene definito dal Patriarcato – è un uomo di 43 anni, Salem Matti Kourki, deceduto ieri in seguito alle torture e alle violenti percosse subite dai terroristi, per essersi rifiutato di convertirsi all’islam.

Uno dei familiari di Salem spiega che l’uomo, affetto da problemi cardiaci, non ha potuto abbandonare la cittadina di Bartalah assieme alla famiglia, al momento dell’invasione degli islamisti, l’8 agosto scorso. Egli è rimasto rintanato all’interno della propria abitazione per oltre tre settimane, alimentandosi grazie alle poche scorte accumulate nella dispensa. Ieri, 1 settembre, avendo terminato cibo e acqua, egli è uscito di casa dopo un lungo periodo per recuperare qualche genere alimentare con cui nutrirsi.

Tuttavia, egli si è imbattuto in un punto di controllo dell’Is di fronte alla chiesa della Vergine Maria, in pieno centro cittadino, ed è stato subito arrestato. I miliziani hanno cercato di convertirlo (a forza) all’islam, ma egli ha opposto un netto rifiuto. I fondamentalisti lo hanno picchiato e torturato, fino a provocarne la morte, per poi abbandonarlo in strada. Il suo cadavere è stato rinvenuto qualche ora più tardi da alcuni arabi della cittadina, che lo hanno prelevato e sepolto.

Per onorare al meglio la memoria del “martire” Salem, il prossimo 5 settembre nella chiesa siro-ortodossa di Oum El Nour ad Ankawa, sobborgo cristiano di Erbil, nel Kurdistan irakeno, si terrà una cerimonia funebre.

Intanto si contano nuove vittime cristiane anche nella capitale, Baghdad. Secondo quanto riferisce mons. Pius Qasha Khoury, della chiesa siro-cattolica di Mansour/Baghdad, uno dei parrocchiani è stato ucciso nell’esplosione di un’autobomba. L’ordigno è esploso nell’area di Bayaa, alle 9 di sera di ieri, primo settembre. Il prelato ha inoltre aggiunto che il giovane “martire” Fadi Nabil Ibrahim Abbush era nato nel 1994 e frequentava il secondo anno del college. Il ragazzo era conosciuto all’interno della comunità della capitale per il buon carattere, l’impegno e la partecipazione assidua – assieme a tutta la famiglia – alle attività della chiesa locale.

Africa, «oggi terra di martiri»

cristiani-martiri in africa

Continua la strage dei cristiani. Il Direttore di Missioni Consolata: riscoprire questa storia di fede nel sangue, sulla scia di Paolo VI che canonizzò i Santi d’Uganda GEROLAMO

FAZZINI – Vatican Insider 9/07/2014

MILANO Il 9 luglio 1989, esattamente 25 anni fa, nei pressi della cattedrale, veniva ucciso monsignor Salvatore Colombo, vescovo di Mogadiscio, capitale della Somalia. Con ogni probabilità il responsabile (a oggi impunito)  va cercato nelle file dei fondamentalisti musulmani. A un quarto di secolo di distanza, sono gli estremisti islamici del famigerato gruppo Boko Haram a seminare morte in Nigeria e nelle zone confinanti. L’ultima strage è di pochi giorni fa: un centinaio di vittime sono morte dopo l’incendio di alcune chiese dei villaggi nei dintorni di Chibok, la stessa località (nel nord-est del paese) dove lo scorso aprile sono  state rapite 270 studentesse. Insomma: «L’Africa di oggi è terra di martiri». Lo scrive a chiare lettere padre Gigi Anataloni, direttore di Missioni Consolata nell’editoriale dell’ultimo numero del mensile. Continua Anataloni, che in Africa ha svolto lunghi anni di ministero, sempre nel campo dei media: «Dall’Egitto alla Libia, dalla Somalia al Centrafrica, dalla Nigeria al Kenya, dal Sudan alla Sierra Leone, dal Rwanda alla Rd Congo (e l’elenco non è completo), migliaia di cristiani testimoniano, a prezzo della vita, la loro fede nel Dio di Gesù Cristo».

Poi il j’accuse: «Ogni tanto qualche nome attira l’attenzione dei media, come quello di Meriam, la madre sudanese, o quelli dei due missionari rapiti e liberati in Cameroon. La maggior parte, centinaia (forse addirittura migliaia) di cristiani spariscono nell’anonimato dei massacri di massa o dell’indifferenza generalizzata». In effetti, a parte alcune pubblicazioni specialistiche (da ricordare quelle a firma del comboniano Neno Contran, missionario e giornalista), il martirologio africano è poco noto. «Per anni l’Africa è stata timida a parlare dei suoi martiri – osserva Anataloni – Chi ha mai sentito parlare dei 149 “martiri di Mombasa”, uccisi nel 1631? Chi ha mai considerato come martiri gli innumerevoli cristiani uccisi nei secoli in Egitto o quelli rapiti, venduti e schiavizzati in Etiopia? E le vittime dei Simba (1964) in Congo? I 70 martiri Kikuyu uccisi dai Mau Mau tra il 1951 e il 1954? E i martiri di Guiua in Mozambico (uccisi tra il 1975 e il 1992)?».

Ora – sottolinea padre Anataloni – si presenta un’occasione speciale per riscoprire questa storia luminosa di fede e di sangue. «L’8 ottobre 1964, cinquanta anni fa, papa Paolo VI dichiarava santi i 22 martiri d’Uganda, uccisi tra il 1885 e il 1887 per ordine di re Mwanga II, e scriveva: “Questi Martiri Africani aggiungono all’albo dei vittoriosi, qual è il Martirologio, una pagina tragica e magnifica, veramente degna di aggiungersi a quelle meravigliose dell’Africa antica, che noi moderni, uomini di poca fede, pensavamo non potessero avere degno seguito mai più. […] Questi Martiri Africani aprono una nuova epoca; oh! non vogliamo pensare di persecuzioni e di contrasti religiosi, ma di rigenerazione cristiana e civile. L’Africa, bagnata dal sangue di questi Martiri, primi dell’èra nuova (oh, Dio voglia che siano gli ultimi, tanto il loro olocausto è grande e prezioso!),  risorge libera e redenta”». Commenta Anataloni: «Paolo VI si augurava un’Africa risorta, libera e redenta. Un auspicio che si scontra ancora oggi con una dura realtà di violenza, sfruttamento, ingiustizie e guerre. Che il sangue di tanti uomini e donne pacifici, nonviolenti, inermi e innamorati di Dio, sia davvero fecondo di pace, giustizia e armonia per tutta l’Africa».

40 Seminaristi Martiri Burundesi

Martiri_seminario_Buta

http://www.santiebeati.it/dettaglio/38100

Buta, Burundi, 30 aprile 1997

Il 30 aprile 1997 vennero assassinati 40 giovanissimi allievi del Seminario di Buta (diocesi di Bururi), appartenenti alle etnie hutu e tutsi, per non essersi voluti separare gli uni dagli altri. Jolique Rusimbamigera, studente nel Seminario di Buta, seppur ferito gravemente scampò al tragico massacro. Un anno dopo rese la seguente testimonianza:”Erano tantissimi, mi sono sembrati cento.

Sono entrati nel nostro dormitorio, quello delle tre classi del ciclo superiore, e hanno sparato in aria quattro volte per svegliarci… Subito hanno cominciato a minacciarci e, passando fra i letti, ci ordinavano di dividerci, hutu da una parte e tutsi dall’altra. Erano armati fino ai denti: mitra, granate, fucili, coltellacci…Ma noi restavamo raggruppati! Allora il loro capo si è spazientito e ha dato l’ordine: “Sparate su questi imbecilli che non vogliono dividersi”.

I primi colpi li hanno tirati su quelli che stavano sotto i letti… Mentre giacevamo nel nostro sangue, pregavamo e imploravamo il perdono per quelli che ci uccidevano. Sentivo le voci dei miei compagni che dicevano: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Io pronunciavo le stesse parole dentro di me e offrivo la mia vita nelle mani di Dio”.

* * *

Dopo i martiri per la fede, quelli della purezza e della carità, dal 30 aprile 1997 abbiamo anche i “martiri dell’amicizia”. In quella data, infatti, 40 seminaristi del Burundi sono stati massacrati in nome dell’amicizia e della fratellanza che volevano difendere a tutti i costi, offrendo così una testimonianza preziosa per il nostro tempo, ancora caratterizzato dalla divisione etnica, dall’odio razziale e dalle discriminazioni.

La “Svizzera dell’Africa” (come un tempo era considerato il Burundi) negli Anni Novanta è attraversata da profondi e sanguinosi scontri tribali, che oppongono la maggioranza etnica prevalente degli Hutu ai minoritari Tutsi. Scandalosamente ciò avviene in un paese al 99% cristiano e per oltre il 75% cattolico. Inevitabile che la situazione dell’intero paese si rifletta anche nelle scuole e nei seminari, con una rigida suddivisione dei dormitori, degli spazi di gioco e delle aule tra le due etnie.

Mentre molti istituti devono chiudere i battenti per le forti tensioni interetniche, il seminario di Buta, nel sud del Burundi. diventa un’isola felice e un concreto esempio di serena convivenza, grazie al nuovo rettore che lavora molto per abbattere le frontiere e per creare un clima di amicizia tra gli studenti. Il suo sapiente accompagnamento spirituale riesce pian piano a far superare il clima di odio e di vendetta che si respira ovunque.

Inutile dire che, se da un lato l’esperienza di questo seminario dimostra con i fatti che l’amore di Cristo è più forte delle barriere razziali, dall’altro finisce per rappresentare il più solenne smacco per i “signori della guerra”, che proprio sull’impossibilità dell’intesa tra hutu e tutsi fondano il loro infernale progetto di violenza e di morte. “Dio è buono e noi lo abbiamo incontrato”, cantano e ripetono i seminaristi, al ritorno da un ritiro nella loro ultima Pasqua che ha fornito basi ancor più solide alla loro spiritualità.

In un clima surreale, con il seminario costantemente presidiato dai militari tutsi, sotto la martellante istigazione alla violenza propagandata dalla televisione, con le notizie a raffica di massacri e genocidi della popolazione civile che fanno vivere in un clima di costante terrore e di preoccupazione per la sorte delle loro famiglie, i seminaristi cercano di farsi vicendevolmente forza e coraggio, cercando di mantenere pressoché inalterato il ritmo delle loro attività e soprattutto la loro unione, al di là dell’odio etnico che la politica cerca di instillare. Tutto questo fino all’alba del 30 aprile 1997, quando i ribelli hutu, ubriachi e drogati, irrompono nel dormitorio in cui tutti i seminaristi si sono rifugiati: stanno attuando non solo un’operazione di rappresaglia e di pulizia etnica, piuttosto vogliono dimostrare come sia stata fallimentare l’idea di far convivere le due etnie, convinti come sono che l’esperimento non possa reggere di fronte alla minaccia di morte. Per questo ordinano ai ragazzi, armi in pugno,  di dividersi in due gruppi, Hutu da una parte e Tutsi dall’altra.

I ragazzi non si muovono: non perché paralizzati dalla paura, piuttosto perché convinti che di fronte all’amicizia non si possono fare distinzioni etniche: l’amico resta tale, indipendentemente da come te lo vogliano rappresentare. Scornati e forse disorientati dalla inaspettata reazione, gli assassini scatenano l’inferno, mentre i ragazzi, tutsi e hutu indifferentemente, restano abbracciati tra loro, si sostengono a vicenda, si aiutano come possono. “Padre, perdonali, perchè non sanno quello che fanno”, li sentono anche sussurrare Alla fine, su quel pavimento, immersi nel loro sangue, si contano 40 morti: tutti ragazzi tra i 15 e i 20 anni, crivellati di colpi, sventrati dalle granate, finiti con il machete. La loro non è stata una morte casuale, piuttosto il risultato “di un’atmosfera, della cultura, dell’educazione che erano state forgiate da mesi…. Non è in quella notte tragica che quegli studenti hanno scoperto il dramma del loro Paese.

Vi avevano già riflettuto sopra. Il loro comportamento è il prodotto di quella maturazione” , dicono adesso di loro. È per questo che dei “martiri dell’amicizia” o della “fratellanza”  è stata introdotta la causa di beatificazione, mentre sulle loro tombe e nella cappella di quel seminario, da allora intitolata a Maria Regina della Pace, proseguono ininterrottamente i pellegrinaggi dei burundesi che vengono ad invocare la pace per il loro Paese.

Autore: Gianpiero Pettiti

* * *

Ecco i nomi dei 40 seminaristi martiri:

– Jean-Thierry Arakaza
– Bernard Bahifise
– Gilbert Barinakandi
– Alain-Basile Bayishemeze
– Sébastien Bitangwaniman
– Remy Dusabumukama
– Robert Dushimirimana
– Eloi Gahungu
– Léonidas Gatabazi
– Willermin Habarugira
– Désiré Ndagijimana
– Audace Ndayiragije
– Pie Ndayitwayeko
– Pascal Hakizimana
– Joseph Harerimana
– Jean-Marie Kanani
– Pacifique Kanezere
– Adronis Manirakiza
– Jules Matore
– Longin Mbazumutima
– Joseph Muhenegeri
– Jimmy-Prudence Murerwa
– Emery Ndayumvaneza
– Alexis Ndikumana
– Boniface Nduwayo
– Désiré Nduwimana
– Phocas Nibaruta
– Prosper Nimubona
– Diomède Ninganza
– Patrick Nininahazwe
– Egide Niyongabo
– Prosper Niyongabo
– Protais Niyonkuru
– Pasteur Niyungeko
– Alphonse Ntakiyica
– Pierre-Claver Ntungwanayo
– Gédéon Ntunzwenimana
– Lénine Nzisabira
– Oscar Nzisabira
– Gabriel Sebahene


Autore: 
Fabio Arduino

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Il Burundi è un paese dalle dimensioni di una provincia italiana, con una popolazione di 6 milioni di abitanti appartenenti a 3 diverse etnie : Hutu (85%), Tutsi (14%) e TWA (1%). La lingua nazionale è il kirundi. Il 75% della popolazione si professa cattolica, il 24% protestante, mentre i rimanenti sono mussulmani ed animisti.
Il dramma sta nel fatto che coloro che si dicono cristiani si uccidano tra loro per ragioni politico-etniche. Vale a dire che non hanno nel Vangelo un punto di riferimento.
La guerra che imperversa dal 1993 ai giorni nostri a toccato tutti i settori della vita nazionale. I cristiani che tentano di testimoniare la loro fede sono le prime vittime delle sue barbarie. Questi testimoni della fede sono numerosi in un paese che muore in silenzio, dove un genocidio in stile ruandese è sempre rampante.
Questo paese, come tutti gli altri paesi del mondo, ha il diritto di essere amato, ma ahimè, è stato abbandonato nel dimenticatoio della storia.Aldilà dell’odio, della vendetta e dell’ingiustizia, si assiste inoltre alla riuscita dell’opera di Cristo nei suoi piccoli fratelli seminaristi della Chiesa Burundese, martiri della fratellanza cristiana.
Al sorgere dell’alba del 30 aprile 1997, verso le ore 5,30, una banda armata del Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia (C.N.D.D.) attaccò il seminario di Buta percuotendo a morte 40 allievi in un dormitorio in cui le varie etnie erano mescolate.
Si verificò un interessamento generale in tutto il paese e nel mondo intero. Il Santo Padre Giovanni Paolo II inviò un messaggio di condoglianze al vescovo della diocesi di Bururi, rivolte anche a tutta la Chiesa del Burundi in lutto.

In effetti questi 40 seminaristi, di età compresa tra i 15 ed i 20 anni, selvaggiamente assassinati nel sonno mattutino, appartenevano a varie diocesi burundesi. Questo attacco suscitò tante più emozioni di quanto il Seminario di Buta si era reso celebre per la salvaguardia dell’unità tra le due etnie (Hutu e Tutsi) dopo l’inizio della guerra civile, nell’ottobre 1993.
Mentre molte scuole chiudevano le porte ed altre vivevano ossessionate delle stragi interetniche, il Seminario di Buta grazie al particolare sforzo degli educatori e degli stessi allievi restò un’isola di pace nell’oceano di odio e di vendetta in cui viveva il paese.
Ciò che ha stupito molti è il modo in cui questi allievi sono morti. E’ per tale motivo che vengono chiamati i “martiri della fratellanza”.
Un mese prima dell’attacco, tutti i seminaristi ritornavano da un ritiro di particolare profondità svoltosi durante il Triduo Pasquale. La Pasqua era stata celebrata in un clima di euforia e gioia fuori del normale.

Dopo le vacanze, dal 20 al 24 aprile 1997, la classe seconda come ogni anno aveva un ritiro di discernimento vocazionale con i membri Focolare della Carità di Giheta. Al termine del ritiro, questa classe animata da uno spirito del tutto nuovo sembrò aver lanciato il colpo d’inizio della preparazione a questa morte santa di questi innocenti. Pieni di allegria e di gioia, essi non avevano che queste parole sulla bocca: “Dio è buono, noi l’abbiamo incontrato”. Parlavano del Paradiso come se né arrivassero, del sacerdozio come avessero essere ordinati immediatamente. Il loro impegno indefettibile al servizio della Chiesa fino alla morte fu il loro canto.
Qualcosa di molto forte passò dai loro cuori, rendendosene conto, ma senza sapere esattamente cosa. Presero la decisione di parlarne sistematicamente ai loro compagni in modo formale con l’accordo dei superiori. Il Movimento di preghiera abbraccia tutto il seminario. Da tal giorno essi pregheranno, canteranno, danzeranno alla Chiesa felici di aver scoperto un tesoro, il Paradiso come essi dicevano. La vigilia della loro morte molti non lavorarono; piuttosto pregarono, incoraggiando quelli che avevano paura di morire, dicevano che era l’unico modo di arrivare al cielo.

Quando l’indomani gli assassini li sorpresero a letto, ordinarono loro di separarsi, gli “Hutu da una parte ed i “Tutsi” dall’altra. Essi volevano ucciderne solamente una perte, ma i giovani seminaristi si rifiutarono categoricamente, preferendo dunque morire insieme. Il loro progetto diabolico era arenato, gli uccisori si scagliarono dunque sui ragazzi e li massacrarono a colpi di fucili e di granate. Allora si sentirono alcuni allievi cantare Salmi di lode ed altri parlare in lingua madre dicendo: “Perdona loro Signore, perché non sanno quello che fanno”. Altri ancora, anziché combattere o tentare di salvarsi, cercarono piuttosto di aiutare i loro fratelli agonizzanti, sapendo bene che in tal modo li avrebbe attesi la medesima sorte. Coloro che sono scampati a questo massacro testimoniano che i loro compagni morirono in una serenità fuori del comune, in pace, senza angoscia.

La loro morte fu come un passaggio dolce e leggero, senza dolore, senza rumore e senza quella paura che avevano provato alla vigilia. Essi sono morti come “martiri della fratellanza”, onorando così anche la Chiesa del Burundi, che ha perso molte figlie e molti figli a causa dell’odio e della vendetta etnici.

Il 2 maggio 1998 il Seminario Minore di Buta celebrò il termine del lutto per i 44 seminaristi uccisi un anno prima. Sempre in tale giorno, il vescovo di Bururi consacrò durante la Messa una chiesa dedicata alla loro memoria in presenza di una folla immensa composta da parenti delle vittime, preti, religiosi e religiose, amici e conoscenti del Seminario di Buta.
Il memoriale di questi martiri della fratellanza” è stato dedicato a “Maria Regina della Pace”.Erano inoltre presenti a questa festa il Presidente della Repubblica, il Nunzio Apostolico e tre vescovi di altre diocesi.

Da quel giorno il nuovo santuario è divenuto un luogo di pellegrinaggio in cui i burundesi vengono a pregare per la riconciliazione del loro popolo, per la pace, la conversione e la speranza universali.Possa la loro testimonianza di fede, di unità e di fratellanza portare lontano ed il loro sangue divenire un seme per la pace in Burundi e nel mondo intero.
Jolique Rusimbamigera, studente nel Seminario di Buta, seppur ferito gravemente scampò al tragico massacro. Un anno dopo rese la seguente testimonianza, che fu letta anche duarante la commemorazione ecumenica dei Testimoni della Fede del XX secolo presieduta da Giovanni Paolo II il 7 maggio 2000 al Colosseo: “Erano tantissimi, mi sono sembrati cento. Sono entrati nel nostro dormitorio, quello delle tre classi del ciclo superiore, e hanno sparato in aria quattro volte per svegliarci… Subito hanno cominciato a minacciarci e, passando fra i letti, ci ordinavano di dividerci, hutu da una parte e tutsi dall’altra. Erano armati fino ai denti: mitra, granate, fucili, coltellacci… Ma noi restavamo raggruppati!

Allora il loro capo si è spazientito e ha dato l’ordine: “Sparate su questi imbecilli che non vogliono dividersi”. I primi colpi li hanno tirati su quelli che stavano sotto i letti… Mentre giacevamo nel nostro sangue, pregavamo e imploravamo il perdono per quelli che ci uccidevano. Sentivo le voci dei miei compagni che dicevano: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Io pronunciavo le stesse parole dentro di me e offrivo la mia vita nelle mani di Dio”.

Il diacono ortodosso Tochtuev, che si arrese alla morte per non tradire Cristo

La storia di un martire perseguitato dal regime sovietico: nel 1940 accettò la prigione (dove morirà) piuttosto di diventare una spia

Vatican Insider 13/08/2012

roma

I martiri e confessori della fede uccisi dai bolscevichi e canonizzati finora dalla Chiesa ortodossa russa sono circa millecinquecento. Una cifra che però è solo una minima parte della schiera di ignoti credenti che hanno dato la vita per Cristo nel XX secolo in Urss. E’ quanto scrive oggi il sussidiario.net in un articolo a firma di Marta Dell’Asta

La Commissione martiri del Patriarcato di Mosca lavora a pieno regime perché si possa dare la dovuta venerazione alla schiera incalcolabile dei “nuovi martiri” ortodossi, anche se la progressiva chiusura degli archivi rende sempre più difficile, ormai quasi impossibile, studiare a fondo i materiali di ogni singolo caso.

Tra le storie più impressionanti l’articolo cita quella di Nikolaj Tochtuev, consacrato diacono nel 1922 proprio nel pieno della prima persecuzione antireligiosa del giovane Stato sovietico. Viene arrestato quasi subito e mandato al confino; quando torna riesce a svolgere il suo ministero in un paese della periferia moscovita, Bolševo.

Il venerdì santo del 1940 viene convocato nell’ufficio dell’Nkvd a Mytiši, dove un giudice inquirente gli prospetta 8 anni di prigione se non accetta di fare l’informatore della polizia. Il diacono accetta, forse si spaventa, e firma l’impegno; torna a casa ma deve ripresentarsi il lunedì successivo. Possiamo immaginare lo stato d’animo di padre Nikolaj durante le celebrazioni pasquali, conscio di essersi impegnato per iscritto… Tuttavia esce dalla liturgia pasquale con una decisione.

Il lunedì dell’angelo raccoglie quel che gli può servire in prigione e si presenta all’ufficio dell’Nkvd con una dichiarazione scritta: «Compagno comandante, sconfesso la mia precedente firma, che ho fatto solo per poter celebrare la Pasqua e dire addio alla famiglia. Le mie convinzioni religiose e il mio abito non mi permettono di tradire neppure il mio peggior nemico…».

L’ufficiale dell’Nkvd, pensando che sia ancora tentennante, lo lascia tornare a casa e gli dà del tempo per riflettere; ma padre Nikolaj ha ormai deciso e cerca di spiegare la propria posizione in una nuova dichiarazione che è una vera confessione di fede: «Compagno comandante, mi permetta una spiegazione scritta. Non so parlare bene perché ho poca istruzione. Non posso fare quello che Lei mi chiede. È la mia decisione ultima e definitiva. Molti acconsentono per salvare se stessi a spese del prossimo, ma a me una vita del genere non serve. Voglio essere puro davanti a Dio e agli uomini, perché quando la coscienza è pulita si è tranquilli, mentre quando la coscienza è sporca non si trova pace. Una coscienza ce l’abbiamo tutti, e soltanto le azioni indegne la soffocano; per questo non posso essere come Lei vorrebbe… Ho famiglia, ma per essere onesto davanti a Dio, per amor Suo lascio anche la famiglia… Cosa crede, che non mi pesi lasciare otto persone di cui nessuna in grado di lavorare? Ma Colui per il quale accetto di soffrire mi dà la forza e sostiene il mio spirito, e sono certo che non mi abbandonerà fino all’ultimo respiro, se Gli sarò fedele. Tutti dovremo rendere conto di come abbiamo vissuto su questa terra…

«Accetto –prosegue il testo –  la purificazione attraverso le sofferenze che Lei mi infliggerà. Le accetterò con amore perché so di averle meritate. Voi ci considerate nemici perché crediamo in Dio, e noi vi consideriamo nemici perché non credete in Dio. Ma se guardiamo più a fondo e cristianamente, voi non siete i nostri nemici ma i nostri salvatori: ci spingete a viva forza nel Regno dei cieli e noi non lo vogliamo capire: come buoi testardi cerchiamo di scansare le sofferenze; è stato Dio, infatti, a darci un governo che ci purifica, mentre eravamo così schizzinosi… Non così dovevamo vivere, secondo il volere di Cristo. Mille volte no, per questo bisogna frustarci, ancora e ancora, perché ci convertiamo. Dato che non siamo capaci di farlo da soli… il Signore ha fatto in modo che voi ci spingeste a forza nel Regno della gloria. Per questo non posso che ringraziarvi».

Il 5 luglio 1940 lo arrestano; il 2 settembre la Seduta Speciale dell’Nkvd lo condanna a 8 anni di prigione, dove morirà il 17 maggio 1943. Non aveva ancora compiuto quarant’anni.