I giovani europei stanno perdendo la fede

“La mia impressione è che il titolo arriva in ritardo rispetto alla realtà. Da anni le giovani generazioni di molti paesi dell’Europa Occidentale non hanno mai avuto un contatto con la fede. Eppure si stanno trovando davanti all’irruzione di nuove religioni che chiedono di poter influenzare la vita pubblica. I dati provenienti dall’Est sono ancora più preoccupanti.

(E.C.)

La religione e in particolare il cristianesino versa in grave condizioni di salute. Questa è la conclusione di un nuovo rapporto curato da Stephen Bullivant, professore di teologia e sociologia della religione alla St Mary’s University di Londra. Lo studio che trovate qui si concentra sui giovani europei ma non contempla l’Italia che è insieme alla Polonia il Paese più cattolico d’Europa. Il senso però è che la religione sta morendo e l’Europa sta diventando una terra senza Dio. “Con alcune eccezioni degne di nota – ha dichiarato il professore al Guardian – i giovani adulti non si identificano sempre più o praticano la religione”.

Perdere la fede.  Diciamo subito che i giovani nella Repubblica Ceca sono dei senza Dio. In precentuale rispetto agli altri Paesi, chiaramente. Il 91% dei giovani dai 16 ai 29 anni afferma di non credere in Dio. La stragrande maggioranza (80%) dei giovani in Estonia afferma lo stesso, così come il 75% degli svedes

Nel Regno Unito, il 70% non ha religione e solo il 7% si definisce anglicano  mentre il 6% dei giovani si definisce musulmano. In Francia sei giovani su dieci non hanno un credo. Complessivamente, in 12 dei 22 Paesi studiati, oltre la metà dei giovani dichiara di non identificarsi con alcuna religione o denominazione particolare. Inutile dire che i più credenti sono polacchi e lituani.

Ma anche gli europei che sono religiosi non praticano

Meno della metà dei cattolici europei va regolarmente a messa. In Polonia, il 47% va una volta alla settimana. Ma in Belgio solo il 2% lo fa. Gli unici paesi europei in cui oltre il 10% dei giovani tra i 16 ei 29 anni afferma di frequentare servizi religiosi almeno settimanalmente erano Polonia, Portogallo e Irlanda. Come dire: tutto finito.

Fonte: http://www.infodata.ilsole24ore.com/2018/05/08/giovani-europei-stanno-perdendo-la-fede/#print

Riscoprire i valori europei

21 agosto 2013

ADEVĂRUL BUCAREST

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L’integrazione europea non riesce a colmare il divario culturale con i paesi dell’est. Serve uno sforzo di creatività e comunicazione per evidenziare quello che ci unisce.

Il recente rapporto dell’eurodeputato Rui Tavares sulla situazione dei diritti dell’uomo in Ungheria e sul modo in cui è stato accolto dal governo ungherese solleva di nuovo la questione della realizzazione del progetto europeo dopo la caduta della cortina di ferro. L’Ungheria e le sue recenti posizioni politiche non corrispondono più alle attese di Bruxelles. Un discorso analogo si potrebbe fare per la Romania o la Bulgaria; per la Slovacchia riguardo alla procedura utilizzata per risolvere la questione rom; per la Francia per lo stesso problema o per il Regno Unito per il modo in cui affronta il diritto del lavoro dei romeni e dei bulgari. E potremmo continuare con altri paesi.

Non è nostra intenzione elencare tutte le irregolarità o le imperfezioni, ma osservare come quello che sembrava l’incarnazione del sogno di molti dirigenti politici europei si trasformi periodicamente in molti paesi membri in una sorta di nevrosi governativa. E un discorso simile si può fare per Bruxelles.

I testi dei trattati fondamentali [dell’Ue] devono sempre più spesso fare i conti con delle realtà incompatibili con la filosofia di un’Europa unita. Il problema è che il processo di elaborazione delle leggi su scala comunitaria è troppo lento o troppo generalista, al contrario di una realtà che genera rapidamente nuovi contesti di sopravvivenza. Controllare il rispetto di questi grandi progetti legislativi comunitari è sfibrante e si rivela non in sintonia con la vita politica interna degli stati membri.

Gli stati entrati nell’Ue nel 2004 e nel 2007 parlano un’altra lingua in materia di democrazia, mercato, diritti dell’uomo e trasparenza

Questo mancato adeguamento sottolinea anche l’incapacità di Bruxelles di trasmettere i valori del grande progetto europeo: i frequenti sondaggi fatti nei diversi paesi membri rivelano una (troppo) scarsa percezione dei valori sostenuti dall’Ue. Le strategie di comunicazione del Parlamento e del Consiglio europeo non sono così efficaci come avremmo potuto immaginare. Gli stati entrati nell’Ue nel 2004 e nel 2007 parlano un’altra lingua in materia di democrazia, mercato, diritti dell’uomo e trasparenza; tutte nozioni ancora caratterizzate dall’immagine delle “barricate” dietro le quali quello che rimane degli effettivi della barbarie comunista si difende dall’invasione di un mondo occidentale imperfetto.

Quella che per molti sembrava essere, ed è stata, la perfezione delle società chiuse dell’est, è stata improvvisamente sostituita da un nuovo mondo inesplicabile, da un alfabeto straniero che ha dovuto, e deve ancora, essere imparato a memoria. Lo sforzo è considerevole, paragonabile a quello che è stato necessario per portare dopo la caduta del muro la Ddr [Germania dell’est] al “livello” della Repubblica federale [Germania ovest]. Dopo un decennio di spese colossali i risultati non erano molto incoraggianti. Oggi si prova talvolta la stessa cosa di fronte alle “nuove democrazie” dell’Europa dell’est.

Inoltre Bruxelles sembra non capire bene che in queste democrazie la ragion di stato funziona in modo diverso; oggi a questi paesi si chiede non solo di mettere in piedi e di rendere funzionale uno stato che possa riflettersi nello specchio di Bruxelles, ma anche di riconoscersi in questo riflesso. Il modello della ragion di stato studiato da Michel Foucault per il diciassettesimo e diciottesimo secolo era basato sulla limitazione dell'”eccesso di governo”, il cui strumento operativo diventerà verso la fine del diciottesimo secolo l’economia politica. Quest’ultima avrebbe orientato le filosofie degli stati verso l’idea di ricchezza dello stato assistenziale. Un termine sconosciuto nell’Europa dell’est dopo il 1945.

Questa grande lacuna, messa in scena con diabolica maestria, ha provocato durante il socialismo-comunismo un tipo di governo che ha considerevolmente atrofizzato gli istinti dei membri di queste società in materia di affermazione individuale, di spirito di competizione e di responsabilità delle proprie azioni.

Velocità di reazione

Le politiche comunitarie devono quindi affrontare non solo le tristemente famose divisioni fra vecchi e nuovi stati membri, ma anche le conseguenze della ricerca esclusiva del profitto a breve termine. Oggi i risultati sono impressionanti: il valore del lavoro, dell’investimento nella formazione e la regolamentazione del mercato del lavoro in funzione delle nuove polarizzazioni economiche che appaiono nella società richiedono una sempre maggiore velocità di reazione.

E quando la reazione si produce, come per esempio nel caso dell’agricoltura, della pesca o delle industrie creative, gli sforzi diretti a tradurla in una pacchetto di leggi comunitarie provocano degli sfasamenti e delle reazioni sociali in tutta l’Ue.

L’Europa rimane troppo un’Europa dei governi e non abbastanza un’Europa dei popoli. I valori europei meriterebbero di essere riscoperti. La comunicazione di questi valori dovrebbe essere l’obiettivo principale dell’Ue. Lasciata nelle mani dei governi e delle istituzioni specializzate, la comunicazione soffrirà sempre di una mancanza di creatività e l’Europa continuerà ad allontanarsi sempre di più da noi.

Solo una visione creativa dei governi potrà rimettere in piedi il processo di un’Europa unita sotto il segno dello sviluppo personale di tutti i cittadini dei paesi membri. Ottenere le cose semplici (un lavoro, una casa, un livello di vita accettabile) è l’unico modo per convincere tutti che il proprio mondo equivale a quello di chiunque altro e in qualunque altro posto. Solo allora l’obiettivo sarà stato centrato correttamente da tutti.

Traduzione di Andrea De Ritis

 

fonte: http://www.presseurop.eu/it/content/article/4072561-riscoprire-i-valori-europei

Il ruolo dell’Europa nella crisi del Mediterraneo

EGITTO: L’Europa è l’unica speranza

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21 agosto 2013

SÜDDEUTSCHE ZEITUNG MONACO

Di fronte alla violenza e alla svolta autoritaria dei militari l’Ue appare di nuovo impotente, ma è l’unico modello che possa guidare gli egiziani nella costruzione della democrazia.

Non è emerso alcun video né fotografia della visita di Lady Ashton [il 30 luglio] a Mohamed Morsi, prigioniero dei generali egiziani. Tuttavia il tentativo disperato di mediazione dell’alta rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri ha fatto molta impressione. Per avere la possibilità di vedere Morsi e di modificare la sua posizione, tre settimane fa colei che rappresenta 570 milioni di europei è salita su un elicottero per una destinazione sconosciuta e si è piegata alle condizioni del nuovo regime.

Oggi, dopo che la , l’Unione europea rimane indispensabile come guida verso un regime politico moderno.

Scossi dalla crisi dell’euro e traumatizzati dalla visione di un Medio Oriente a ferro e fuoco, gli europei si sono abituati ad analizzare le cose con un certo distacco, cosa che finisce per sottolineare le loro debolezze, come ha dimostrato: una rappresentante degli esteri con le sue visite segrete e con delle idee poco chiare, un nuovo servizio per l’azione esterna che delude le aspettative e dei governi nazionali che difendono i loro interessi – talvolta senza scrupoli, come gli inglesi e i francesi, talvolta con zelo e precipitazione, come la Germania con il suo ministro degli esteri. E a tutto ciò bisogna aggiungere una forza militare inesistente.

Ma tutto questo può essere relativizzato, come dimostra l’esempio americano. Oggi come oggi la forza non permette di ottenere molto da un mondo arabo in crisi. E il fatto che sia collegiale non salva la politica estera dalla confusione – come ha dimostrato il ministro degli esteri americano John Kerry, quando ha dichiarato che il golpe egiziano era frutto della volontà del popolo. Attualmente gli unici che possono mostrarsi determinati sono coloro che non hanno alcun problema con la violenza, almeno fino a quando quest’ultima favorirà i loro interessi nella regione (ancora una volta i sauditi).

Il valore della credibilità

Nel peggiore dei casi le divergenze porteranno a un’impasse, nel migliore obbligheranno ad adottare una posizione ragionevole e credibile

È la credibilità dell’Ue che può renderla efficace, se riuscirà a darsi i mezzi per agire. Una credibilità che deriva per esempio dal fatto che l’Europa non persegue degli interessi “nazionali”. L’interesse europeo dovrà essere negoziato. In particolare nel caso dell’Egitto l’indignazione legittima contro la presa del potere da parte dell’esercito e la repressione sanguinosa dei movimenti di protesta deve essere controbilanciata dal desiderio – altrettanto legittimo – di non far diventare la situazione ancora più caotica. Un desiderio che manifestano soprattutto i paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo. Nel peggiore dei casi le divergenze porteranno a un’impasse, nel migliore obbligheranno ad adottare una posizione ragionevole e credibile.

Per ora la cosa più ragionevole sembra essere non prendere posizione. Del resto, tenuto conto degli errori commessi da quasi tutti gli attori al Cairo, sarebbe difficile scegliere uno schieramento. Questo però non significa che bisogna accettare il regime dispotico che si è insediato in Egitto con il consenso di una parte della popolazione. La cancelliera Angela Merkel e il ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle hanno già preso posizione. Sarebbe assurdo dare al nuovo regime dei fondi che erano destinati a instaurare una nuova democrazia. Soprattutto se servono solo a importare armi.

Di fronte al trauma provocato da una catastrofe che non ha potuto essere evitata, l’Ue non può rifugiarsi oggi nel pragmatismo. La credibilità in politica estera è una qualità preziosa, perché molto lenta a far maturare. Senza di essa l’Unione non arriverà a nulla in Egitto.

Traduzione di Andrea De Ritis

fonte: http://www.presseurop.eu/it/content/article/4074651-l-europa-e-l-unica-speranza

L’Europa, secondo il sociologo Z. Bauman

“Una certa idea di Europa” firmata Zygmunt Bauman

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Z. Bauman

Tre le provocazioni del filosofo Zygmunt Bauman sul futuro dell’Europa allo European Culture Congress di Wroclaw, l’evento più importante della presidenza polacca dell’UE: il disprezzo di Bismarck, un mosaico di “forme di vita” in estinzione, e la scommessa sulla cultura europea.

Sembrerebbe, infatti, che la storia abbia dato ragione a Otto von Bismarck, che nel 1876 definiva laconicamente l’Europa una “mera identità geografica”. L’idea di Europa che trapela dai giornali, sostiene Bauman, è filtrata da categorie materialistiche e ha a che fare con l’allargamento, l’euro e le preoccupazioni legate al futuro. L’Europa è sicuramente una realtà tangibile nel mondo, come sosteneva Bismarck, ma qual è la sua vocazione?

Bauman fa rispondere a Steiner: l’Europa deve avere una vocazione spirituale.

Il compito dell’ Europa è di ordine “spirituale e intellettuale”. Il genio dell’Europa è ciò che William Blake avrebbe chiamato ‘la santità dei minimi particolari’. Il genio di una varietà linguistica, culturale, sociale, di un ricchissimo mosaico che spesso trasforma una distanza irrilevante, una ventina di chilometri, in una frontiera tra due mondi (…). L’Europa morirà se non combatterà per difendere le proprie lingue, le proprie tradizioni locali e le proprie autonomie sociali”
(G. Steiner, Una certa idea d’Europa).

Il paradosso dell’Europa come un mosaico multicolore di “forme di vita” rappresenta la spada di Damocle che pende sul futuro dell’Europa stessa: nella “società liquida” il concetto di “diversità” sta diventando sinonimo di diaspora.

E così Bauman cita Gadamer, il quale vedeva nell’Europa un laboratorio di politica e di etica, nel quale sperimentare il concetto di “diversità”, che rimanda al concetto aristotelico di philia:

Dobbiamo imparare a rispettare l’altro e l’alterità […] Vivere con l’altro, vivere come l’altro dell’altro, è un compito universale e valido nel piccolo come nel grande. Come noi, crescendo ed entrando, come si dice, nella vita, impariamo a vivere insieme all’altro, lo stesso vale anche per i grandi gruppi umani, per i popoli e per gli Stati. Ed è probabilmente un privilegio dell’Europa il fatto di aver saputo e dovuto imparare, più di altri paesi, a convivere con la diversità”
(H. G. Gadamer, L’eredità dell’Europa).

In Europa ‘l’altro’, “the other, is not an abstract word, but a neighbour. Another always lived very close, within sight or within touching … Here ‘Another’ is the closest neighbor”. Il concetto di diversità, infatti, può essere sperimentato nei limiti di uno spazio geografico ridotto: nell’ordine di 20 km l’Europa può dividersi in due mondi completamente differenti.

Il multilinguismo e la prossimità dell’altro fanno dell’Europa un paradigma per il mondo intero, ma questo paradigma deve essere trasformato in una vocazione, non in un museo della diaspora e della dispersione.

Una biblioteca, simile a quella alessandrina, che contenga “precious thoughts and inventions coming from the EU”, sarebbe un buon investimento per l’Europa, conclude Baumann, sarcastico.

Culture in a Liquid Modern World, l’ultimo libro di Bauman, da poco tradotto in inglese e leitmotiv della Presidenza Polacca, è l’altro lato della medaglia di un’Europa che può, anzi, deve essere culturale, o non lo sarà più: “lavoriamo, affermiamo l’occasione che ci è offerta: potrebbe essere l’ultima”. Così diceva Jack Lang.

Fonte: http://www.ccpitaly.beniculturali.it/news.aspx?sez=5&doc=32

Un nuovo vento unisce l’Europa. Di U. Beck

da La Repubblica del 25 novembre 2012

“SIAMO in piazza per protestare contro la legge che taglia i finanziamenti alla scuola pubblica: come facciamo ad andare avanti se nella nostra scuola non ci sono abbastanza banchi?”. Così uno studente di Torino giustificava la sua partecipazione allo sciopero europeo della scorsa settimana. Giusto un anno e mezzo fa siamo stati spettatori di una primavera araba con la quale assolutamente nessuno aveva fatto i conti. Di colpo, regimi autoritari crollarono sotto la spinta dei movimenti democratici di protesta organizzati dalla “Generation Global”. Dopo la primavera araba potrebbe arrivare un autunno, un inverno o una primavera europea? Gli scioperi delle ultime settimane ne sono stati i segnali?

Naturalmente, negli ultimi due o tre anni abbiamo visto ragazzi di Madrid, Tottenham o Atene protestare contro gli effetti delle politiche neo-liberali di risparmio e attirare l’attenzione sul loro destino di generazione perduta. Tuttavia, queste manifestazioni erano in qualche modo ancora legate al dogma dello Stato nazionale. La gente si ribellava nei singoli paesi alla politica tedesco- europea del rigore, adottata dai diversi governi. Ma quello che è accaduto la scorsa settimana parla un’altra lingua: 40 sindacati di 23 paesi hanno indetto una “giornata di azione e solidarietà”. I lavoratori portoghesi e spagnoli hanno chiuso le scuole, hanno paralizzato il traffico e hanno interrotto i trasporti aerei nel primo sciopero generale coordinato a livello europeo. Benché il ministro degli Interni spagnolo abbia parlato di «proteste isolate», nel corso dello sciopero solo a Madrid sono state arrestate 82 persone e 34 sono rimaste ferite, fra cui 18 poliziotti. Queste proteste diffuse in tutta Europa sono avvenute proprio nel momento in cui molti credevano che l’Europa avesse finalmente trovato la soluzione magica per la crisi dell’euro: la Banca centrale europea rassicura i mercati con il suo impegno ad acquistare, in caso di necessità, i titoli degli Stati indebitati. I paesi debitori – questa è la promessa – devono “soltanto” adottare ulteriori e ancor più incisive misure di risparmio come condizione per l’erogazione dei crediti da parte della Bce, e tutto andrà bene.

Ma i profeti tecnocratici di questa “soluzione” hanno dimenticato che qui si tratta di persone. Le politiche rigoriste con le quali l’Europa sta rispondendo alla crisi finanziaria scatenata dalle banche vengono vissute dai cittadini come un’enorme ingiustizia. Il conto della leggerezza con cui i banchieri hanno polverizzato somme inimmaginabili alla fine viene pagato dal ceto medio, dai lavoratori, dai pensionati e, soprattutto, dalla giovane generazione, con la moneta sonante della loro esistenza.

Se ora la Spagna, la Grecia e il Portogallo, ma anche l’Italia e la Francia vengono scosse da scioperi organizzati dai sindacati, non si deve interpretare ciò come una presa di posizione contro l’Europa. Le immagini dell’ira e della disperazione dicono piuttosto che è venuto il momento di invertire la rotta. Non abbiamo più bisogno di salvataggi delle banche, ma di uno scudo di protezione sociale per l’Europa dei lavoratori, per il ceto medio, per i pensionati e soprattutto per i ragazzi che bussano alle porte chiuse del mercato del lavoro. Questa Europa solidale non tradirebbe più i propri valori agli occhi dei cittadini. Perché essi vedano nell’Europa qualcosa che ha senso, il suo motto dovrebbe essere: più sicurezza sociale con un’altra Europa! La questione sociale è diventata una questione europea, per la quale non è più possibile nessuna risposta nazionale. Per il futuro sarà decisivo che questa convinzione si affermi. In effetti, se gli scioperanti e i movimenti di protesta prendessero a cuore l’“imperativo cosmopolitico”, cioè cooperassero in tutta Europa al di là delle frontiere e si impegnassero assieme non per meno Europa, ma per un’altra Europa, si creerebbe una nuova situazione. Un’“altra” Europa dovrebbe sostanzialmente essere costruita in base a un’architettura ispirata alla politica sociale e andrebbe rifondata democraticamente e dal basso.
Alla fine l’Europa – la crisi dei debiti dimostra proprio questo – dipende dal denaro dei singoli Stati. Pertanto, un’Europa democratica e sociale avrebbe bisogno di un fondo comune. Ora, non è difficile immaginarsi come reagirebbero i cittadini se dovessero rinunciare a una parte del loro reddito per questa “addizionale di solidarietà” o se si aumentasse l’imposta sul valore aggiunto affidando la gestione degli introiti supplementari alla Commissione europea. A questo punto si potrebbero prendere in considerazione la tassa sulle transazioni finanziarie, una tassa sulle banche o un’imposta europea sui profitti d’impresa. In questo modo, da un lato, si riuscirebbe ad addomesticare il capitalismo del rischio scatenato, addossando le responsabilità delle conseguenze della crisi a coloro che l’hanno provocata e, d’altra parte, l’Europa sociale diventerebbe finalmente una realtà tangibile ed efficace.

Se si formasse un’alleanza tra i movimenti sociali, la generazione europea dei disoccupati e i sindacati – da un lato – e gli architetti dell’Europa nella Banca centrale europea, i partiti politici, i governi nazionali e il Parlamento europeo – dall’altro -, nascerebbe un movimento possente, capace di imporre una tassa europea sulle transazioni finanziarie contro l’opposizione dell’economia e l’ottusità degli ortodossi dello Stato nazionale.

Se questo riuscisse, sarebbe addirittura possibile guadagnare due nuovi alleati per un’altra Europa: in primo luogo (per quanto ciò possa risultare paradossale), gli attori dei mercati finanziari globali, che forse acquisirebbero nuova fiducia di fronte a una chiara scelta di campo per l’Europa delle politiche sociali e investirebbero in essa, poiché sarebbe chiaro che c’è un’istanza che in caso di crisi risponde delle possibili perdite. E, in secondo luogo, le popolazioni degli Stati debitori oggi attratte dal nazionalismo e dalla xenofobia, che si impegnerebbero nel proprio interesse bene inteso per il progetto di un’Europa sociale e democratica. Una primavera europea, dunque?

(Traduzione di Carlo Sandrelli)

LAURENT JOFFRIN – L’Europa e la crisi (3) – La missione di fare politica con i popoli

La Repubblica – 28 gennaio 2012

DOVREMO presto sostituire il cerchio stellato della bandiera europea con una corona di spine? È la domanda che sorge spontanea di fronte all’ accordo approvato alcune settimane fa dai Governi della zona euro. È evidente che nel pieno della tempesta bisognava fissare senza ambiguità la rotta in direzione della riduzione dei deficit. Esponendo l’ Europa al rischio di un panico finanziario destinato a sfociare in una recessione drammatica, il debito è diventato un flagello che minaccia di mandare al tappeto l’ intera economia del continente. Per evitare il dramma servono sforzi, serve un calendario, serve un rimborso garantito. I risparmiatori che hanno dato fiducia agli Stati europei devono essere rassicurati e i Governi hanno fatto bene, quindi, a esigere impegni precisi, con cifre chiare, che consentano di garantire ai creditori dell’ Europa che i loro soldi sono al sicuro. Ma il rimborso del debito non può fare le veci della politica europea. È un vincolo, una condizione, una premessa. Al di là si apre il campo delle possibilità. L’ Europa non può ridursi a una cinghia che viene stretta sempre di più al ritmo delle crisi. L’ autore è direttore del “Nouvel Observateur” . La parte relativa alla crescita nell’ accordo che si prepara è totalmente insufficiente. L’ Europa deve intervenire anche per aiutare la ricerca, favorire l’ industria, armonizzare le leggi di tutela dei lavoratori per evitare il dumping sociale. Deve dare al continente uno scopo, un obiettivo, una prospettiva

Se l’ Europa si relega al ruolo del padre severo, come può sperare di convincere i popoli ad aderire alla sua politica? I partiti politici europeisti devono tenere a mente le brucianti sconfitte a cui sono andati incontro quando si sono arrischiati a chiedere ai cittadini il loro parere sull’ Europa, attraverso referendum. Nella maggior parte dei casi questi tentativi democratici si sono conclusi con una sconfitta clamorosa, come abbiamo visto in Francia al momento del voto sulla Costituzione europea. Dev’ esserci una ragione per questi ripetuti insuccessi elettorali. In realtà le ragioni sono due. La prima ha a che fare con la sottomissione della maggioranza degli Stati europei ai dettami dell’ ortodossia economica in vigore nel mondo della finanza e nei mercati. Proprio quando questo dogmatismo ha portato alla crisi finanziaria che conosciamo, un’ élite europea continua ad aggrapparsi ostinatamente alle vecchie convinzioni: arretramento dello Stato, riduzione delle tasse, deregolamentazione, abbassamento del livello delle garanzie per i lavoratori dipendenti. Per i popoli europei, come è perfettamente logico, l’ Europa diventa sinonimo di insicurezza economica e durezza sociale. Non è il modo migliore per ripristinare la popolarità di un progetto che già per sua stessa natura provoca turbamenti. La seconda ragione è più politica. Gli Stati europei devono urgentemente riflettere sull’ incarnazione simbolica, personale, del progetto europeo. I meccanismi attuali sono troppo complessi, troppo lenti e troppo anonimi. Se vogliamo un’ Europa dobbiamo cambiare la governance dell’ Europa. Dobbiamo distinguere innanzitutto la cerchia dei Paesi più impegnati, con un nocciolo duro costituito dalle nazioni fondatrici, che per loro stessa natura svolgeranno un ruolo di avanguardia

Gli altri, di adesione più recente, saranno poi liberi di seguire o non seguire questo movimento in funzione dei loro interessi. Dopo di che bisognerà designare dei responsabili con un peso politico – non me ne vogliano gli interessati – maggiore di quello della signora Ashton o del signor Van Rompuy. Dobbiamo arrivare alla creazione di un vero governo economico dell’ Unione, in grado di gestire la crisi finanziariae di favorire, attraverso un’ azione decisa, la crescita del continente. Questo Governo deve parlare con una voce forte. Dopo Jacques Delors non siamo più riuscitia trovare un portavoce con una personalità in grado di rimanere impressa alla cittadinanza. Qualunque sia il meccanismo istituzionale utilizzato – una Commissione più forte, un Consiglio europeo più visibile o qualunque altro strumento – l’ Europa tornerà a farsi ascoltare dalle popolazioni solo incarnandosi in persone. Gli Stati naturalmente diffidano dell’ emergere di questo potere sovranazionale. L’ evoluzione della crisi finanziaria dimostra che hanno torto. Ovunque in Europa, e anche sui mercati, ci si lamenta della lentezza del processo decisionale europeo e della confusione che caratterizza la sua comunicazione. Alla fine, grazie al vuoto politico, si è imposto un direttorio Merkel-Sarkozy: subito sono insorti timori di un’ Europa franco-tedesca. È la dimostrazione che bisogna trovare qualcos’ altro. L’ Europa è una costruzione politica e deve fare politica. Con i popoli. (Traduzione di Fabio Galimberti) –

LAURENT JOFFRIN – Direttore del Nouvelle Observateur

ALAN RUSBRIDGER – L’Europa e la crisi (3) – L’economia a due velocità indebolisce l’Unione

La Repubblica – 27 gennaio 2012

QUESTA settimana un giornalista veterano del Guardian, per lunghi anni corrispondente da Bruxelles, ha fatto un’ osservazione interessante: gli Stati europei, ha detto, sono tutti piccoli; ma mentre quelli di dimensioni minori lo ammettono, i più grandi rifiutano spesso di riconoscerlo. Di fatto però è proprio questo il motivo per cui abbiamo bisogno dell’ Unione europea, nata nel dopoguerra grazie alla consapevolezza di tutti gli Stati, piccoli e grandi, che la cooperazione europea fosse di gran lunga preferibile a un conflitto catastrofico. E a rafforzare questo convincimento si è preso atto, in epoca più recente, che a fronte della globalizzazione seguita alla guerra fredda, un’ Europa unita sarebbe stata assai più forte della somma delle sue parti. Tutto ciò rimane vero. Il Guardian ha sempre condiviso questa consapevolezza. Siamo internazionalisti da quasi due secoli.

Abbiamo sostenuto con coerenza l’ adesione della Gran Bretagna all’ Unione Europea, posizione questa pagata a volte con l’ isolamento nell’ arena politica britannica. Ma ciò non vuol dire che il nostro giornale abbia sostenuto acriticamente ogni momento dello sviluppo europeo. La nostra idea dell’ Europa è a un tempo ideale e pragmatica. L’ autore è direttore del “Guardian” Per lungo tempo abbiamo visto con scetticismo la retorica di un’ Unione sempre più stretta, a fronte della realtà e delle perduranti differenze nazionali. In particolare, siamo sempre stati estremamente cauti riguardo all’ Unione monetaria europea: un progetto economico, ma necessariamente anche politico, che non è mai stato oggetto di una riflessione approfondita e completa.

Lo abbiamo detto fin dai tempi di Maastricht, sostenendo inoltre più specificamente che la Grecia non avrebbe dovuto essere ammessa nell’ Eurozona. In senso più generale, abbiamo scritto nel 1996: «Se gli sforzi volti a soddisfare le condizioni per la convergenza e aderire al “patto di stabilità” dovessero essere la causa (anche solo apparente) dello smantellamento dei sistemi di redistribuzione e di welfare dai quali dipendono milioni di europei dei ceti meno abbienti, si rischierebbe di innescare reazioni nazionaliste e populiste anche violente in quasi tutti gli Stati membri dell’ Unione Europea».

All’ epoca queste condizioni sono state tacciate di allarmismo; ma il tempo ci ha dato ragione. Oggi l’ Ue appare in qualche modo come la causa, e non la soluzione dei problemi che la sua popolazione si trova ad affrontare. In particolare, la crisi dell’ Eurozona, che quest’ anno tende chiaramente ad acutizzarsi, almeno per certi versi, prima che si possa intravedere un qualche miglioramento, è contrassegnata da inefficienza e frammentazione. Vertice dopo vertice, si è parlato molto e concluso poco.

Se le risposte dell’ Unione Europea sono state fiacche, è anche a causa della debolezza dei rispettivi governi. Il rischio di default della Grecia è altissimo, e non si riesce ancora a capire se la Germania finirà per tentare di salvare l’ euro. Tutti i governi eletti, dalla Grecia alla Germania, reagiscono nervosamente alle proposte di soluzioni robuste o radicali, per timore delle conseguenze elettorali, e non cambieranno atteggiamento. Dunque, cosa possiamo aspettarci in queste circostanze tutt’ altro che facili? Innanzitutto, l’ Europa deve svegliarsi e prendere atto, individualmente e collettivamente, di quanto la mancata soluzione della crisi stia danneggiando la posizione globale dell’ Europa e il suo prestigio. Un danno tanto più preoccupante in questo periodo di rapidi cambiamenti nel mondo arabo – in meglio, ma talora anche in peggio – e di crescente instabilità di alcuni grandi Paesi ai confini meridionali e orientali dell’ Europa – ma fortunatamente non della Turchia.

Nei confronti del resto del mondo l’ Europa è indebolita, sia dal punto di vista dell’ hard power che nel soft power. Dobbiamo riconoscere che il modello europeo del 2012 non è particolarmente attraente. In secondo luogo, dobbiamo affrontare il problema della frammentazione dell’ Ue. L’ Unione Europea è divisa non solo tra gli Stati dell’ Eurozona e gli altri, ma anche tra le aree dell’ Eurozona che continuano a vantare la tripla A, con la conseguente facilità di ottenere prestiti, e quelli che collocano i propri titoli con più difficoltà, e sono quindi costretti ad accettare le condizioni stabilite dagli stati con il rating più elevato. L’ antagonismo tra queste due aree dell’ Eurozona era già netto nel 2011, ma quest’ anno rischia di aggravarsi: e neppure sembra facile superare le divisioni tra l’ Eurozona e il resto dell’ Unione, Gran Bretagna compresa.

La frammentazione accresce il potere di gruppi intergovernativi, in opposizione alle istituzioni paneuropee e alle posizioni complessive dell’ Ue. La Gran Bretagna ha contribuito purtroppo a creare questa situazione. Tutto ciò deve cambiare. Va detto chiaramente che un’ Europa a due velocità è un’ Europa più debole. Se è vero che date le dimensioni dell’ Ue, ciascuno dei suoi Stati ha le proprie specificità nazionali, la posizione della Gran Bretagna in seno all’ Europa non può che essere fonte di ansia. A quarant’ anni dalla sua adesione, il sostegno all’ Ue non era mai sceso a livelli così bassi, né l’ influenza britannica sull’ Europa era mai stata così debole. Le ragioni di questa situazione sono molte. Sull’ integrazione europea la Gran Bretagna ha da sempre un atteggiamento troppo negativo. I nostri dibattiti interni in materia sono sempre stati particolarmente aspri, anche a causa dell’ influenza dei media britannici. Non abbiamo saputo individuare correttamente i nostri interessi, né tutelarci attraverso alleanze forti, in particolare con la Germania, e abbiamo dedicato invece troppa attenzione a costruire alleanze con gli stati periferici dell’ Ue. Il Vertice del dicembre 2011, ove David Cameron si è totalmente isolato, è stato un disastro per la Gran Bretagna, ma nei sondaggi la sua popolarità è salita alle stelle.

Non è affatto escluso che la Gran Bretagna indica un referendum sul mantenimento della sua adesione all’ Ue, né che la maggioranza opti per la sua uscita. Di fatto, la tendenza britannica a spostarsi sempre più ai margini dell’ Ue riflette tutta una serie di timori dell’ opinione pubblica, che sono però diffusi anche in altri Paesi europei. La percezione che i “poteri di Bruxelles” siano eccessivi e troppo distanti, così come le preoccupazioni suscitate dall’ immigrazione e dalla mancata soluzione della crisi dell’ Eurozona sono molto forti da noi, ma rappresentano un’ esclusiva della Gran Bretagna. Sono ancora troppo pochi gli europei che si sentono cittadini dell’ Ue. E finché questo dato non cambierà, l’ Europa sarà sempre vulnerabile al voto degli europei scontenti, e non a torto. Si è facilmente tentati di drammatizzare gli attuali problemi dell’ Europa. Ma c’ è un altro modo di vederli. La Grecia nonè ancora fallita, l’ Eurozona non si è ancora disintegrata. Le nazioni europee con economie non competitive, ivi compresa l’ Italia, sono riuscite finora a mantenersi a galla.

I rendimenti dei titoli di Stato non hanno ancora superato il punto di non ritorno. Certamente si dovranno prendere decisioni difficili. Ma la partita che l’ Unione Europea sta giocando è tuttora in corso; e in molti Paesi non si è smesso di credere che insieme siamo più forti. Certo, gli europei non hanno di che rallegrarsi; ma finora non si sono ribellati contro le dure decisioni che si sono imposte ai governi. Forse lo faranno. Forse dovrebbero farlo. Ma se l’ Europa procederà gradualmente verso l’ attuazione delle riforme strutturali che getteranno le basi della futura crescita, e se la Germania saprà risolversi a compiere i passi necessari per assicurare la sopravvivenza dell’ Eurozona, possiamo sperare in un’ Unione più debole ma anche più saggia, capace di sopravvivere per ritrovare, in tempi migliori, la prosperità. Io ho questa speranza. Traduzione di Elisabetta Horvat –

ALAN RUSBRIDGER – Direttore del “The Guardian”

HERIBERT PRANTL – L’Europa e la crisi (2) – Il ragazzo che vola dentro la tempesta

I Direttori dei giornali europei si confrontano sulla crisi europea (2)

IL RAGAZZO CHE VOLA DENTRO LA TEMPESTA

HERIBERT_PRANTL

HERIBERT PRANTL

La repubblica – 26 gennaio 2012

GLI ombrelli aperti per la salvezza delle banche, dell’ economia e dell’ euro pesano molti, molti miliardi. Ma le loro dimensioni non bastano, da sole non garantiscono niente. Tutti sanno di cosa abbia bisogno un buon ombrello: un bastonebase solido, per poterlo tenere bene in mano, e stanghe di tensione che gli danno stabilità quando è aperto. Quante più sono quelle stanghe flessibili e il tessuto tra di loro, tanto più l’ ombrello è impermeabile. Ombrelli di grandezza mostruosa, come quelli aperti per la salvezza dell’ euro, possono di nuovo essere utilizzati dalla cancelliera Merkel, dal presidente Sarkozy o da alcuni altri leader europei; ma se l’ ombrello si bloccherà da solo, la loro sorte sarà quella del “Robert volante”, un personaggio della celebre fiaba tedesca “der Struwwelpeter”: tenendo saldo l’ ombrello il ragazzo vola via nella tempesta. Subiranno una simile sorte anche i governi della Ue e la Commissione europea a Bruxelles, se pensano di poter reggere l’ ombrello da soli.

Per farcela hanno bisogno del sostegno delle società dei paesi membri, e quindi della fiducia dei cittadini, perché questa fiducia è la prima forza che può davvero aprire l’ ombrello. L’ Unione europea ha bisogno della fiducia dei suoi cittadini, e questa fiducia non gocciola da sotto l’ ombrello della salvezza. Senza questa fiducia, qualsiasi ombrello resta instabile: si lascia scuotere dai venti, o si lacera e si rompe. L’ Europa è il meglio che sia mai accaduto a tedeschi, francesi e italiani, a cèchi e danesi, a polacchi e spagnoli, a olandesi, britannici e greci, bavaresi o baltici, nella loro lunga storia. L’ Europa è la traduzione in realtà di tanti vecchi trattati di pace, che non portarono mai la pace. L’ Unione europea è la fine di una guerra durata quasi mille anni, e che quasi tutti hanno combattuto contro quasi tutti. È un paradiso immeritato per i popoli di un intero continente. Suona retorico, ma è così. Eppure non osiamo più dirlo, perché simili frasi osannanti suonano come una condanna di se stessi, se e fintanto che la gente percepirà questa Unione europea soltanto come comunità d’ interessi dell’ economia, e non invece come comunità di difesa reciproca per i cittadini.

Chi ha vissuto e sentito il suo Stato nazionale come patria, non vuole sentirsene espulso. Vuole, se la patria-Stato nazionale diverrà troppo debole, un’ Europa come seconda patria. Se dunque in proteste diffuse ormai in tutta Europa i dimostranti chiedono ai loro governi di garantire una certa misura di dignità economica e delle condizioni di vita in un mondo globalizzato, non si tratta di uno sviluppo da poco, o da sottovalutare. Regole per un’ economia che sia socialmente tollerabile fanno parte della pace sociale. Tenere conto della paura per il futuro di questa pace sociale interna fa parte dei compiti sostanziali e costitutivi dell’ Unione europea. Molti cittadini provano la sgradevole sensazione che la Uer funzioni per la sicurezza esterna e interna, che sia una realtà vantaggiosa per il commercio e per i grandi cambiamenti macroeconomici, ma che le esigenze sociali non siano tenute dalla Ue nel giusto conto. E invece l’ Europa non ha bisogno soltanto di trattati, bensì le serve anche la fiducia dei suoi cittadini. Il motore dell’ Europa non si chiama euro, si chiama democrazia. E la democrazia vive di fiducia. Di solito, alla richiesta di un’ Europa sociale, nel dibattito politico si risponde che la Ue è responsabile per la libertà e la competitività, e tocca agli Stati nazionali occuparsi della dimensione sociale. La politica sociale, secondo questa tesi, appartiene ancora al livello della sovranità degli Stati nazionali, in base al principio di sussidiarietà che ripartisce i livelli di sovranità e potere decisionale nella Ue.

Alcune realtà parlano a favore di questa tesi. Eppure una simile divisione dei compiti non può funzionare se la Ue propaga e propugna prima di tutto la precedenza per la libertà economica e la libertà di competizione. Perché in questo caso la politica sociale dei singoli Stati membri verrà considerata un ostacolo, che deve essere rimosso, secondo lo slogan: via libera alla libertà disinvolta, alla deregulation, via libera alla libertà di offrire servizi ovunque, via libera alla circolazione di merci e capitali, eliminiamo tutto quanto disturba. Prima di tutto La Corte europea di Lussemburgo sembra prigioniera di questa scuola di pensiero: agisce e giudica come se fosse il tribunale economico dell’ intera Europa, e come se non avesse ancora notato che non siamo più nella Comunità economica europea, bensì nell’ Unione europea. Manca alla Corte europea di Lussemburgo la sensibilità sociale. Si sente sempre come l’ Olimpo giuridico della vecchia Comunità economica europea, ben più che come Olimpo giuridico di un’ Unione europea dei cittadini. Quando parliamo di riforma del welfare, dei singoli sistemi nazionali di welfare, è necessario tramandare le storie di successo di questi sistemi, non porre loro fine. È necessario confermare l’ essenziale di queste realtà di welfare, come è definito quale “progresso sociale” dai Trattati europei di Lisbona. I connotati essenziali dei sistemi di welfare europei sono l’ espressione della giustizia sociale.

Sulla carta, la Ue è già diventata un po’ sociale: nell’ articolo 3 del Trattato di Lisbona non si parla più di un’ Europa votata alla priorità di una crescita economica equilibrata e alla stabilità dei prezzi. Si dice anche che occorre realizzare un’ economia sociale di mercato capace di essere competitiva, che punta agli obiettivi della piena occupazione e del progresso sociale. Ma in altri punti il Trattato di Lisbona ha macchie nere, per esempio laddove parla di valori della Ue. Là menziona tra l’ altro la democrazia e lo Stato di diritto, ma invano cerchi in quei capitoli del Trattato menzione del welfare e della giustizia sociale. Modello sociale europeo: questo concetto non significa che in tutta Europa debbano valere gli stessi salari minimi, o gli stessi sussidi di disoccupazione, o le stesse pensioni o gli stessi sistemi scolastici. Modello sociale europeo non vuole nemmeno dire che la Sanità debba essere finanziata in tutta Europa allo stesso modo. Un welfare paneuropeo comune e ridotto al minimo con dure norme impartite da Bruxelles non sarebbe un modello sociale europeo bensì uno scenario dell’ orrore. Il modello sociale europeo è ben altro. È la necessaria idea costituiva comune che la disuguaglianza sociale non è data o decisa da Dio. Un modello sociale europeo vuol dire difesa e aiuto ben pensati contro rischi della vita, malattia, disoccupazione, bisogno di assistenza per gli anziani.

Ecco i denominatori comuni dell’ ordine sociale europeo. Il modello sociale europeo non dà ai poveri solo letto e tetto, ma anche una via d’ uscita dalla povertà. Il modello sociale europeo è un sistema di coordinate comune, in cui gli assi cartesiani devono essere solidarietà e giustizia, e in cui i singoli Stati trovino le loro coordinate e vengano in questo aiutati e non ostacolati da Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo. Un’ Europa senza europei è condannata al fallimento. Solo un’ Europa sociale e giusta è anche un’ Europa democratica. Un’ Europa democratica è un’ Europa il cui dovere sia l’ interesse di tutti i suoi cittadini, poveri e ricchi, forti e deboli. La forza dell’ Europa si misura secondo il benessere dei deboli. «Io ero l’ ultima chance dell’ Europa», disse il criminale contro l’ umanità Adolf Hitler poco prima della sua fine, nel Bunker a Berlino. La sua fu una cosiddetta chance, ma demoniaca. Hitler distrusse anche quello che della vecchia Europa era rimasto dopo la prima guerra mondiale, ha fatto a pezzi l’ immagine mondiale dell’ Europa e le sue aspirazioni politiche e culturali. Non solo la Germania, l’ Europa intera era alla fine nel 1945. Quanto poi è accaduto in Europa, è stato descritto con il termine “miracolo”, termine spesso abusato negli ultimi tempi. Il “piccolo sommario dei piccoli Stati europei”, come lo definì Hitler con disprezzo, si è messo davvero insieme, ha superato il nazionalismo e antiche ostilità. La Comunità europea, poi l’ Unione europea sono nate. La Storia della Ue è una storia della quadratura del cerchio, di un cerchio fatto a pezzi dal nostro passato di europei. Questa Ue è l’ ultimo senso e significato di una Storia devastata del nostro continente. Questa Ue potenza di pace è il frutto di secoli di guerre e distruzione. Purtroppo è molto difficile percepire questa sua grandezza nel quotidiano della politica, e difenderla e conservarla.

L’ autore è direttore della Sueddeutsche Zeitung -_HERIBERT PRANTL

ERIK IZRAELEWICZ – L’Europa e la Crisi (1) – La nostra scommessa davanti alle tre “A”

I direttori dei giornali europei si confrontano sulla crisi Europea (1)

La nostra scommessa davanti alle tre “A”

ERIK_IZRAELEWICZ_Direttore_di_Le_Monde

ERIK IZRAELEWICZ Direttore di Le Monde

Da “LA REPUBBLICA” di mercoledì 25 gennaio 2012

Read MoreL’Europa e la crisi” con quest’articolo del direttore di Le Monde, apre un dibattito sul futuro europeo:

interverranno i direttori delle più prestigiose testate internazionali DUE anni di psico dramma ininterrotto, sedici summit dell’ultima spiaggia, centinaia di editoriali dopo ogni summit: in questa fine di gennaio, l’Europa è sempre in crisi, la zona euro sempre minacciata dal rischio di esplosione. L’accordo raggiunto tra 26 dei 27 Stati membri dell’Unione in realtà non ha risolto niente: ha offerto l’occasione per un nuovo vertice per il salvataggio della moneta unica, alla fine della prossima settimana. Non è risolto niente. La Grecia? Le trattative con i creditori privati hanno rivelato che non è stato fatto nessun progresso nel risanamento dei conti pubblici del Paese ellenico. L’Italia? Ha fatto tutto: cambiare capo del governo, accettare una brutale cura di austerity, avviare riforme profonde. Non è servito a nulla: i mercati non ci credono e continuano a farle pagare a caro prezzo i soldi di cui ha bisogno. La Francia? Anche lei si è data da fare per rimettere in ordine le finanze pubbliche, ma una delle grandi agenzie di rating americane se ne è infischiata e ha declassato i suoi titoli, per il rischio che non riesca a tener fede ai suoiimpegni.Ilmeccanismo disalvataggio europeo, quello del Fmi: l’uno e l’altro sono ancora nel limbo, anzi non esistono proprio. Quanto al nuovo trattato intergovernativo che dovrebbe instaurare unavera governance economica in seno alla zona euro, lo stiamo ancora aspettando.

Insomma, la casa è in fiamme e i pompieri-piromani, i nostri Governi, si accapigliano come se niente fosse. L’Europa è in marcia verso il suicidio e nessuno sembra preoccuparsene. Ma bisogna spegnere l’incendio al più presto e co- minciare a ricostruire l’edificio.

La crisi economica, questo è vero, non favorisce la solidarietà che sarebbe necessaria.

La crisi alimenta dappertutto, in ogni Paese dell’Unione, gli egoismi, i nazionalismi e la tentazione di un ripiegamento su se stessi. È responsabilità dei politici far ragionare i cittadini, far capire loro che la vera risposta alle difficoltà del momento non sta in queste soluzioni del passato, ma al contrario in un rafforzamento della cooperazione all’interno della zona euro, e che quindi è necessaria una maggiore condivisione della nostra sovranità e della nostra solidarietà.

È un’impresa difficile? Ci sono tre argomenti che meritano di essere messi avanti: le tre “A”, per così dire. La prima A è l’Asia, e in particolare la Cina. Il mondo che si sta costruendo non è un blocco omogeneo, ma un mondo costituito da diversi blocchi, dove sono le dimensioni a contare, dov’è il numero a pesare. I nostri «piccoli» Paesi non sono nulla presi singolarmente. Potranno difendere i loro interessi solo unendosi in seno a un blocco. La secondaA è l’America. È un altro blocco, che oggettivamente ha interesse a un’Europa forte, ma che può credere di trovare la via per la sua salvezza in un’Europa divisa. La terzaA, infine, è quella del mondo arabo. L’anno scorso ha conosciuto le sue rivoluzioni. Tutti ce ne siamo rallegrati, e a giusto titolo, ma ora quell’area entra in un periodo di forti turbolenze. La prossima crisi del debito potrebbe essere quella dell’Egitto o della Tunisia. Di fronte a questo blocco minacciato dall’instabilità, il blocco europeo deve diventare una roccia. Queste tre A esigono progressi più rapidi e approfonditi dell’integrazione europea. Se bisogna abbandonare lungo la strada qualche Paese, decidiamolo il più in fretta possibile. Basta tergiversare. I12011 è stato l’anno della primavera araba. Non vogliamo che 02012 sia l’anno dell’autunno europeo.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

ERIK IZRAELEWICZ – L’Europa e la Crisi (1) – La nostra scommessa davanti alle tre “A”

I direttori dei giornali europei si confrontano sulla crisi Europea (1)

La nostra scommessa davanti alle tre “A”

ERIK_IZRAELEWICZ_Direttore_di_Le_Monde

ERIK IZRAELEWICZ Direttore di Le Monde

Da “LA REPUBBLICA” di mercoledì 25 gennaio 2012

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L’Europa e la crisi” con quest’articolo del direttore di Le Monde, apre un dibattito sul futuro europeo:

interverranno i direttori delle più prestigiose testate internazionali DUE anni di psico dramma ininterrotto, sedici summit dell’ultima spiaggia, centinaia di editoriali dopo ogni summit: in questa fine di gennaio, l’Europa è sempre in crisi, la zona euro sempre minacciata dal rischio di esplosione. L’accordo raggiunto tra 26 dei 27 Stati membri dell’Unione in realtà non ha risolto niente: ha offerto l’occasione per un nuovo vertice per il salvataggio della moneta unica, alla fine della prossima settimana. Non è risolto niente. La Grecia? Le trattative con i creditori privati hanno rivelato che non è stato fatto nessun progresso nel risanamento dei conti pubblici del Paese ellenico. L’Italia? Ha fatto tutto: cambiare capo del governo, accettare una brutale cura di austerity, avviare riforme profonde. Non è servito a nulla: i mercati non ci credono e continuano a farle pagare a caro prezzo i soldi di cui ha bisogno. La Francia? Anche lei si è data da fare per rimettere in ordine le finanze pubbliche, ma una delle grandi agenzie di rating americane se ne è infischiata e ha declassato i suoi titoli, per il rischio che non riesca a tener fede ai suoiimpegni.Ilmeccanismo disalvataggio europeo, quello del Fmi: l’uno e l’altro sono ancora nel limbo, anzi non esistono proprio. Quanto al nuovo trattato intergovernativo che dovrebbe instaurare unavera governance economica in seno alla zona euro, lo stiamo ancora aspettando.

Insomma, la casa è in fiamme e i pompieri-piromani, i nostri Governi, si accapigliano come se niente fosse. L’Europa è in marcia verso il suicidio e nessuno sembra preoccuparsene. Ma bisogna spegnere l’incendio al più presto e co- minciare a ricostruire l’edificio.

La crisi economica, questo è vero, non favorisce la solidarietà che sarebbe necessaria.

La crisi alimenta dappertutto, in ogni Paese dell’Unione, gli egoismi, i nazionalismi e la tentazione di un ripiegamento su se stessi. È responsabilità dei politici far ragionare i cittadini, far capire loro che la vera risposta alle difficoltà del momento non sta in queste soluzioni del passato, ma al contrario in un rafforzamento della cooperazione all’interno della zona euro, e che quindi è necessaria una maggiore condivisione della nostra sovranità e della nostra solidarietà.

È un’impresa difficile? Ci sono tre argomenti che meritano di essere messi avanti: le tre “A”, per così dire. La prima A è l’Asia, e in particolare la Cina. Il mondo che si sta costruendo non è un blocco omogeneo, ma un mondo costituito da diversi blocchi, dove sono le dimensioni a contare, dov’è il numero a pesare. I nostri «piccoli» Paesi non sono nulla presi singolarmente. Potranno difendere i loro interessi solo unendosi in seno a un blocco. La secondaA è l’America. È un altro blocco, che oggettivamente ha interesse a un’Europa forte, ma che può credere di trovare la via per la sua salvezza in un’Europa divisa. La terzaA, infine, è quella del mondo arabo. L’anno scorso ha conosciuto le sue rivoluzioni. Tutti ce ne siamo rallegrati, e a giusto titolo, ma ora quell’area entra in un periodo di forti turbolenze. La prossima crisi del debito potrebbe essere quella dell’Egitto o della Tunisia. Di fronte a questo blocco minacciato dall’instabilità, il blocco europeo deve diventare una roccia. Queste tre A esigono progressi più rapidi e approfonditi dell’integrazione europea. Se bisogna abbandonare lungo la strada qualche Paese, decidiamolo il più in fretta possibile. Basta tergiversare. I12011 è stato l’anno della primavera araba. Non vogliamo che 02012 sia l’anno dell’autunno europeo.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

ALLE RADICI DELLA CRISI ECONOMICA DELLA GRECIA (2010)

 

(da http://santaruina.splinder.com/post/22402594)

Da diverse settimane, ormai, la Grecia è al centro dell’attenzione mondiale, a causa della grave crisi economica che il paese sta attraversando.
Analisi più o meno accurate descrivono la situazione della nazione ellenica dal punto di vista quantitativo, ponendo l’attenzione sull’enorme debito pubblico e sul drammatico rapporto tra l’indebitamento e il prodotto interno lordo.

Le altre nazioni appartenenti all’area euro guardano nel frattempo con apprensione la situazione della Grecia, consapevoli che in tale momento di grande incertezza economica nessuno può dirsi immune da questo genere di pericoli.

Nelle scorse settimane, il governo greco, guidato da Yorgos Papandreou*, ha imposto alla popolazione misure decisamente drastiche, come il taglio di parte della tredicesima e della quattordicesima dagli stipendi dei dipendenti pubblici, l’aumento dell’iva dei prodotti in commercio mediamente del 2%, una sovrattassa su sigarette ed alcolici, nonché un considerevole aumento della benzina, passata in breve tempo dal costo di 1,10 euro al litro a punte di 1,50 euro. Come conseguenza, la popolazione ha risposto, come c’era da attendersi, con ondate di scioperi generali che hanno paralizzato il paese per diversi giorni nell’arco dell’ultimo mese. Tali sollevazioni sono viste da alcuni analisti come la reazione di un popolo vessato che non vuole pagare per le colpe degli speculatori e dei “supercapitalisti”. Ma la realtà dei fatti è leggermente più complessa.

Sicuramente la crisi economica che sta attraversando la Grecia rientra perfettamente nel complesso mondiale della grande crisi del 2008quella definitiva, destinata a cambiare per sempre il modello economico finanziario a cui siamo abituati, ma, oltre a questo innegabile fattore, la crisi in Grecia porta in sé un’altra crisi ancora più profondaun disastro economico e sociale che ha origini molto lontane, vecchie di secoli, figlie di una cultura che ha assorbito in sé le influenze più distanti.

Per capire a fondo cosa realmente succede in Grecia occorre quindi fare un salto nel lontano passato, gettando uno sguardo su quell’impero che ebbe la sua capitale sulle rive del Bosforo.

IL MESON, O TRAMITE

Fu durante il periodo Bizantino che nacque una prassi destinata a caratterizzare l’organizzazione sociale greca fino ai giorni nostri, ovvero la pratica del�“meson, il “tramite”. L’Impero Bizantino era caratterizzato da un rigido centralismo e da una pesante burocrazia, e gli abitanti delle provincie periferiche avevano grande difficoltà nel far giungere ai funzionari del palazzo le loro richieste e le loro lamenteleFu così che col tempo prese piede l’abitudine da parte dei sudditi dell’Impero di assegnare alla persona più autorevole della propria comunità il compito di recarsi nella capitale per far presenti le loro richieste; questo rappresentante delegato, il tramite, una volta giunto a Costantinopoli doveva farsi ascoltare a sua volta da altri personaggi influenti che avrebbero avuto il compito di interferire presso i consiglieri dell’Imperatore.

Si formava così una piramide gerarchica che partiva dall’Imperatore e a cui sottostavano gruppi sempre più ampi che facevano pressione a quelli immediatamente superiori. Alla fine, chi si faceva ascoltare era il gruppo che aveva le conoscenze migliori, e poteva vantare il meson più influente. Questo sistema, proseguito per secoli, è giunto pressoché immutato ai giorni nostri, ed ha saputo adattarsi perfettamente ai meccanismi della democrazia rappresentativa moderna.

(Pertanto, si è creato un sistema politico in cui) i Greci sono scarsamente interessati alle diatribe ideologiche, e il loro voto si fonda unicamente sul calcolo dei benefici che l’elezione di un certo parlamentare potrà portare. Così, nel periodo pre-elettorale, ogni greco entra in contatto con l’entourage del politico di turno e intavola delle trattative: chi può garantire l’apporto di una decina di voti, tra moglie, figli, vecchie zie e parenti vari, ad esempio, potrà chiedere in cambio l’assunzione del figlio in un posto pubblico, o altri favori simili. Nel complesso, la quasi totalità dei greci possiede almeno un conoscente che funge da meson, di alto o medio livello, ed in tal modo tutti sono coinvolti nelle vicende politiche del paese in modo diretto.

Al termine delle elezioni, quindi, i parlamentari eletti del partito vincitore sono tenuti a tener fede alle promesse, e questo puntualmente avviene. Si assiste così, inevitabilmente ad ogni cambio di governo, un discreto licenziamento di statali assunti dagli avversari politici a cui si sostituiscono i propri raccomandati. Ancora più frequentemente, vengono creati posti pubblici dal nulla per poter accontentare tutte le promesse elettorali: in questo modo, il numero degli impiegati pubblici in Grecia ha raggiunto una cifra totalmente slegata dalle reali necessità del paese, con la presenza di in media tre/quattro lavoratori che svolgono il compito che potrebbe essere portato a termine da uno solo di loro.

Va da sé che in un simile sistema la corruzione sia la normatanto da essere diventata prassi usuale ed accettata a tutti i livelli della società: pagare degli extra per ricevere servizi dalla pubblica amministrazione è ritenuto normale, dagli sportelli del fisco fino alle bustarelle ai medici degli ospedali pubblici (per questi ultimi vi sono anche dei tariffari ufficiosi: 500/600 euro da pagare al chirurgo che compie una operazione, 50 euro all’anestesista, 50/100 euro agli infermieri per essere trattati umanamente).

 

La Grecia di oggi è quindi essenzialmente un paese che produce poco, la cui ricchezza reale giunge dai proventi del turismo e dell’agricoltura, e dove la maggioranza dei lavoratori è assunta in impieghi ottenuti tramite raccomandazioni, lavori spesso senza alcuna utilità creati appositamente per dare una occupazione alla popolazione.

Ma tutto questo rappresenta solo una parte delle origini della situazione greca. Per comprendere ulteriormente la situazione attuale, occorre nuovamente spostarsi nel passato.

LA VITA GIORNO PER GIORNO

 

Nei primi secoli del II millennio, mentre l’Europa Occidentale conosceva un periodo di lento ma costante sviluppo economico e socialele provincie amministrate dall’Impero Bizantino sperimentavano una economia prettamente agricola dal basso rendimento e gravata dall’imposizione delle tasse del governo centrale, il che portava la maggioranza della popolazione a vivere ai limiti della sussistenza.
All’incirca dal XII secolo in poi, inoltre, l’Impero Bizantino entrò in una crisi irreversibile, impegnato in una dura lotta per la propria sopravvivenza, una lunga agonia che condurrà alla sua definitiva scomparsa per opera dei turchi ottomani, che entrarono da conquistatori in Costantinopoli nel 1453.

Con la conquista ottomana, quindi, nel medesimo periodo storico in cui l’occidente sperimentava il Rinascimento, la Grecia e i Balcani cadevano sotto un dominio straniero, e i nuovi padroni si dimostrarono ancor più disinteressati rispetto al precedente impero delle sorti e del miglioramento delle condizioni di vita delle genti sottomesse.

 

NEI BALCANI IL TEMPO QUASI SI FERMÒ PER QUATTRO SECOLI, E LA GRECIA RIMASE PRESSOCHÉ ESTRANEA A TUTTE LE RIVOLUZIONI SOCIALI CHE NEL FRATTEMPO SI MANIFESTAVANO NEL RESTO D’EUROPALa guerra d’indipendenza greca del 1821 e il successivo formarsi dello stato greco videro quindi l’entrata ufficiale in Europa di una nazione che poco aveva in comune coi suoi vicini occidentali.

I greci avevano mantenuto la propria identità essenzialmente attorno alla propria fede ortodossa, ma culturalmente il popolo greco era un complesso amalgama di tradizioni occidentali ed orientali: i greci erano europei ed asiatici nello stesso tempo, come ancora testimonia la musica popolare, e costituivano una nazione i cui membri nella loro grande maggioranza nulla avevano in comune con la mentalità imprenditoriale – produttiva dell’Europa centrale. La stessa rivoluzione industriale in Grecia non è mai giunta, e il paese si presenta tutt’ora con un settore secondario poco sviluppato.

DA SEMPRE ABITANTI DI UNA NAZIONE SOSTANZIALMENTE POVERA, I GRECI SVILUPPARONO UN LORO PARTICOLARE APPROCCIO ALLA VITA, FONDATO ESSENZIALMENTE SUL VIVERE ALLA GIORNATA E SUL GODERE DEI POCHI AVERI NEL PRESENTE, IN UNA DIMENSIONE TEMPORALE CHE LASCIAVA POCO SPAZIO AL FUTURO REMOTO.

Questa era ancora la Grecia quando arrivò il periodo del grande cambiamento, la reale anticamera della crisi scoppiata oggi. Era la fine degli anni 70, e la Grecia era ancora caratterizzata da una certa povertà diffusa dai tratti dignitosi, dal momento che perlomeno era stata raggiunta l’autosufficienza alimentare.
Tutto cambiò nel 1981, con l’entrata della Grecia nella comunità Europea.

LA GRANDE FESTA EUROPEA

La Comunità Europea all’epoca era composta da stati economicamente forti, dotati di un settore secondario altamente produttivo e competitivo. La Grecia entrava nella famiglia come il parente povero, bisognoso di sostegno per raggiungere lo status degli altri membri. E gli aiuti arrivarono, assai copiosi, sotto forma di sovvenzioni. Iniziò quindi negli anni ottanta un flusso notevole di fondi europei che giungevano in Grecia per fare in modo che venissero compiuti gli investimenti necessari per l’ammodernamento del paese.

E i Greci, nella grande maggioranza, dai politici più altolocati fino ai dipendenti pubblici e ai contadini, fecero quello che farebbe chiunque non avesse mai avuto soldi tra le mani e si ritrovasse all’improvviso a gestire un certo patrimonio: fecero festa. I SOLDI DELLE SOVVENZIONI , INVECE CHE INVESTITI, VENIVANO DISTRIBUITI NEI DIVERSI LIVELLI DELLA SCALA GERARCHICA: I POLITICI ALTOLOCATI SI PRENDEVANO LA FETTA MAGGIORE, E POI VIA VIA SCENDENDO FINO ALLE CLASSI PIÙ UMILI. TUTTI, PERÒ, EBBERO LA LORO FETTA.

La Grecia, in questo modo, nel giro di venti anni raggiunse lo status sociale delle altre nazioni europee: si diffusero le automobili, i vestiti di marca, si ammodernarono le città e le abitazioni, e ci si divertiva molto. l settori della ristorazione e dello svago prosperarono. Il tutto, però, veniva fatto con soldi che non riflettevano il vero stato della ricchezza della nazione. Nel frattempo, per sostenere il nuovo status raggiunto, il debito pubblico cresceva in maniera esponenziale, senza sosta e senza ritegno, finché, con lo scoppio della crisi, e il livello del debito totalmente fuori controllo, la realtà ha bussato alla porta della Grecia.

Ecco quindi l’origine della situazione ellenica attuale, una situazione in cui nessuno è a suo modo “innocente”. Ovviamente, le colpe dei governanti, corrotti oltre ogni limite mentalmente immaginabile e totalmente incoscienti nel guidare una intera nazione al baratro, sono in proporzione enormemente maggiori rispetto a quelle del singolo cittadino che semplicemente si è ritrovato dentro un gioioso bengodi.

La colpa delle persone comuni, semmai, è stata quella di non aver mai riflettuto sull’origine della propria ricchezza, e di aver accettato senza eccessive rimostranze la pratica di corruzione generale, nonché il sistema di favori diffuso ad ogni livello, considerando normale e socialmente accettabile trovare un lavoro fisso presso un ente pubblico grazie alla raccomandazione del proprio meson, oppure dover pagare bustarelle per poter sbrigare perfino le più piccole pratiche burocratiche.
Ed è per questo, ed è un parere di greco sui greci, che non occorre commuoversi troppo alla vista dei manifestanti che ora scendono per strada affinché sia garantito il livello di vita a cui si erano abituati.

*figlio di Andreas Papandreou, fondatore del partito socialista greco, a sua volta figlio di Yorgos Papandreou, altro storico protagonista della politica greca della prima metà del XX secolo. In Grecia la democrazia garantisce a determinate famiglie la tenuta del potere molto meglio di quanto potè fare la monarchia coi re del XIX e del XX secolo

**canto malinconico in cui si esprime il proprio dolore e ci si lascia andare ad una certa,dignitosa, autocommiserazione.

L’Occidente ha perso l’Europa. L’Europa ha perso se stessa. Quale futuro per il mondo?

Il mondo non è mai stato senza Europa. Dall’impero Romano in poi, la storia dell’Occidente si è costruita attorno ad essa e da lì si è allargata, a spirale, man mano che si allargava la scoperta del “mondo”. Prima la Grecia e la “scoperta” dell’arte del pensare. Poi la civitas romana e la “scoperta” del diritto. Poi, ancora, l’Europa medioevale e la diffusione della visione cristiana del mondo, una visione che, da un lato, è passata attraverso innumerevoli testimonianze nel campo del pensiero, dell’arte, dell’organizzazione della società mentre dall’altro lato si è via via purificato da elementi culturali legati al tempo e a una visione ancora primitiva del mondo, visione che andava ingrandendosi man mano che la stessa civiltà europea si evolveva.

Certo, molti diranno che questa è una visione eurocentrica della storia umana, perchè mentre l’Europa nasceva, altre civiltà erano già fiorite e tramontare mentre altre, come quella cinese, erano in pieno sviluppo. Ciò che resta è che il mondo occidentale senza Europa non sarebbe mai esistito.

Oggi, invece, si assiste all’inarrestabile declino dell’Occidente, che intento è diventato globale, e ci accorgiamo che esso, proprio nel cuore della sua crisi, sta esistendo senza Europa. E così ha perso la radice da cui trarre la forza spirituale che l’ha tenuta insieme per venti secoli. In questo momento il mondo si trova fra il gigante asiatico Cina-India, che si sta affacciando al mondo come potenza economica più che come sorgente spirituale di rinnovamento della civiltà, il mosaico dei paesi arabi profondamente instabile come un elemento radioattivo, e per giunta rimasto intrappolato in una struttura sociale quasi tribale, sempre pronto a esplodere in forme di violenza estrema contro l’Occidente cristiano ad ogni cenno di critica o provocazione alla loro civiltà, mentre ancora l’Occidente stesso è affidato alla difesa di un’America che non ha mai avuto la vocazione culturale e non ha mai compreso il soggetto “mondo” nella sua diversità e pluriformità, ha solo steso a livello mondiale la ragnatela della sua potenza militare per proteggere ed espandere il suo spazio economico mentre dal suo interno, per ignoranza o per provocazione, continuano a partire, sempre in nome della libertà, provocazioni che accendono le reazioni del mondo arabe ottengono solo il risultato di acutizzare sempre di più lo scontro fra civiltà.

E l’Europa è il grande assente…

Ci si chiede: quale speranza ha di sopravvivere l’Occidente se l’Europa non ritrova la sua anima e non torna ad esercitare il suo ruolo di timoniere spirituale? (EC)

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di Barbara Spinelli – La Repubblica 19 settembre 2012

Scrive il narratore greco Petros Markaris che l’Europa vive una strana insidiosa stagione: del suo sconquasso non parlano che gli economisti, i banchieri centrali.

Con il risultato che la moneta unica diventa la sostanza stessa dell’Unione, non uno strumento ma la sua ragion d’essere, l’unica sua finalità: “L’unità dell’Ue è stata sostituita dall’unità dell’eurozona. Per questo il dibattito rimane così superficiale, come la maggior parte dei dirigenti europei, e unidimensionale, come il tradizionale discorso degli economisti”. Priva di visione del mondo, l’Europa ha interessi senza passioni, e non può che dividersi tra creditori nobili e debitori plebei. “Stiamo correndo verso una sorta di guerra civile europea”.

Come un improvviso sparo nel silenzio è giunto il nuovo sisma nei paesi musulmani, sotto forma di una vasta offensiva dell’integralismo musulmano contro l’Occidente e i suoi esecrabili video: la violenza s’addensa nel Mediterraneo, e l’Europa – in proprie casalinghe faccende affaccendata – d’un tratto s’accorge che fuori casa cadono bombe. S’era addormentata compiaciuta sulle primavere arabe, ed ecco irrompe l’inverno. Aveva immaginato che le liberazioni fossero sinonimo di libertà, e constata che le rivoluzioni son sempre precedute da scintille fondamentaliste (lo spiega bene Marco d’Eramo, sul Manifesto di ieri), prima di produrre istituzioni e costituzioni stabili. Come Calibano nella Tempesta di Shakespeare, i manifestanti ci gridano: “Mi avete insegnato a parlare come voi: e quel che ho guadagnato è questo: ora so maledire. Vi roda la peste rossa per avermi insegnato la vostra lingua!”.

L’Europa potrebbe dire e fare qualcosa, se non continuasse ad affidare i compiti all’America: non solo in Afghanistan, dove molti europei partecipano a una guerra persa, non solo in Iran, ma nel nostro Mediterraneo. È da noi che corrono i fuggitivi dell’Africa del Nord, quando non muoiono in mare con una frequenza tale, che c’è da sospettare una nostra volontaria incuria. L’Europa potrebbe agire se avesse una sua politica estera, capace di quel che l’America lontana non sa fare: dominare gli eventi, fissare nuove priorità, indicare una prospettiva che sia di cooperazione organizzata e non solo di parole o di atti bellici.

Ormai evocare la Federazione europea non è più un tabù: ma se ne parla per la moneta, o per dire nebulosamente che così saremo padroni del nostro destino. Ma per quale politica, che vada oltre l’ordine interno, si vuol fare l’Europa? Con quale idea del mondo, del rapporto occidente-Islam, dell’Iran, di Israele e Palestina, del conflitto fra religioni e dentro le religioni?

Più che una brutta scossa per l’Unione, l’inverno arabo rivela quel che siamo: senza idee né risorse, senza un comune governo per affrontare le crisi mondiali, e questo spiega il nostro silenzio, o l’inane balbettio dei rappresentanti europei. Difficile dire a cosa serva Catherine Ashton, che si fregia del pomposo titolo di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione. Nessuno sa cosa pensino 27 ministri degli Esteri, ibridi figuranti di un’Unione fatta di Stati non più sovrani e non ancora federali. Quanto ai popoli, non controllano in pratica più nulla: né l’economia, né il Mediterraneo, né le guerre mai discusse dall’Unione.
Per la storia che ha alle spalle (una storia di democrazie e Stati restaurati grazie all’unione delle proprie forze, dopo secoli di guerre religiose e ideologiche), l’Europa ha gli strumenti intellettuali e politici per divenire un alleato delle primavere arabe in bilico, e di paesi che faticano a coniugare l’autorità indiscussa dello Stato e la democrazia. E resta un punto di riferimento laico per i tanti – in Libia, Egitto, Tunisia – che vedono la democrazia o catturata dai Fratelli musulmani, o minacciata dai fondamentalisti salafiti.

La via di Jean Monnet, nel dopoguerra, fu la combinazione fra gli interessi e le passioni, dunque la messa in comune delle risorse (carbone e acciaio) che dividevano Germania e Francia. La Comunità del carbone e dell’acciaio (Ceca), fu nel 1951 l’embrione dell’Unione: gli Stati non si limitavano più a cooperare, ma riconoscevano in istituzioni sovranazionali un’autorità superiore alla propria. In seguito le istituzioni si sarebbero democratizzate, con l’elezione diretta di un Parlamento europeo sempre più influente. Così potrebbe avvenire tra Europa e Sud Mediterraneo, grazie a una Comunità non basata sul carbone e l’acciaio, ma sull’energia (o in futuro sull’acqua).

Un piano simile è stato proposto, nell’ottobre 2011, da due economisti di ispirazione federalista, Alfonso Iozzo e Antonio Mosconi. L’idea è che Washington non sia più in grado di garantire stabilità e democrazia, nel Mediterraneo e Medio Oriente. Di qui l’urgenza di una Comunità euromediterranea dell’energia: energia spesso potenziale, difficilmente valorizzabile senza aiuti finanziari e tecnologici europei: “Il principio di una Comunità tra eguali è essenziale e ricorda la rivoluzione realizzata dall’Eni di Enrico Mattei, che ruppe il monopolio delle “sette sorelle” petrolifere concedendo per la prima volta alla Persia la gestione in parità delle risorse petrolifere del paese”. La nuova Comunità deve “riconoscere ai paesi associati la proprietà delle risorse energetiche e degli impianti, dando all’Europa diritti di utilizzazione su una quota dell’energia prodotta, per un periodo determinato con aumento progressivo della quota utilizzata localmente, in cambio delle tecnologie e degli investimenti effettuati”. Si dirà che è solo una comunità di interessi. Lo si disse anche per la Ceca. In realtà l’ambizione politica è forte: sostituire il modello egemonico con un modello paritario e chiedere agli associati precisi impegni democratici, controllati da una comune Assemblea parlamentare.

Sostituire o affiancare il potere Usa nel Mediterraneo vuol dire prendere atto che quel modello non funziona: ha creduto di esportare democrazia con le guerre, creando Stati fallimentari e rafforzando Stati autoritari. Le democrazie (Israele compresa) hanno sostentato per anni i fondamentalisti (i talebani contro l’Urss, Hamas contro l’Olp) e volutamente ignorano una delle principali fonti delle crisi odierne: l’Arabia Saudita, finanziatrice dei partiti salafiti che minano le barcollanti, appena nate democrazie arabe.

Obama è alle prese con importanti insuccessi. Nonostante il discorso di apertura all’Islam tenuto nel 2009 al Cairo, il diritto della forza prevale spesso sulla forza del diritto, come per Bush. Abbiamo già citato l’Arabia Saudita, non meno pericolosa dell’Iran e tuttavia esente da obblighi speciali. Permane l’influenza della destra israeliana su Washington, con effetti nefasti sul Medio Oriente. Guantanamo non è stata chiusa come promesso (risale all’8 settembre la morte di un prigioniero, Adnan Latif, torturato per 10 anni senza processo, nonostante l’ingiunzione dei tribunali a rilasciarlo). L’Iraq è liberato, e nessuno protesta contro i pogrom polizieschi della popolazione gay, testimoniati in questi giorni da un documentario della Bbc. Le guerre scemano, ma sotto Obama l’uso di droni senza piloti è sistematico, in Pakistan, Somalia, Yemen: le uccisioni mirate in zone non belliche “distruggono 50 anni di legge internazionale”, sostiene l’investigatore Onu Christof Heyns. La questione ci concerne. Obama risponderà all’attentato di Bengasi con droni che forse partiranno da Sigonella, e sul loro uso il governo italiano non potrà tacere.

Tocca all’Europa dare speranze al Mediterraneo, difendere le sue democrazie. Se si dà un governo, l’Unione avrà l’euro e una politica estera. Solo in tal caso il colpo di fucile che udiamo nei paesi arabi potrà svegliare, come nella poesia di Montale, un’Europa il cui cuore “ogni moto tiene a vile, raro è squassato da trasalimenti”.

L’Europa non è solo manutenzione (B. Spinelli)

L'Europa non è solo manutenzione

In un tempo di crisi radicale, di paura verso il futuro e di crollo di certezze, il processo di unificazione europea ha subito un arresto e non si è più ripreso. Sembra che il sogno di Schuman, Adeauer, Altiero Spinelli, De Gasperi, Monnet si sia frantumato. Non si ferma, però, lo sforzo dei politici di riprendere il cammino. La questione è come. Ci si chiede se basta combattere il diffuso sentimento antieuropeista che domina nel tempo presente oppure se si tratta di andare più in profondità e ritrovare le motivazioni e riaccendere la passione nei popoli di camminare insieme… e camminare verso l’unità. Sono due strade molto diverse. (EC) 
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di BARBARA SPINELLI

Una intuizione sul presente disagio della civiltà europea: sulla sfiducia, sul risentimento che monta contro l’Unione. Quel che non convince è il linguaggio dei proponenti, ed è il vuoto di iniziative che l’annuncio prefigura. Non basta affibbiare agli antieuropei un epiteto – populista – che svilisce ogni loro argomento ed è quindi inadatto a reintegrare quel che si sta disgregando.

Anche la bellicosa parola lotta è incongrua, soprattutto quando la strategia si riduce a quella che Monti chiama “manutenzione psicologica e politica” di tanto diffuso malessere. Manca l’analisi dei motivi per cui si moltiplicano i moti di rigetto, nati da un’austerità che ha sin qui generato recessione e povertà. Manca soprattutto una rifondazione dell’Unione che vada oltre la manutenzione. “Io penso semplicemente a una riflessione, non al percorso successivo”, così Monti a Sarajevo: come se fosse sufficiente un dibattito, nel quale i medici d’Europa si chinano, sicuri delle proprie ricette, sui pazienti che giacciono ai loro piedi sempre più infermi e meno pazienti.Se così stanno le cose è proprio il percorso successivo che conta, ben più del dibattito. Se quasi tutto un popolo, in Germania, attende il verdetto che domani darà la Corte costituzionale su Fiscal compact e Fondo salva-Stati, e se l’attende nella convinzione che la sovranità del Paese e del suo Parlamento siano stati lesi in nome dell’Europa, vuol dire che siamo in un’epoca di nervosità, di torbidi, nella quale ciascuno Stato e ciascun popolo è in lotta contro il presunto nemico del bene. Chi combatte tali nemici non ha bisogno di mettere se stesso in questione, di inventare farmaci diversi. La colpa è tutta dei populisti, dicono in Italia. È tutta dei debitori, dicono in Germania. Non dimentichiamo che Schuld in tedesco significa due cose, debito e colpa: spostata sul terreno morale, la battaglia si fa cruenta. Non dimentichiamo che Weidmann, governatore della Bundesbank, è sconfitto nella Bce ma vincitore politico in patria.Occorre dunque che i capi di governo e le comuni istituzioni facciano l’Europa veramente, ne discutano con le società (Parlamenti nazionali, Parlamento europeo), e non si limitino alla gestione psico-politica di popoli minorenni o depressi. Occorre, da parte dei comandanti d’Europa, quella che Albert Hirschmann chiama auto-sovversione, auto-confutazione: non sono fallite solo le misure ma anche le dottrine dominanti, avendo prodotto un’Unione divisa fra creditori e debitori, e aumentato disuguaglianze e povertà. Una lotta d’altro genere s’impone, che conduca all’Europa politica: rifondando ed estendendo i perimetri geografici dell’agire politico, partitico, democratico. Dando all’Unione una costituzione vera, scritta dai popoli rappresentati nel Parlamento europeo e sottratta al “possesso” degli Stati. L’obiettivo non è astratto.

Urgono piani di investimento, e una crescita che sarà duratura a patto di cambiare natura (puntando su ricerca, energie alternative, istruzione, comune difesa): solo un governo europeo può farlo – con un bilancio consistente approvato da un comune Parlamento – visto che gli Stati non hanno più soldi. Gli esperti concordano nel dire che i risparmi sarebbero enormi se la crescita fosse fatta in comune, e consentirebbero cali di tasse nei singoli Paesi.Solo così si dimostrerà che a comandare non sono lontani oligarchi, e che le terapie adottate sono confutabili come è confutabile in democrazia ogni politica, ogni leadership. L’ultima mossa di Mario Draghi è ottima, ma finché a muoversi è un organo tecnico, per legge a-politico, non affiancato da un governo, un Tesoro, un fisco europeo, è mossa insufficiente. Se i politici pensano che il grosso è fatto, grazie a Draghi, si sbagliano: perché tocca a loro l’azione decisiva, e il grosso non consiste né nella lotta ai populisti né nella cura di mantenimento. L’una e l’altra mantengono lo status quo e fanno morire la politica, che in democrazia è ricerca di alternative e conquista di consenso popolare, non di consenso dei mercati. Quelli che vengono definiti populismi sono figli di questo status quo, e di questa morte.Ci s’indigna quando Grillo dice:

“I politici sono morti che camminano”. Sono parole fatue, essendo rivolte indiscriminatamente a tutti. Ma sono vivi i politici, e la sinistra, e la destra? Se tutti aspettano i governatori della Bce o i giudici di Karlsruhe come si aspetta Godot, vuol dire che c’è del vero nell’ira gridata da Grillo: sono quattro anni che i governi sono impelagati in politiche sterili, che hanno portato paesi come la Grecia a una contrazione di redditi e servizi pubblici senza eguali nel dopoguerra, che hanno azzerato il controllo democratico sui rimedi dell’Unione, e dilatato l’imperio di oligarchie allergiche alla politica per obbligo o per scelta. Che è la manutenzione dell’esistente, se non perpetuare la tara dell’euro-senza-Stato?L’Europa unita si farà solo con i popoli, e solo se la politica riacquisterà il primato ceduto negli anni ’70 ai mercati. Rinascerà – la politica come professione – se si trasforma alle radici, se le scelte fatte sono riconosciute sterili, come il chicco di grano che solo morendo produce molto frutto. La via non è abolire i partiti, o il contrasto classico destra-sinistra. Il liberalismo si nutre del conflitto fra idee alternative della società, della politica, dell’economia. Il migliore è selezionato nella gara, nella disputa. Dai tempi di Pericle questo è democrazia: “Qui a Atene noi facciamo così. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Benché in pochi siano in grado di dare vita a una politica, tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla”.

 

Come giudicarla, se chi confuta è ostracizzato come populista?Resta che la disputa dovrà mutare volto, e rotta. Sinistre, destre, partiti, sindacati dovranno dare una dimensione europea a programmi e delibere, e imparare l’agorà dell’Unione. Non possono nascondere a militanti e cittadini che in Europa gli Stati nazione non hanno più gli strumenti per fronteggiare la crisi, che sono troppo piccoli nell’economia-mondo. Mai le sinistre riusciranno a salvaguardare il modello sociale e democratico della Comunità postbellica, se l’ottica resta nazionale.Sovvertire se stessi non significa abolire destra e sinistra, e sognare comitati d’affari che curino, al posto di inetti politici, interessi e poteri di industrie obsolete. Anche questo va ricordato: sono i comitati d’affari che, fidando per trent’anni nelle virtù riequilibratrici dei mercati, hanno causato la crisi del 2007-2008. Auto-confutarsi serve a scoprire quali sono le nuove linee divisorie: tra forze che chiedono un’Unione federale, e forze aggrappate a sovranità nazionali fasulle. Prendere il potere in Europa e non più nella nazione, visto che è lì e non qui che esso si esercita: ecco la missione per sinistre e destre. Un vertice dell’auto-sovversione: questo sì sarebbe benvenuto!

Napolitano ha detto proprio questo, il 6 settembre a Mestre, parlando di nuove mappe d’Europa: nell’Unione non esistono discorsi simili, lungimiranti e severi sulle cose fatte e da farsi. Il Presidente ha denunciato i limiti delle misure anti-crisi, e indicato la via d’uscita. I partiti (parafrasando Paul Reynaud, fondatore con Monnet della Ceca) devono europeizzarsi o perire. Non cadono infatti dal cielo, “il ripiegamento, l’immeschinimento, la perdita di autorità della politica”. O l'”impoverimento ideale (delle forze politiche), gli arroccamenti burocratici, l’infiacchimento della loro vita democratica, il chiudersi in logiche di mera gestione del potere e di uno scivolare verso forme di degenerazione morale”.Di questo degenerare sono artefici i partiti, non il mercato, e a loro spetta sanarlo, cessando di stipare l’Unione negli armadi della politica estera. Le parole di Napolitano sono altamente realistiche, non retoriche. Invocando l’europeizzazione di Stati, partiti, movimenti, egli cita un padre del federalismo, Mario Albertini: “Il “punto di non ritorno” (dell’unità europea) non potrà essere che propriamente politico. È il momento in cui la lotta politica diviene europea, in cui l’oggetto per il quale lottano uomini e partiti sarà il potere europeo”.Lottare per la conquista del potere in Europa e per il suo controllo democratico: non è missione piccola, per una sinistra che voglia salvare i due pilastri dell’unità europea concepiti nel pieno dell’ultima guerra; il pilastro antinazionalista e quello dello Stato sociale, il Manifesto di Ventotene dell’agosto ’41 e il rapporto Beveridge sul Welfare del novembre ’42. Anche le destre hanno contribuito al doppio pilastro (da Adenauer e De Gasperi a Kohl): oggi constatiamo che son divenuti custodi delle vecchie sovranità nazionali. È un buon programma, per una sinistra che non vuol perire, come ha fatto per decenni, dedicandosi alla pura manutenzione.

Da “La Repubblica”

L’Europa e il Crocifisso – L’iter giudiziario a Strasburgo dal divieto (2009) al ribaltamento della sentenza (2011)

Riportiamo qui di seguito alcuni articoli di “Avvenire”, che trattano dell’iter giudiziario riguardo all’affissione del crocifisso nei luoghi pubblico.

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La triste deriva di Strasburgo

Quei giudici che vorrebbero farci tutti più poveri (1)

La Corte di Strasburgo ha aperto le ostilità contro il crocifisso nelle scuole, con una sentenza che non soltanto è andata oltre le sue competenze (e la sua stessa giurisprudenza), ma ha dato una interpretazione gelida, esclu­sivista, antiumanistica della libertà religiosa. Perché la libertà religiosa è una libertà aperta a tutti, inclusiva, che dialoga e insegna ai gio­vani a dialogare con gli altri, a vedere nei sim­boli religiosi segni di affratellamento tra gli uo­mini. La Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 prevede che il ragazzo sia educato «nel rispetto dei valori nazionali del Paese nel quale vive e del Paese di cui può essere origi­nario e delle civiltà diverse dalla sua» (artico­lo 29). Per Strasburgo questa Convenzione non esiste. Esiste l’assenza di valori, esiste un de­serto nel quale ciascuno di noi nasce per ca­so, senza una storia ricca di eventi, eroismi, valori e simboli religiosi ed etici, tra i quali il cro­cifisso è il più noto in tutto il mondo.

L’aspetto più doloroso della pronuncia è quan­do essa parla del crocifisso come di un simbolo di parte, che divide e limita la libertà di edu­cazione, ignorando che il crocifisso è, dovun­que, simbolo di pace e di amore tra gli uomi­ni, è all’origine di una spiritualizzazione che ha animato e permeato la cultura occidentale per espandersi con linguaggio universale in tutto il pianeta. Il crocifisso ricorda chi è andato in­contro alla morte senza colpa per aver tra­smesso un messaggio di spiritualità e di fra­tellanza, chi ha predicato l’amore per il pros­simo come comandamento eguale all’amore verso Dio, chi ha annunciato nel discorso del­la Montagna il riscatto per gli ultimi e per chi soffre dell’ingiustizia, ha promesso il regno di Dio a chi opera bene nella vita terrena andan­do incontro agli altri, a chi è malato, a chi non ha nulla e ha bisogno di tutto. Questo è Gesù di Nazaret raffigurato nel simbolo della Croce. Per questi insegnamenti – e per aver alimen­tato la fede e la spiritualità di generazioni di uo­mini nel corso dei secoli – è conosciuto, ama­to, rispettato e venerato in tutti gli angoli del­la terra. Aprire le ostilità verso il crocifisso vuol dire opporsi a quanto di più alto e spirituale sia entrato nella storia dell’umanità, vuol dire fa­re la guerra a se stessi e alla propria coscienza. Per sette giudici di Strasburgo il crocifisso non sarebbe un simbolo neutrale, ma dietro que­sta asserita neutralità si nasconderebbe un provincialismo arido, un vuoto antropologi­co, perfino un filo di ignavia.

Scriveva Jhoann Ficthe che «il cuore del cosmopolita non è o­spizio per nessuno», intendendo dire che gli uomini hanno radici e identità, senza le quali non possono parlare con altri, non possono accogliere con amore altre persone. Un Paese che voglia essere soltanto neutrale sarebbe un guscio vuoto, una parentesi fredda nel fluire della storia. Anche un’Europa che giunga al punto di negare, nascondere, o abbattere, la propria tradizione e identità cristiana diven­terebbe una terra di nessuno, derisa dagli al­tri, incapace di trasmettere i suoi valori più profondi, di confrontarsi con altri popoli e con­tinenti proprio in un’epoca di globalizzazione che chiede incontro e dialogo. Quale europeo avrebbe il coraggio di chiede­re all’Asia buddista di togliere dagli spazi pub­blici i simboli di Buddha il compassionevole, o all’Asia induista le ricche raffigurazioni di quella religione, o ai musulmani di nasconde­re il Corano, tacere il nome di Allah in pubbli­co e celare la propria fede nelle scuole? Nes­suno avrebbe il coraggio di farlo, perché pro­verebbe istintivamente vergogna interiore nel proporre agli altri di spogliarsi della propria storia e tradizione religiosa.

Chi predicasse questa neutralità sarebbe respinto come un e­straneo, riguardato come un essere senza cuo­re e passione. Il crocifisso non divide gli uo­mini, li unisce in un orizzonte di valori che so­no a servizio dell’umanità intera, alla base del dialogo interreligioso per il bene degli uomini e della società. Con questa sentenza, una cer­ta Europa perde di nuovo l’innocenza, come altre volte è avvenuto in passato, perché tradi­sce sé e le proprie origini, apre una ferita nel­la propria anima, e offende con il crocifisso tutti i simboli e ogni coscienza religiosa. Se ap­plicassimo la pronuncia di Strasburgo al mon­do intero, questo – come ha notato ieri il pre­sidente della Cei, cardinal Bagnasco – diver­rebbe più povero. E si allontanerebbe un po’ dal cielo. Ma la stragrande maggioranza degli uomini non vorrebbe una deriva così triste e continuerebbe a venerare ed esibire con or­goglio i simboli della propria fede.

Carlo Cardia

Avvenire 5 novembre 2009

 

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CORTE EUROPEA

Sentenza sul Crocifisso, una sintesi (2)

Corte europea dei diritti dell’uomo – Sez. II – Decisione 3.11.2009

LAUTSI contro Italia
(ricorso n° 30814/06)

Articoli 2, prot. 1 (diritto all’istruzione), articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), articolo 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione), articolo 10 (libertà di espressione) della Convenzione.

L’esposizione del crocifisso nelle scuole lede la libertà di aderire ad una religione,diversa dalla cattolica,  ma anche quella di non aderire ad alcuna religione, specie se collegata a personalità in formazione, quali quelle dei discenti.

Il Fatto

La signora Soile Lautsi, di origine finlandese,  ha presentato ricorso alla Corte di Strasburgo in proprio e nella qualità di esercente la potestà genitoriale, lamentando che l’esposizione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica frequentata dai suoi figli, Dataico e Sami Albertin, rispettivamente di undici e tredici anni, avrebbe costituito un’ingerenza incompatibile con la libertà di pensiero e di religione nonché con il diritto ad un’educazione e ad un insegnamento conformi alle proprie convinzioni religiose e filosofiche.
La ricorrente, nel luglio del 2002, aveva impugnato dinanzi al Tar Veneto la deliberazione del consiglio di istituto con cui si era stabilito di mantenere il crocifisso nelle aule scolastiche. Nel corso del giudizio, il Tar, alla luce del principio di laicità dello Stato e, comunque, degli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale  degli articoli 159 e 190 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), come specificati, rispettivamente, dall’art. 19 (e allegata tabella C) del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297 e dall’articolo 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965 e dell’art. 676 del predetto d.lgs. n. 297 del 1994, “nella parte in cui includono il crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche”. La Corte costituzionale, con ordinanza del 13 dicembre 2004, n. 389, aveva dichiarato manifestamente inammissibile la questione ritenendola, in realtà, riferita alle norme regolamentari richiamate che, prive di forza di legge, esulano dal sindacato della Corte. Nel marzo del 2005 il Tar rigettava il ricorso. Nel febbraio del 2006 la sesta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n.556 del 13 febbraio 2006 confermava la sentenza di primo grado, ravvisando nel crocifisso un valore laico della Costituzione italiana, rappresentativo dei valori della vita civile. ( a cura di Corrado Bile)

Il Diritto

La Corte ha  proceduto ad un’interpretazione dell’articolo 2 del protocollo 1 in coordinamento con quella degli articoli 8, 9 e 10 della Convenzione. In particolare, ha ritenuto di collegare il principio di rispetto delle convinzioni religiose a quello, fondamentale, all’istruzione, negando la possibilità che la scuola possa essere luogo di proselitismo, ma, piuttosto, di incontro di culture e religioni diverse. La Convenzione, secondo la Corte, riconosce il diritto di credere in una religione, ma anche di non credere in alcuna religione. Richiamando la decisione Karaduman/Turchia del 3 maggio 1993, la Corte osserva che la manifestazione dei simboli di una religione può costituire motivo di pressione sulla libertà degli studenti, specie se in età formativa. L’esposizione del crocifisso potrebbe, dunque, essere “inquietante” per i seguaci di altre religioni o per quelli che non ne seguono alcuna. Travalicando e contestando le considerazioni contenute nella sentenza del Tar Veneto richiamata in premessa, e confermata dal Consiglio di Stato, la Corte ha ritenuto che l’esposizione nelle scuole pubbliche del crocifisso ha un valore eminentemente religioso, proprio della religione cattolica, prevalente in Italia, e, dunque, vulnera la libertà negativa di poter non aderire ad alcuna religione (già riconosciuta nella sentenza Dahlab/Svizzera del 1998) ed è altresì in contrasto con il pluralismo religioso, valore da difendere e tutelato in ambito familiare, pubblico ed espressivo dagli articoli 8, 9 e 10 della Convenzione e 2 del protocollo n. 1.

(a cura di Umberto de Augustinis, dal sito della Presidenza del Consiglio)

Avvenire 10 novembre 2009

 

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PALAZZO CHIGI

Crocifisso, l’euroricorso obbligherà alla coerenza

Ci sono tutte le condizioni («elementi giuridici e di fatto») perché la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo riveda la sentenza contro l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche italiane. Lo attesta Carlo Cardia, docente di diritto ecclesiastico a Roma Tre, che ha curato uno studio sul tema (“Identità religiosa e culturale europea”) presentato ieri in una conferenza stampa a Palazzo Chigi dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta.Nel testo che sarà illustrato nella sua versione integrale il 4 maggio a Palazzo Madama con l’intervento anche del presidente del Senato, Renato Schifani, si afferma tra l’altro che, se non fosse modificato, il pronunciamento di Strasburgo produrrebbe un’«iconoclastia laica a senso unico» a danno di un simbolo che ha un valore di «pace e di apertura agli altri». In altri termini si avrebbe una scuola italiana «ricca dei colori di tante religioni, a cominciare dall’Islam, ma priva dell’unico simbolo» che rappresenta la nostra tradizione.

La Grande chambre della Cedu, ha riferito Letta, il 30 giugno esaminerà il ricorso italiano contro la sentenza (già dichiarato «ammissibile»). Comunque il governo il 30 aprile presenterà un’ulteriore memoria illustrativa che si «farà forte» dello studio di Cardia. Il suo lavoro, che «esplora la materia in maniera molto ampia, approfondita, colta», con riferimenti «culturali e filosofici», è stato «molto apprezzato» a Palazzo Chigi. L’esecutivo, perciò, gli ha commissionato anche uno studio sui simboli di tutte le religioni, perché possa condurre all’approfondimento delle tematiche di tale simbologia e della sua presenza nei luoghi pubblici.

Cardia si è detto «fiducioso» sulla decisione di Strasburgo, perché ritiene che la Corte «a suo tempo non abbia tenuto conto di elementi molto importanti, incorrendo anche in qualche caso in veri e propri errori, anche da un punto di vista tecnico». Tra di essi il fatto che la Cedu ha contraddetto la sua stessa giurisprudenza più che decennale tutta improntata al rispetto del principio di «sussidiarietà», per cui la discrezionalità delle decisioni in materia religiosa spetta alle autorità nazionali. In una sentenza del 1994, ad esempio, si riconosce la necessità di rispettare i sentimenti della grande maggioranza dei Tirolesi «cattolici romani».

Cardia ha ricordato inoltre che in base allo Statuto del Consiglio d’Europa del 1949, i governi firmatari sono «irremovibilmente legati ai valori spirituali e morali, che sono patrimonio comune dei loro popoli e la vera fonte dei principi di libertà personale, libertà politica e preminenza del diritto, dai quali dipende ogni vera democrazia».

Strasburgo, poi, secondo il giurista, ha commesso un altro svarione «macroscopico» attribuendo la normativa sul crocifisso a una posizione confessionale dello Statuto albertino, secondo cui la cattolica è la sola religione di Stato. In realtà l’esposizione del simbolo è prevista da leggi successive di uno Stato talmente «separatista» nei confronti della Chiesa da adottare leggi antiecclesiastiche. «La Corte evita di esaminare – si legge ancora nel rapporto di Cardia – l’impianto complessivo della disciplina costituzionale italiana fondato su una concezione di laicità positiva», «sociale», aperta al pluralismo (sono state ricordate, anche da Letta le intese stipulate con molte confessioni religiose). Una concezione dunque nettamente diversa da quella «negativa» della Francia, dove sono proibiti tutti i simboli religiosi a cominciare dal velo islamico per le donne, lo chador.

Interessante a questo proposito che la Corte interpellata su di esso per due volte, non si è affatto pronunciata contro il velo. Un’altra sottolineatura in blu meriterebbe quella parte della sentenza secondo cui il crocifisso simboleggia soltanto il cattolicesimo, quando invece riguarda il cristianesimo nel suo complesso: il mondo ortodosso, tra i primi a protestare per la sentenza contro l’Italia, come quello riformato protestante.

Il pronunciamento della Cedu, peraltro, «descrive una scuola italiana che non esiste» in cui sarebbe violata (ed è questa solo «un’asserzione ideologica») la libertà religiosa delle minoranze, mentre invece essa è protetta con una pluralità di presenze religiose, disciplinate giuridicamente che «eliminano ogni monismo e ogni possibilità di condizionamento dei ragazzi». In ogni modo, conclude Cardia, i diritti delle maggioranza «saranno almeno uguali a quelli appartenenti alle minoranze, e lo sviluppo della multiculturalità li fa emergere in modo ancor più netto e limpido rispetto al passato».

 

Pier Luigi Fornari

 

Avvenire 27 aprile 2010

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L’ANALISI

Cultura e storia unica bussola degli Stati

Il 28 gennaio scorso è stato presentato dall’Italia un ricorso alla sentenza pronunciata il 3 novembre. Il documento tra l’altro ha sottolineato che «imporre a uno Stato di rimuovere il simbolo religioso che esiste già e la cui presenza è giustificata dalla tradizione del Paese (senza che questo simbolo obblighi all’adesione di fede), implica un valore negativo contro ciò che rappresenta questo simbolo e viola la libertà religiosa». Inoltre il ricorso del governo chiede «se la semplice presenza di “inerti”, come il crocifisso, possa turbare la coscienza del non credente, o se, invece, non si utilizzi questo turbamento per manifestare una vera intolleranza della dimensione religiosa».

Peraltro, argomenta il ricorso, «la neutralità assoluta dello Stato in materia religiosa è una chimera». Infatti qualsiasi normativa in materia «può essere un modo, una posizione che può offendere la sensibilità di un certo numero di persone, come è inevitabile e riconosciuto dalla stessa Corte. Così, in questo caso, le persone di fede potrebbero sentirsi offese per il fatto di non poter vedere il loro simbolo religioso sul muro». In proposito, il ricorso cita il giurista ebreo Joseph Weiler, il quale ha osservato che «la rinuncia da parte di uno Stato a tutte le forme di simbolismo religioso non è una posizione più neutrale di quella di chi aderisce a una forma di simbolismo religioso determinato». Nel contesto della realtà storica e della cultura italiana, rimuovere il crocifisso dalle pareti delle scuole non ha nulla a che fare con il comportamento di uno Stato veramente laico, ma, ancora citando Weiler, «significa semplicemente che si concentrano nel simbolismo dello Stato, una visione del mondo piuttosto che un’altra, passando per tutte le neutralità».

Il ricorso accenna, infine, al principio di sussidiarietà: «Inoltre, come riconosciuto dalla stessa Corte, le autorità nazionali hanno una notevole discrezionalità in una materia così complessa e delicata, strettamente legata alla cultura e alla storia». Poiché «la neutralità si oppone allo stato confessionale che promuove apertamente una particolare religione, ma anche allo stato basato su un secolarismo militante che promuove l’agnosticismo o l’ateismo, ne consegue che l’incompetenza dello Stato a rispondere a domande sulla trascendenza non può condurre anche alla promozione di ateismo o di agnosticismo con l’eliminazione dei simboli religiosi dalla vita pubblica».

La memoria dell’Italia presentata il 30 marzo ribadisce che l’errore della Corte è proprio questo: «optare per la neutralità, mentre si realizza, in effetti solo una posizione di vantaggio a favore di un atteggiamento a-religioso o anti-religioso; la prova è che in questo caso, la ricorrente, che è partner della Uaar (Unione degli ates e degli agnostici, razionalisti) agisce in quanto ateo militante. Il suo scopo è semplicemente quello di ottenere, con il pretesto della laicità dello Stati, che la sua ideologia a-religiosa o addirittura anti-religiosa prevalga: in questo caso sulla religione professata dalla maggioranza della popolazione, e, come vedremo in seguito, contro la volontà della stragrande maggioranza degli altri genitori. Il riferimento alla laicità dello Stato fatto dal ricorrente (la quale laicità non ha alcun fondamento nella Convenzione) non è che una invocazione per imporre una ideologia a-religiosa o anti-religiosa per qualsiasi religione e cancellare la tradizione del Paese ospitante».

Secondo la memoria inoltre la Corte si basa su «una concezione strettamente individualistica della religiosità», che non si attaglia all’Italia e ad altri Paesi europei. Il documento cita la ricerca fatta dal professor Carlo Cardia, in cui si sostiene che il concetto di neutralità in Italia è molto diverso dalla laicità francese; è più benevolo verso qualsiasi tipo di religione, ma tuttavia anche coerente alla Convenzione. Sulla base dell’analisi dei pronunciamenti passati si osserva poi che in applicazione del principio di sussidiarietà «la Corte ha riconosciuto che le autorità nazionali sono in una posizione migliore rispetto al giudice europeo per valutare le situazioni locali e l’applicazione della Convenzione a queste specifiche realtà. Al tal fine la Corte riconosce agli Stati membri un “margine di discrezionalità nazionale”, strettamente correlato al grado di “consenso” esistente tra i Paesi europei».

Degno di nota infine quanto decise nel gennaio del 2006 la sesta sezione del Consiglio di Stato ponendo fine alla vicenda in Italia. L’esposizione del crocifisso anche per i non credenti «è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civilità italiana».

Pier Luigi Fornari

Avvenire – 30 giugno 2010

 

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CORTE EUROPEA: IL RIBALTAMENTO DELLA SENTENZA DEL 2009 (15 contro 2)

Cardia: il più bel regalo per i 150 anni della nazione

«È il più bel regalo che potessimo ricevere per i 150 anni dell’unità d’Italia». Non nasconde la sua soddisfazione per la sentenza il giurista Carlo Cardia, docente di Diritto ecclesiastico a Roma Tre. Alla sentenza di primo grado della Corte europea dei diritti dell’uomo, ieri ribaltata, non si era rassegnato e aveva messo nero su bianco in un volume parecchie delle ragioni che ieri la Grande Chambre ha accolto (Identità religiosa e culturale europea. La questione del Crocifisso, Allemandi editore). Libro che è stato base teorica per il ricorso vincente dell’Italia.

Professore, si aspettava questo risultato? E una maggioranza di 15 a 2?
Voglio rivendicare di essere stato uno dei pochi che ci ha creduto fino in fondo. Perché, conoscendo la giurisprudenza precedente della Corte, la sentenza di un anno fa era scandalosa. Molti dicevano: ma è stata approvata da tutti e sette i giudici! Che significa, anche 2mila persone possono sbagliare insieme, ribattevo.

Cosa l’ha colpita in quest’ultimo verdetto?
La notazione, molto bella, che in Italia la scuola è aperta a tutti. Anzi qualche volta – pensi un po’ – fanno obiezione al vescovo. Da trent’anni abbiamo una scuola pluralista, e la corte ne ha tenuto conto. E si tratta di un riconoscimento della nostra laicità positiva, aperta, che non c’è mai stato prima in Europa.

Quali i cardini di questa sentenza?
Uno di principio e uno di merito. Il primo è il riconoscimento che ogni Paese ha il diritto di dare il giusto rilievo alla propria tradizione. E questo proprio in forza delle norme europee, della Convenzione per i diritti dell’uomo. Perciò la tradizione cristiana, che è qualcosa di vivo, ha un suo spazio e un suo ruolo da svolgere.

Passando al merito della questione?
Qui la Corte fa intravedere un elemento importante: il simbolo religioso in sé non comporta la lesione dei diritti del ragazzo o della famiglia, non è elemento di divisione. O addirittura di parte. Come, con un certo scandalo mio – ma non solo –, aveva affermato la sentenza di primo grado. Qui si afferma, invece, in modo sottile che esso non deve essere vissuto in maniera negativa, come se fosse ostile. Vale per la croce, ma anche per altri simboli.

Nessun indottrinamento o pressione, dunque.
Appunto. Il simbolo va visto in modo positivo, come integrazione della nostra identità italiana e – possiamo aggiungere – europea.

Quali effetti potrà avere la decisione dal punto di vista culturale oltre che giuridico, politico e sociale proprio sulla costruzione dell’Europa futura?
Innanzitutto ripara il torto fatto da quella precedente. Si badi bene, non solo all’Italia, ma alla stessa giurisprudenza trentennale della Corte. Inoltre lancia il messaggio che l’identità e la tradizione cristiane devono trovare il loro giusto posto – giusto, non esagerato, e ciò è positivo – ai livelli sociale, giuridico e giurisprudenziale. La tradizione integra i diritti di libertà. E ciò fa guardare positivamente al futuro. Perché finora c’è stato un certo atteggiamento restrittivo: si pensi all’obiezione di coscienza in materia di aborto e biotecnologie. E anche a una certa volontà di emarginare la religione, confinandola nel privato.

In pochi giorni il fronte anti-crocifisso incassa due sonore sconfitte, se si possono mettere insieme la sentenza della Cassazione italiana sul giudice Tosti e ora quella di Strasburgo. Nessuna lesione della laicità, dicono entrambe le corti.
La Cassazione si è pronunciata su un caso particolare. Qui, invece, siamo a un caso generale, a una sentenza più ariosa, che soprattutto riguarda tutta l’Europa. Con l’Italia si sono schierati molti Stati di tradizione ortodossa. Il crocifisso sta quasi ovunque, tranne in Francia. Ed è importante la sottolineatura che le tradizioni vanno rispettate. In altre sentenze era prevalsa l’influenza della laicità alla francese. Stavolta viene riconosciuta la nostra concezione di laicità aperta.

Gianni Santamaria

Avvenire – 19 marzo 2011

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INTERVISTA

 

«Crocifisso: così abbiamo convinto  i giudici della Grande Chambre»

Un fulmine a ciel sereno, che ha generato un allarme in svariati Paesi del Consiglio d’Europa, spingendoli a entrare in contatto con noi per difendere un simbolo che appartiene anche alla loro tradizione». Nicola Lettieri, rappresentante dell’Italia a Strasburgo nel dibattimento del 30 giugno davanti alla Grande Chambre, e ora giudice di Cassazione, racconta le reazioni provocate dalla sentenza di primo grado che ha dato ragione al ricorso di Soile Lautsi, alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche.

Un pronunciamento sconcertante, dunque, quella sentenza di primo grado…
Infatti sarebbe stato auspicabile che la camera giudicante, in caso di una prevalenza dell’orientamento negativo per il nostro Paese, rinviasse la decisione alla Grande Chambre.

Su che base?

La presenza dei simboli religiosi in uno spazio pubblico è un tema di grande importanza, non è una cosa che può decidere una semplice camera di sette componenti, anche perché la giurisprudenza europea è fatta di precedenti, sull’esempio di quella anglosassone. In questa materia precedenti non ce n’erano, quindi il pronunciamento sarebbe spettato direttamente alla Grande Chambre con un’udienza pubblica nella quale sono presenti metà dei giudici della corte.

Quale la strategia difensiva all’indomani del 3 novembre 2009?
Dimostrare che era una questione controversa negli ordinamenti europei. E quindi gli Stati, in base al cosiddetto “margine di apprezzamento”, la possono regolare come meglio credono, entro un certo limite di ragionevolezza.

Ma come avete fatto ad ottenere che ben dieci Paesi presentassero memorie a nostro favore…
In realtà all’inizio siamo stati noi ad essere contattati. A cominciare dalla Lituania, Malta, San Marino, vari Paesi si sono messi in rapporto con noi, perché preoccupati di un pronunciamento contrario alla loro stessa tradizione. Nella conferenza sul futuro della Corte a Interlaken, nel febbraio del 2010, il ministro della Lituania criticò pubblicamente la sentenza.

Ma altri Paesi sono rimasti inerti…
Da vari pourparler è emerso che non era indifferenza, ma paura che una loro esplicita presa di posizione a nostro favore, nella prospettiva di una probabile conferma della sentenza di primo grado, finisse per avere ripercussioni negative nei loro ordinamenti per quanto riguarda la presenza della religione nello spazio pubblico.

Avete cercato di coordinare le memorie presentate dai vari Paesi?
Il Centre for Law and Justice di Strasburgo, diretto da Grégor Puppinck, ha organizzato un convegno sul tema al quale ha partecipato anche il professor Joseph Weiler. Abbiamo pensato che proprio lui fosse la persona più adatta a parlare in nome degli altri paesi che avevano presentato una memoria. Infatti, dopo il nostro ricorso, ci è stato concesso un riesame del caso con dibattimento davanti alla Grande Chambre.

Così a difendere il crocifisso è stato chiamato un giurista ebreo osservante…
Non era più una questione di una parte, ma in qualche modo universale: i simboli religiosi in quanto tali. Weiler, da parte sua, si è detto disposto a difendere la posizione degli altri Paesi gratuitamente, solo con il rimborso delle spese di viaggio e soggiorno.

È intervenuto a Strasburgo con la kippah in testa…
Sì. Poteva sembrare perfino una provocazione, se si pensa che la Corte europea ha sempre dato ragione ai Paesi che hanno proibito di indossare simboli religiosi nell’abbigliamento personale. Ma il coraggio alla fine paga sempre.
E la sentenza di venerdì ha dato ragione all’Italia.
Dimostra che la nostra posizione era giusta. Quella sentenza è tutta basata sulle nostre argomentazioni.

 

Pier Luigi Fornari
Avvenire – 20 marzo 2011

Europa. Per rilanciare l’unificazione occorre rimotivare i popoli e democratizzare il processo

Rassegna Stampa

Senza democratizzare il processo, l’unificazione dell’Europa rimane senza incomprensibile e senza legittimità popolare

Jürgen Habermas

Lunedì 12 Marzo 2012 – Reset online (http://www.reset.it)

Nel processo dell’integrazione europea vanno distinti due piani. L’integrazione degli Stati affronta il problema di come ripartire competenze tra l’Unione da un lato e gli Stati membri dall’altro. Questa integrazione riguarda dunque l’ampliamento di potere delle istituzioni europee. Invece l’integrazione dei cittadini riguarda la qualità democratica di questo crescente potere, ossia la misura in cui i cittadini possono partecipare al fine di decidere i problemi dell’Europa. Per la prima volta dall’istituzione del Parlamento europeo, il cosiddetto fiscal compact che si sta varando in queste settimane (per una parte dell’Unione) serve a far crescere l’integrazione statale senza una corrispondente crescita dell’integrazione civica dei cittadini.

Certo, il carattere astrattamente tecnocratico caratterizzante ab origine la politica europea rimanda alla sua nascita storica. L’unificazione fu spinta avanti dai governi e non dai popoli: associandosi sul piano economico-giuridico, i cittadini restavano soggetti di diritto privato. Solo a partire dal 1979 si formò un Parlamento europeo dotato di potere legislativo – un Parlamento che nel corso degli ultimi tre decenni ha visto progressivamente aumentare le sue competenze. Da quel momento, sul piano europeo, i cittadini del mercato economico diventano anche cittadini di una Unione politica, e la comunità economica diventa finalmente una vera comunità politica (ancorché in termini nominali assai più che sostanziali). Non diversamente dalla Commissione e dal Consiglio, anche il Parlamento opera su un piano astrattamente tecnico. Infatti, il percorso della legittimazione che va dai cittadini al loro Parlamento viene lasciato inutilizzato e incolto. Neppure in occasione delle elezioni europee questo spazio viene esplorato: queste elezioni continuano a essere dominate da agende di tipo strettamente nazionale. Il deficit democratico è sempre stato presente. Ma adesso, dopo anni d’impotenti risposte politiche alla crisi del debito provocate dalle banche, siamo costretti a chiederci «se sia ancora occultabile questo deficit di legittimità, quando l’Unione – nel cercare una soluzione politica alla crisi monetaria – si vede costretta a fare appello a quelle risorse di solidarietà che l’approccio tecnocratico ha sempre compresso».

Con queste parole, Hauke Brunkhorst sottolinea giustamente la dimensione politica in cui andrà in ultima istanza trovata una soluzione alla crisi finanziaria. La tesi che vorrei difendere in questa sede è presto detta. Solo una discussione democratica che affronti a trecentosessanta gradi il futuro comune della nostra cittadinanza europea potrebbe produrre decisioni politicamente credibili, capaci cioè di imporsi ai mercati finanziari e agli speculatori che puntano sulla bancarotta degli Stati. L’eurogruppo si sforza invano di «corteggiare» i mercati finanziari invocandone sempre di nuovo la «fiducia». Ma questo accade solo perché nessuno lo prende sul serio. I governi non hanno la forza di corroborare con i fatti le loro disorientate decisioni. Agiscono spinti dalla necessità, cercando di nascondere agli occhi delle clientele elettorali di casa loro le conseguenze politiche degli accordi firmati a Bruxelles. In realtà, per essere credibili agli occhi della speculazione, i capi di governo dovrebbero prima – tutti insieme – disegnare una prospettiva di lungo termine sul futuro della comunità monetaria, e poi difenderla con impegno per guadagnarsi il consenso delle rispettive sfere pubbliche nazionali. Ma gli opportunisti del potere non vogliono correre questi rischi, limitandosi a strategie di breve respiro: di fronte a un passo simile arretrano spaventati come il diavolo davanti all’acqua santa.

Certo, anche i partiti del nostro Bundestag rischierebbero costi non indifferenti, ove si decidessero a trasferire l’elitario progetto europeo, finora calato dall’alto sulle popolazioni, dentro una chiassosa e polarizzante partecipazione dei cittadini. Ma per neutralizzare il populismo scettico delle destre non basta più rimasticare i luoghi comuni del buonismo europeista. Finora, pur cercando di armonizzare accortamente (quanto meno nell’eurozona) le loro politiche fiscali ed economiche, gli Stati membri non sono andati al di là di retoriche proclamazioni. L’integrazione degli Stati diventerà credibile solo quando potrà appoggiarsi a una integrazione dei cittadini in cui si manifestino maggioranze dichiaratamente pro-europee. In caso contrario, la politica non riguadagnerà più la sua autonomia nei confronti delle agenzie di rating, grandi banche e hedgefonds. Gettare nell’arena politica questo tema scottante di dibattito può essere un azzardo. Ma ancor più rischioso è il poker che Angela Merkel sta giocando con i mercati finanziari.

Dal mio punto di vista, sul piano della politica europea, il governo tedesco sta facendo poche cose giuste e molte cose sbagliate. Lo slogan «Più Europa» è la risposta giusta a una crisi dovuta a un difetto di costruzione della comunità monetaria. La politica non riesce più a compensare gli squilibri economici che ne sono nati. Sul lungo periodo, il riassetto dei divergenti sviluppi economico-nazionali è realizzabile solo in termini di collaborazione, nel quadro di una responsabilità democraticamente organizzata e condivisa, capace di legittimare anche un certo grado di redistribuzione che oltrepassi le frontiere nazionali. Da questo punto di vista, il fiscal compact è certamente un passo nella direzione giusta. Fin dalla sua definizione ufficiale – Trattato «per la stabilità, l’armonizzazione e la governance» – si vede come questo patto sia costituito da due diversi elementi. Esso obbliga i governi per un verso a rispettare le discipline di bilancio nazionali, per l’altro verso a istituzionalizzare una «governance» di politica economica avente per obiettivo di eliminare gli scompensi economici (quanto meno nell’eurozona).

Come mai però Angela Merkel festeggia solo la prima parte del patto, quella mirante a penalizzare le infrazioni di bilancio, mentre non spende una parola sulla seconda parte, mirante a una concertazione politica della «governance» economica? Ammesso, e non concesso, che si possa tranquillizzare sul breve periodo i mercati semplicemente annunciando una restrizione del debito con adeguate procedure di rientro, le crisi sono certo destinate a ripetersi sul lungo periodo, finché non si sarà corretto l’errore che ha viziato dalle origini la costruzione della comunità monetaria. Nel quadro di una stessa valuta, gli eccessi di esportazione dovuti a bassi costi di produzione e gli eccessi di importazione dovuti ad alti costi di produzione sono strettamente connessi. Per equilibrare i livelli di concorrenzialità, non basta che i diversi governi si attengano alle stesse regole. Il governo tedesco, pur riconoscendo a parole il bisogno di una integrazione ulteriore, di fatto contribuisce a lasciar marcire la crisi.

A questo riguardo mi limito a quattro brevi considerazioni. In primo luogo non occorre farla lunga, in termini di politica economica, per capire che una politica restrittiva unilaterale, come quella caldeggiata nella Ue dal governo tedesco, spinge nella deflazione i paesi più sofferenti. Ove non si integrino le politiche restrittive con politiche di sviluppo, la «pace sociale» delle nazioni poste sotto tutela finirà per essere disturbata non soltanto dai pacifici e ordinati cortei dei sindacati. In secondo luogo, la politica restrittiva risponde all’idea sbagliata secondo cui tutto si risolverà nel momento in cui gli Stati membri sapranno accettare questo nuovo patto di stabilità e crescita. Di qui la fissazione di Angela Merkel nel voler imporre sanzioni: una postura minacciosa assolutamente superflua nel momento in cui si riuscisse a inserire nella legislazione ordinaria della Ue una «governance» economica condivisa. Continua invece a imperversare l’idea per cui basterebbe istituire una «giusta» costituzione economica – dunque «regole» sovratemporali – per risparmiarci le fatiche di una concertazione politico-economica nonché i costi derivanti da una legittimazione democratica dei programmi di redistribuzione.

In terzo luogo, Merkel e Sarkozy operano sostanzialmente sul piano di una politica intergovernativa, mirando a spingere avanti, senza troppo rumore, l’integrazione degli Stati e non quella dei cittadini. I capi di governo dei 17 paesi rappresentati nel Consiglio dei ministri dovrebbero tenere in pugno il bastone di comando. Sennonché, una volta dotati delle competenze di «governance» economica, essi svuoterebbero la sovranità economica dei parlamenti nazionali. La conseguenza sarebbe un rafforzamento post-democratico degli esecutivi, dalle conseguenze imprevedibili. Allora, l’inevitabile protesta dei parlamenti spodestati avrebbe almeno il vantaggio di portare in luce quel «deficit di legittimazione» che solo una riforma democratica degli organi di governo comunitari potrà colmare. In quarto luogo, le parole d’ordine del governo tedesco in fatto di bilancio suscitano all’estero il sospetto che la Germania federale persegua mire nazionalistiche.

«Nessuna solidarietà, se prima non si garantisce stabilità» (Keine Solidarität ohne Solidität). La proposta lanciata da Berlino di mandare un commissario plenipotenziario ad Atene – dove già ci sono, con analoghe funzioni di controllo, tre commissari appena giunti dalla Germania – dimostra un’incredibile insensibilità nei confronti di un paese in cui non si è ancora spento il ricordo delle efferatezze compiute dalle SS e dalla «Wehrmacht». Helmut Schmidt, in un appassionato discorso, ha deplorato che il governo attuale stia dilapidando il prezioso capitale di fiducia che la Germania si era guadagnata presso i vicini nel corso degli ultimi cinquant’anni.

L’impressione generale – che si ricava da questa sciocca arroganza, per un verso, e dalla troppo timida risposta al ricatto dei mercati finanziari, per l’altro – è che la politica europea non abbia ancora raggiunto il livello di una vera «politica interna». Nel suo ruolo di presidente del partito cristiano-democratico, Angela Merkel ammonisce continuamente se stessa come cancelliera: così, temendo lo scetticismo dei suoi elettori, decide di mantenere a «fuoco basso» il processo d’integrazione. E proprio nel paese cui spetta oggi una funzione-guida, il filo-europeismo si riduce a uno slogan supplichevole: «lavatemi ma non bagnatemi!».

Come sperare, in queste condizioni, che negli altri paesi la discussione pubblica sull’Europa ne risulti incoraggiata? Queste prudenze non sono neppure giustificabili dal vecchio argomento secondo cui l’integrazione è destinata a fallire per mancanza di un popolo europeo e di una sfera pubblica europea. Nelle idee di «nazione» e di «popolo» avevamo a che fare con fantastici soggetti omogenei: ideali che solo nel corso dell’Ottocento, canalizzati dalle scuole pubbliche e dai mass media, si erano impadroniti dell’immaginario popolare.

Sennonché le catastrofi del XX secolo non hanno lasciato indenni le ideologie storiografiche dei vari nazionalismi. Oggi l’Europa deve fare i conti non tanto con «popoli» illusoriamente omogenei, quanto piuttosto con Stati-nazione concreti, con una pluralità di lingue e di sfere pubbliche. Pur associandosi sempre più strettamente sul piano europeo, gli Stati nazionali conservano funzioni specifiche. Essi non devono affatto dissolversi in uno Stato federale d’Europa, ma conservare un ruolo di garanzia per i livelli di democrazia e di libertà fortunatamente già raggiunti.

Ciascuno di noi unisce in petto due ruoli: quello di cittadino del proprio Stato e quello di cittadino dell’Unione. E nella misura in cui i cittadini dell’Unione capiranno quanto profondamente le decisioni europee modificano la loro vita, tanto più si sentiranno coinvolti in una politica europea che può anche chiedere di spartire sacrifici. Ciò che manca sono sfere pubbliche nazionali capaci di produrre dibattiti e volontà collettive sui temi europei.

Per questo non ci sarebbe bisogno di nuovi media; basterebbe un uso diverso dei media esistenti. Questi non dovrebbero limitarsi a elencare i comuni temi europei, ma dovrebbero anche illustrare le opposte soluzioni agitate all’interno dei diversi paesi. La sfera pubblica europea non è altro che la somma delle sfere pubbliche nazionali, una volta che queste si siano reciprocamente aperte l’una all’altra. Ciò risolverebbe automaticamente anche il problema del pluralismo linguistico: toccherebbe infatti agli stessi media il compito di provvedere alla traduzione. Nelle redazioni dei giornali vige ancora una visione di tipo statal-nazionale. E la stampa tedesca condivide il tiepido filo-europeismo di una cancelliera bravissima a temporeggiare.
Sennonché proprio questa percezione statal-nazionale della società mondiale e dei suoi problemi deve anche prendere atto che – nel concerto di potenze indiscutibilmente mondiali come Usa, Cina, Russia, Brasile o India – la crisi demografica sta ora spingendo l’Europa delle micro-nazioni ai margini della storia mondiale, privandola di ogni residua facoltà d’intervento. Si dice che la repubblica di Weimar sia fallita perché i suoi difensori democratici erano troppo pochi. Fallirà l’Unione europea per i troppi sostenitori troppo tiepidi?

(traduzione di Leonardo Ceppa e Walter Privitera)

Andrea Riccardi. “Europa: oltre la crisi, la speranza”

Intervento di Andrea Riccardi, ministro per la Cooperazione internazionale e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, alla III edizione della manifestazione “Insieme per l’Europa”.

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Cari amici, non possiamo nasconderci la crisi dell’Europa. Che si innesta su altre crisi, quella economica che attanaglia parecchi paesi. Come uscirne? Non è il caso di parlare di ricette. Anche se il messaggio spesso veicolato oggi è: si esce dalla crisi da soli, concentrandosi su di sé. C’è un fondo umano della crisi, forse la madre delle crisi: la solitudine di tanti europei. E’ la condizione di non pochi, quando tante reti dello stare insieme si sono dissolte: i partiti politici, le associazioni e la famiglia. Oggi gli europei sono più soli nella vita e si pensano più soli.

Del resto ci troviamo innanzi a una cultura marcata dall’individualismo, con ricadute nella vita personale, nel lavoro e ben al di là. La crisi dell’idea di un destino comune europeo si colloca in un quadro di crisi della comunità di vita e di destino. Questo ha conseguenze nei singoli paesi. Una di queste –non la meno importante- è la mancanza di visioni per il futuro. C’è incredibile bisogno di visioni. Perché le visioni sono le icone di speranza da contemplare per non cadere nel pessimismo.

Infatti, se una concezione della vita tutta individuale può avere momenti di esaltazione o di soddisfazione, il vuoto di senso comunitario però ingenera un clima di pessimismo. Così noi europei, un po’ incupiti, rischiamo di rinunciare a fare la storia: “passare alla storia senza più farla” -scrive Jürgen Habermas- ovvero “congedarsi dalla storia” -dice Benedetto XVI. Si teme un mondo troppo grande e complesso. Sembra che ci si debba difendere dalla storia e dal mondo. Questo è stato l’atteggiamento dopo l’11 settembre 2001, il giorno dei terribili attentati agli Stati Uniti. Dobbiamo difenderci da un nemico e da una storia troppo aggressiva.

Il filosofo francese, Alexandre Lacroix, s’interroga: “Siamo come i romani del tardo impero, arrivati all’ultimo capitolo della nostra gloriosa (e violenta) storia? Edonisti e cinici, incuranti delle leggi e di Dio, incapaci di prendere qualcosa sul serio tranne noi stessi, non in grado di proiettarsi nel futuro, impigriti dalle comodità, superficiali e viziati, ci meritiamo di essere superati da altri popoli, più giovani, più ambiziosi, più forti?”. L’Europa è un continente in declino? Non più il centro del mondo in un mondo senza centro.

C’è voglia di ridimensionarci per rassicurarci, di recuperare i confini. E’ un’illusione. La gran parte dei paesi europei, non potranno affrontare da soli le sfide globali, la crisi economica, il confronto con i giganti asiatici. Nessuno s’illuda. Se non saremo insieme, i paesi europei saranno quantité négligeable. Così i nostri valori si diluiranno nelle correnti della globalizzazione: sarà una perdita per il pianeta in libertà e umanesimo.

Non possiamo rassegnarci al tramonto. L’appuntamento di cristiani a Bruxelles é un segnale forte: “Insieme per l’Europa”. Siamo a cinquant’anni dal Vaticano II. Lo ricordiamo non perché vecchi nostalgici. Il Concilio resta il nutrimento di una visione del futuro. L’11 ottobre 1962, aprendo il Vaticano II, un ottantunenne, Giovanni XXIII, disse parole di speranza:

“Spesso ci vengono riferite voci che… non sono capaci di vedere altro che rovine e guai. Che vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con il passato, sono peggiori. Ci sembra di dover dissentire da questi profeti di sventura. Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose…”

Anche noi, cinquant’anni dopo, dissentiamo dai profeti di sventura: riguardo al declino europeo e riguardo al fatto che la cultura individualistica debba inesorabilmente prevalere. Tra il Concilio e l’Unione Europea c’è uno stretto legame. Il Vaticano II fu, dal 1945, il primo evento paneuropeo, che riunì vescovi delle due parti, nonostante la guerra fredda. Inoltre proiettò –ben prima si parlasse di globalizzazione- i cristiani europei nel mondo e inaugurò l’ecumenismo.

Il Vaticano II è una memoria di speranza. La speranza non negozia con il pessimismo. Non possiamo aderire al “si salvi chi può” dello spirito del tramonto. Chi crede è chiamato ad “afferrar[s]i saldamente alla speranza che ci è proposta […] come [a] un’ancora sicura […] per la nostra vita” – scrive la Lettera agli Ebrei. I cristiani sono il popolo dell’unità e della speranza.

L’unità. Penso alle nostre storie. Ogni movimento é un sogno di universalità e unità. I movimenti sono diversi non per dividere, ma per unire. Chiara Lubich, un’anziana che non ha mai smesso di sperare, diceva: nell’unità, anche se non è religiosa, c’è sempre l’anima nostra. Nell’unità c’è un’anima cristiana e profondamente umana. Saremo noi quelli che rassegnano, senz’anima, allo sfrangiamento della comunità a tutti i livelli?

La risposta è mettersi al servizio di un sogno di unità: vivere e comunicare la speranza. La più grande miseria europea è la mancanza di speranza. La storia ci chiama a vivere tempi complessi e difficili. Non terribili, non disperati. Si può ancora agire, cambiare. Se ci sono gravi motivi di preoccupazione, anche per la sofferenza di tanti paesi europei in crisi economica, si deve generare un clima di simpatia e di solidarietà, un senso del destino comune deve risorgere, reti sociali debbono rinascere.

Scrive Paolo ai Romani: “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori…”. Nelle difficoltà il nostro può essere il tempo della speranza, capace di far emergere il meglio: “Se saremo uniti avremo un futuro, faremo del bene al mondo e a noi stessi”. Ma chi siamo noi? Ognuno è sempre piccolo di fronte alle chiamate della vita. Diceva Hillel, maestro ebraico del tempo di Gesù: “Quando mancano gli uomini, sforzati tu di essere uomo!”. Quando mancano gli uomini e le donne dell’unità, sforziamoci noi di esserlo con speranza. Così la cultura dell’unità, vissuta, pensata, comunicata, può rigenerare un’anima nella nostra Europa.