Quello che più vale nella vita è la forza dell’amore

 

Il tesoro è il prossimo

bambine sul fiume dipinto

Andrea Panont, O.C.D. – da Zenit 12 Maggio 2014

Roma

Ogni volta che racconto questa favola, i ragazzi (ma non meno gli adulti) rimangono presi da un impeto di generosità verso chiunque abbia bisogno.

Si racconta che in un villaggio indiano, il consiglio dei saggi ha deciso che la “prova di forza e di coraggio” che i giovani indiani dovranno superare l’indomani, consiste nel raggiungere in canoa la riva opposta del lago dove, in un posto segreto, è nascosta una penna d’aquila dorata: chi la troverà, avrà vinto.

Il mattino dopo, tutti sono indaffarati nei preparativi. Quand’ecco arrivare  Falco Stanco, un vecchio indiano che abita dall’altra parte del lago. Egli si avvicina ai ragazzi e dice loro: “Devo tornare dalla mia tribù. Se dovessi fare il giro del lago a piedi non arriverei che a notte inoltrata. Qualcuno di voi mi potrebbe portare nella sua canoa?”.

Tutti, chi prima, chi poi, si scusano dicendo che per via della gara, hanno fretta di arrivare per primi.

Ma uno di loro, Penna Bianca, non sa dirgli di no.

Viene dato il segnale di partenza e tutti balzano sulle loro canoe.  È iniziata la grande prova.

Un po’ più di fatica fa Penna Bianca che deve remare per due; la sua canoa è più pesante, ora che con lui c’è anche Falco Stanco.

Gli altri commentano la sua poca furbizia. Proprio lui che è tra i ragazzi più abili e coraggiosi.

Anche Penna Bianca, vedendosi indietro, teme di arrivare troppo tardi. Ma poi guarda Falco Stanco che sorride felice e sente interiormente una voce che lo rassicura: “Hai fatto bene, Penna Bianca, hai fatto bene!”.

Uno dopo l’altro tutti arrivano e corrono a cercare nei posti più impensati la “penna d’aquila dorata”.

Arriva anche Penna Bianca. Teme che ormai i suoi compagni abbiano scovato il prezioso trofeo. Ma nessuno ancora l’ha trovato.

Saluta Falco Stanco e  corre anche lui alla caccia.

Ma il vecchio indiano lo trattiene: “Ieri sera, Bisonte Nero, il grande capo, mi ha detto: “A quello dei piccoli indiani che ti porterà sull’altra sponda, consegnerai questa!”

E tira fuori, da sotto il suo poncho, fra lo stupore di tutti, una…meravigliosa penna d’aquila; la penna d’aquila dorata!”

“Sì – continua Falco Stanco, mettendo una mano sulla spalla di Penna Bianca – hai vinto la prova perchè ciò che più vale nella vita è la forza dell’amore e tu hai dimostrato di averla quando mi hai  preso sulla tua canoa”.

Mi viene spontaneo guardarmi attorno per cercare quel tesoro che Dio ha messo a portata di mano, nascondendolo in ogni mio prossimo.

Ciao da p. Andrea

Il sociologo Bauman. Vivere in un mondo senza solidarietà

Bauman, un mondo senza regole: “senza la solidarietà, la libertà è un’illusione”

IL filosofo polacco analizza i diversi aspetti della vita di oggi. Dal sito dei coniugi Woodward che promuove un’esistenza lontana dalla schiavitù del lavoro, all’appello a superare “l’ordine dell’egoismo”

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di ZYGMUNT BAUMAN

Bauman, un mondo senza regole: “senza la solidarietà, la libertà è un’illusione”
“Chi ha detto che dobbiamo stare alle regole?” La domanda appare con grande rilievo in testa al sito internet locationindependent.com. Immediatamente più in basso, viene suggerita una risposta: “Sei stufo di dover seguire le regole? Regole che ti impongono di ammazzarti di lavoro e guadagnare un mucchio di soldi in modo da permetterti una casa e un mutuo imponente?

E lavorare ancora più duramente per ripagarlo, sino al momento in cui avrai maturato una bella pensioncina […] e finalmente potrai iniziare a goderti la vita? A noi quest’idea non andava e se non va neanche a te, sei finito nel posto giusto”.

Leggendo queste parole non ho potuto fare a meno di ricordare una vecchia barzelletta che circolava all’epoca del colonialismo europeo: mentre passeggia tranquillo per la savana, un inglese che indossa gli irrinunciabili simboli di un compìto colonialista, con tanto di elmetto di ordinanza, s’imbatte in un indigeno che russa beato all’ombra di un albero. Sopraffatto dall’indignazione, per quanto mitigata dal senso di missione di civiltà che lo ha portato in quelle terre, l’inglese sveglia l’uomo con un calcio, gridando: “Perché sprechi il tuo tempo, fannullone, buono a nulla, scansafatiche?”. “E cos’altro potrei fare, signore?”, ribatte l’indigeno, palesemente interdetto. “È pieno giorno, dovresti lavorare!”. “Perché mai?”, replica l’altro, sempre più stupito. “Per guadagnare denaro!”. E l’indigeno, al colmo dell’incredulità: “Perché?”. “Per poterti riposare, rilassare, goderti l’ozio!”. “Ma è esattamente quello che sto facendo!”, aggiunge l’uomo, risentito e seccato.

Beh, il cerchio si è chiuso: siamo forse arrivati alla fine di una lunga deviazione e tornati al punto di partenza? Lea e Jonathan Woodward, due professionisti europei estremamente colti e capaci che dirigono il sito locationindependent citato prima, stanno forse riconoscendo, esplicitamente e direttamente, senza tanti giri di parole, un concetto premoderno, innato e intuitivo che i pionieri, gli apostoli e gli esecutori della modernità avevano screditato, ridicolizzato e tentato di estirpare quando esigevano invece che le persone lavorassero duramente per tutta la vita e che solo in seguito, alla fine di interminabili fatiche, iniziassero a “spassarsela”?! Per i Woodward, così come per l'”indigeno” del nostro aneddoto, l’insensatezza di una tale proposta è talmente lampante da non meritare alcuna spiegazione, né una riprova discorsiva. Per loro, così come per l'”indigeno”, è chiaro come il giorno che anteporre il lavoro al riposo   e quindi, indirettamente, rimandare una soddisfazione potenzialmente istantanea (quella sacrosanta regola a cui il colonialista dell’aneddoto e i suoi contemporanei si attenevano alla lettera)   non è una scelta più saggia né più utile di quella di chi mette il carro davanti ai buoi.

Che oggi i Woodward possano affermare con tale sicurezza e convinzione delle opinioni che solo una o due generazioni fa sarebbero state considerate un’abominevole eresia è indice di un’imponente “rivoluzione culturale”. Una rivoluzione che non ha trasformato soltanto la visione che i rappresentanti delle classi colte hanno del mondo, ma il mondo stesso in cui sono nati e cresciuti, che impararono a conoscere e sperimentarono. Affinché potesse apparire lampante, la loro filosofia di vita doveva basarsi sulla realtà contemporanea e su solide fondamenta materiali che nessuna autorità costituita sembra intenzionata a mettere in discussione.

Le fondamenta della vecchia/nuova filosofia di vita appaiono ormai incrollabili. Quanto profondamente e irreversibilmente il mondo sia cambiato nella sua transizione alla fase “liquida” della modernità è dimostrato dalla timidezza delle reazioni dei governi di fronte alla più grave catastrofe economica verificatasi dalla fine della fase “solida”, quando ministri e legislatori hanno deciso, quasi per istinto, di salvare il mondo della finanza   ma anche i privilegi, i bonus, i “colpacci” in Borsa e le strette di mano che suggellavano accordi miliardari e ne consentivano la sopravvivenza: quella potente forza causale e operativa che è stata alla base della deregulation, e principale paladina ed esponente della filosofia dell'”inizieremo a preoccuparcene quando accadrà”; di pacchetti azionari suddivisi in parcelle rimasti immuni dalla responsabilità delle conseguenze; di una vita che si basa sul denaro e sul tempo presi a prestito, e di una modalità di esistenza ispirata al “godi subito e paga dopo”. In altre parole, quelle stesse abitudini, che il potere ha facilitato, a cui in definitiva il terremoto economico in questione potrebbe (e dovrebbe) essere ricondotto. (…)

Tuttavia, nell’appello dei Woodward c’è qualcosa di più in gioco, molto di più, della differenza tra un posto di lavoro ancorato a un luogo, tutto racchiuso all’interno di un unico edificio commerciale, e uno itinerante, diretto verso mete predilette quali la Tailandia, il Sudafrica e i Caraibi. (…) A essere realmente in gioco è, come loro stessi ammettono, la “libertà di scegliere ciò che è giusto per te”   per te, e non “per gli altri”   o di come condividere il pianeta e lo spazio con questi altri.

Assumendo tale principio a parametro con cui misurare la correttezza e il valore delle scelte di vita, i Woodward si trovano sulla stessa linea di pensiero delle persone contro le quali si ribellano, come i dirigenti e i manager della Lehman Brothers e tutti i loro innumerevoli emuli, nonché coloro che   come scrive Alex Berenson, del New York Times   ricevono “stipendi a otto cifre” (accusa che con ogni probabilità i Woodward rifiuterebbero indignati).

Tutti, unanimemente, approvano il fatto che “l’ordine dell’egoismo” abbia preso il sopravvento su quell'”ordine della solidarietà”, che un tempo aveva il suo vivaio più fertile e la cittadella principale nella protratta condivisione (ritenuta senza fine) dei locali in uffici e fabbriche. Sono stati i consigli di amministrazione e i dirigenti delle multinazionali, con il tacito o manifesto sostegno e incoraggiamento del potere politico in carica, a occuparsi di smantellare le fondamenta della solidarietà tra impiegati mediante l’abolizione del potere di contrattazione collettivo, smobilitando le associazioni di tutela dei lavoratori e obbligandole ad abbandonare il campo di battaglia; tramite l’alterazione dei contratti di lavoro, l’esternalizzazione e il subappalto delle funzioni manageriali e delle responsabilità dei dipendenti, deregolamentando (rendendo “flessibili”) gli orari di lavoro, limitando i contratti di lavoro e al tempo stesso intensificando l’avvicendarsi del personale e legando il rinnovo dei contratti alle prestazioni individuali, controllandole da vicino e in continuazione. Ovvero, per farla breve, facendo tutto il possibile per colpire la logica dell’autotutela collettiva e favorire la sfrenata competitività individuale per assicurarsi vantaggi dirigenziali.

Il passo definitivo per porre fine una volta per tutte a qualsiasi occasione di solidarietà tra dipendenti   che per la grande maggioranza delle persone rappresenta l’unico mezzo per raggiungere la “libertà di scegliere ciò che fa per te”   richiederebbe, comunque, l’abolizione della “sede di lavoro fissa” e dello spazio condiviso dai lavoratori, in ufficio o in fabbrica. Ed è questo il passo che Lea e Jonathan Woodward hanno compiuto. Con le loro competenze e credenziali se lo sono potuti permettere. Tuttavia non sono molte le persone che si trovano nella condizione di cercare un rimedio alla propria mancanza di libertà in Tailandia, in Sudafrica o ai Caraibi, non necessariamente in questo stesso ordine. Per tutti gli altri che non sono in una simile posizione, il nuovo concetto/stile di vita/impostazione mentale dei Woodward confermerebbe una volta per tutte quanto le loro perdite siano definitive, dal momento che meno persone rimarrebbero impegnate nella difesa collettiva delle loro libertà individuali.

L’assenza più cospicua sarebbe quella delle “classi colte”, a cui un tempo spettava il compito di sollevare dalla miseria gli oppressi e gli emarginati.

(05 settembre 2012)

Fonte: http://www.repubblica.it/speciali/repubblica-delle-idee/edizione2012/2012/09/05/news/bauman_un_mondo_senza_regole_senza_la_solidariet_la_libert_un_illusione-41991501/

Gesti di amore in un mondo che non crede più all’amore

La favola di Natale del Celtic Football Club

La società di calcio fondata dal frate marista, Fratello Walfrid continua ad essere un esempio di carità

di Paolo Gulisano

Da Zenit.org, 18 dicembre 2012

La notizia ha meravigliato e indignato tutta la Gran Bretagna: dei ladri sono penetrati in uno dei più importanti ospedali di Londra, e hanno rubato i regali di Natale destinati ai bambini ricoverati nel nosocomio. Un furto particolarmente odioso.

Il Great Ormond Street Hospital for Children è un istituto medico specializzato nella cura dei bambini. Sorge nel quartiere di Bloomsbury, dove era vissuto Charles Dickens, il grande vittoriano che commosse generazioni di lettori con le sue storie, da David Copperfield a Oliver Twist fino al celebre Cantico di Natale. Fondato nel 1852 come Hospital for Sick Children, fu così il primo ospedale specifico per i bambini, e fu sempre all’avanguardia nella cura e nella ricerca.

È il più grande centro per la ricerca sulle malattie infantili in Europa, ha la più ampia gamma di specialisti per bambini di qualsiasi ospedale della Gran Bretagna ed è il più grande centro per le cure delle cardiopatie infantili, per la neurochirurgia infantile, e per i tumori dei bambini. Le più recenti scoperte di alto profilo includono la terapia genica di successo per le malattie immunitarie, dopo un decennio di ricerca.

Questo è potuto avvenire anche grazie ad un generosissimo lascito di un grande scrittore scozzese, che ha regalato peraltro a generazioni di bambini una delle più belle fiabe degli ultimi due secoli: Peter Pan. James Matthew Barrie, la cui vita non era stata allietata dalla nascita di figli, nel 1929 cedette a titolo definitivo all’ospedale, tutti i diritti d’autore di Peter Pan.

Fu un gesto di grande generosità, che ha fornito un finanziamento significativo per l’ente. Un grande gesto di amore da parte di un uomo che fu tra i più grandi, autentici, puri amici dei bambini di tutti i tempi. Barrie volle regalare loro il sorriso e la gioia con Peter Pan, e volle che la sua opera continuasse anche dopo la sua morte.

Alla generosità di Barrie, si è aggiunta, in questa spiacevole occasione, quella proveniente da oltre il confine invisibile che divide l’Inghilterra dalla Scozia.

Dalla patria di Barrie è giunta infatti l’offerta del Celtic Foot Ball Club, squadra di calcio di Glasgow, che festeggia proprio quest’anno i 125 anni di fondazione.

Il Celtic non è famoso solo per la sua inconfondibile divisa a strisce orizzontali biancoverdi (“Hoops”), e per la vittoria nella Coppa dei Campioni ottenuta – Davide contro Golia – nel 1967 sconfiggendo gli allora imbattibili campioni del mondo dell’Inter di Herrera, prima squadra britannica e nord-europea a conquistare il massimo trofeo continentale, fino ad allora appannaggio esclusivo di squadre latine, ma anche per un’altra peculiare caratteristica: il Celtic, infatti, venne fondato in uno dei più poveri quartieri di Glasgow, Calton, su iniziativa di un frate marista, Fratello Walfrid, originario della contea di Sligo, in Irlanda.

Glasgow infatti dalla metà dell’800 aveva accolto migliaia di irlandesi che cercavano lavoro, sfuggendo alla miseria che imperversava sulla loro terra, e che ricoprivano i ruoli più poveri: minatori, muratori, operai nelle fabbriche di una delle più grandi città industriali del regno. Vivevano in tuguri, in quartieri-ghetto, discriminati per la loro fede cattolica. Solo la Chiesa era accanto ai loro bisogni, attraverso la presenza di sacerdoti e religiosi, che con grandi sacrifici diedero vita a strutture parrocchiali, a chiese e scuole.

Presso una di queste parrocchie, St. Mary, nacque il Celtic Foot Ball Club, nel novembre del 1887. La finalità della squadra biancoverde (i colori dell’Irlanda) era quella di raccogliere fondi, attraverso partite e tornei, da destinare alle opere di carità della Chiesa locale, e così avvenne, ed è avvenuto per 125 anni. Tale evidente identità cattolica della squadra provocò diverse avversioni di tipo settario, proveniente da ambienti che – calcisticamente- si riconoscevano nell’altra squadra di Glasgow, i Rangers, che fino a pochi anni fa non ammetteva tra le proprie fila giocatori cattolici.

Il Celtic, invece, pur essendo nato come una sorta di squadra dell’oratorio, si aprì ben presto a giocatori di ogni confessione, e anche attualmente vi giocano atleti di ogni tipo di denominazione cristiana, oltre a qualche mussulmano e un ebreo.

La generosità di questa squadra, la cui importanza va ben oltre il calcio, e che rappresenta una vera e propria “cultura” amata e seguita in numerosi paesi oltre la Scozia, si è manifestata anche in questa spiacevole occasione del furto al Great Ormond Hospital: il Celtic Football Club infatti ha comunicato che rimpiazzerà, almeno in parte, i giocattoli rubati.

Dopo aver celebrato sul campo la propria favola un mese fa, sconfiggendo il grande Barcellona di Leo Messi, i “Bhoys” oggi hanno deciso di non far mancare ai bambini malati di Londra il sorriso che viene dal ricevere un dono, di rinnovare la fiaba di Peter Pan del loro connazionale Barrie, di tenere vivo il fuoco della Carità che era stato del suo fondatore, e di generazioni di cattolici di Glasgow che hanno sempre coltivato questa virtù.

I bambini del Great Ormond Street Hospital avranno un Natale che sarà anche un po’ biancoverde.

Stati Uniti, Card. Dolan: colpire al cuore l’egoismo selvaggio

Rassegna stampa

L’egoismo selvaggio è la morte dell’anima, dei popoli e delle culture, prima ancora che del pianeta. Se non lo distruggiamo a vantaggio di una civiltà dell’amore, della gratuità e della reciprocità non ci sarà un futuro. Questa verità è tragicamente semplice come una equazione matematica. E viviamo in un’epoca in cui il risveglio delle coscienze non permette più a nessuno di dire: “Cosa posso farci io?” Perché se siamo arrivati a questa situazione limite senza la nostra consapevolezza, sarà senza dubbio nostra responsabilità, individuale e collettiva, se non ne usciremo. La cura del mondo è affidata alla responsabilità di ciascuno di noi. (E.C.)

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È il Paese industrializzato più devoto al mondo, dove l’80% della popolazione si definisce religiosa e quasi due terzi prega regolarmente e si considera «socialmente tradizionalista». Eppure in questo stesso Paese, gli Stati Uniti d’America, vigono le regole più permissive del mondo sull’aborto e sulla procreazione assistita. Esiste ancora la pena di morte. E la ricerca sugli embrioni è assolutamente permessa.

È su queste contraddizioni che si concentra lo sforzo di evangelizzazione che i pastori cattolici americani vogliono intensificare a partire da ottobre. Perché, come ha scritto Benedetto XVI nella lettera apostolica con la quale ha indetto l’Anno della fede, «il rinnovamento della Chiesa passa anche attraverso la testimonianza offerta dalla vita dei credenti». Negli Usa questo significa aiutare i cattolici a contrastare la storica, ma sempre più forte, tendenza all’individualismo estremo, spesso narcisista, che difende a spada tratta i propri diritti senza fermarsi a riflettere sulle loro implicazioni morali o sulle conseguenze per il bene comune. «L’egoismo selvaggio è diventato una malattia nazionale», ammetteva di recente persino il New York Times – un quotidiano a sua volta liberal – nella pagina dei commenti. Per una volta, i vescovi cattolici sono d’accordo. Ma, a differenza della stampa laica, i presuli sanno come rispondere a chi cataloga fra le libertà individuali inviolabili il diritto di abortire, di creare embrioni destinati alla morte, di non pagare le tasse, di permettere ai gay di sposarsi e agli studenti di vendere i loro gameti anonimamente e ripetutamente. Con un richiamo missionario al messaggio del Vangelo nella sua purezza. Senza compromessi.

La prova? È notizia delle ultime settimane, stando alla stampa americana, che negli Stati Uniti l’esperimento della Chiesa “liberal” è fallito. Ogni denominazione – episcopaliana, metodista, luterana e presbiteriana – che abbia provato ad adattarsi ai valori della società contemporanea ha assistito a un crollo delle presenze e delle vocazioni. All’interno della Chiesa cattolica, gli ordini più progressisti non sono riusciti a generare le vocazioni necessarie a sostenersi. E poiché il cattolicesimo liberal non ha ispirato una nuova generazione di suore e frati, gli ospedali cattolici stanno passando nelle mani di amministratori più interessati ai profitti che alla carità.

La strada da intraprendere, allora, è chiara. «Abbracciare l’insegnamento di una fede militante – spiega l’arcivescovo di New York e presidente della Conferenza episcopale Usa, il cardinaleTimothy Dolan – abbandonare la presunzione che i cattolici conoscano la ricchezza e le implicazioni della loro fede e ammettere che non la conoscono. Prenderci cura con amore del nostro gregge che si è fatto più cinico, più indifferente». Questo insegnamento dovrà dunque comprendere forti riferimenti alla dottrina sociale della Chiesa nei confronti dei più bisognosi (dei quali ampie fazioni politiche di destra tendono a dimenticarsi) e alla sacralità della vita (che ampie fazioni di sinistra considerano troppo rigida).

E la risposta può essere positiva, stando a un osservatore laico come Stephen Prothero, docente di religione all’Università di Boston, perché l’America «ha da sempre uno stretto rapporto con Dio». «La fede in Dio è intrecciata nel tessuto della cultura americana – spiega – questa è una società fondamentalmente ottimista che non ha paura di proclamare la propria fede e ora è alla ricerca di valori solidi su cui ricostruire le proprie fondamenta». Un terreno fertile per la nuova evangelizzazione.

 

Elena Molinari –  Avvenire 23 luglio 2012