La prima testimonianza di Cristo sta nel non aver paura (Card. Caffarra)

Ricordi del GMG di Madrid. Catchesi del Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, del 19 agosto 2011

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Passaggi salienti della catechesi:

“…qualcuno si chiederà: come faccio concretamente a rendere testimonianza a Gesù”

“…La risposta ce la dona S. Pietro…. È una lettera scritta a cristiani calunniati, perseguitati..: «Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto» [1Pt 3, 14-15].

“…Tu rendi testimonianza prima di tutto, se non hai paura; se non ti lasci turbare dalla previsione di essere deriso e come “compatito” o squalificato [“ma come… tu pensi ancora così?”]”.

“…Ma la vera fortezza è in un rapporto profondo – «nei vostri cuori» – con Cristo: «adorate il Signore».”…Chi vive senza speranza, vive veramente in modo miserevole, perché non ha un futuro”.

“…Chi incontra Gesù sa che Egli lo conduce sempre, anche quando passa attraverso valli oscure”.

“…Siate dunque testimoni di speranza: «sono molti coloro che desiderano ricevere questa speranza»”.”…Non si è testimoni se non si è in grado di rendere ragione della speranza. La nostra è una speranza ragionevole, che ha un fondamento incrollabile: la fede in Gesù. Dovete quindi conoscere profondamente le ragioni della nostra fede…

 

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TESTO INTERO

1. Quando Gesù lascia visibilmente questa terra, dice ai suoi amici: «avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni … fino agli estremi confini della terra» [At 1, 8].

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Sappiamo che cosa significa “essere testimoni” o “rendere testimonianza”. Molto semplicemente narrare ciò che si è visto, oppure ciò che si è udito a chi ha l’autorità di chiederlo o a chi ha semplicemente interesse a sapere. A modo di esempio, ascoltate la seguente testimonianza: «ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita … noi lo annunziamo anche a voi» [1Gv 1, 1. 3]. È la testimonianza resa a Gesù dal suo più grande amico: Giovanni.

La fede è un incontro vero e proprio con Gesù, perché Egli non è solo un ricordo, ma è una presenza reale in mezzo a noi. Nella fede e mediante i sacramenti noi viviamo una vera esperienza di amicizia con Gesù.
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Perché, uno potrebbe pensare, devo testimoniare, narrare ciò che mi è accaduto incontrando Gesù? Perché non posso tenerlo per me? Negli Atti degli Apostoli viene narrata una testimonianza resa da Pietro, assai interessante. Egli assieme a Giovanni ha appena compiuto il miracolo di guarire uno storpio. Essi vengono richiesti dal Sommo Sacerdote di rendere ragione del loro operato. Allora Pietro dice: «nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso, e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta dinanzi sano e salvo … in nessun altro v’è salvezza» [At 4, 10. 12]. È accaduto un fatto. Pietro ne dà la ragione: Gesù è presente fra noi con la sua potenza di salvezza. Pietro e Giovanni erano ben consapevoli di questo. Essi per primi lo avevano sperimentato. Ma Cristo non era un bene solo per loro stessi; è un bene da condividere con tutti, perché la sua salvezza è offerta a tutti. Chi crede in Gesù; chi lo ha veramente incontrato, e cerca di nascondere questo avvenimento che gli è accaduto, è come uno che – direbbe Gesù – accende la luce e poi la copre perché non illumini.
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2. Ma, qualcuno si chiederà: come faccio concretamente a rendere testimonianza a Gesù? La risposta ce la dona S. Pietro nella sua prima lettera. È una lettera scritta a cristiani calunniati, perseguitati. E quindi anch’essi si facevano la stessa domanda: come faccio a rendere testimonianza a Gesù in questa società? Ascoltate bene la risposta di Pietro: «Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vidomandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto» [1Pt 3, 14-15].  Tu rendi testimonianza prima di tutto, se non hai paura; se non ti lasci turbare dalla previsione di essere deriso e come “compatito” o squalificato [“ma come… tu pensi ancora così?”]. Ma la vera fortezza è in un rapporto profondo – «nei vostri cuori» – con Cristo: «adorate il Signore». E poi finalmente ecco come si rende testimonianza a Gesù: «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi». Mi fermo su questo punto un po’ più a lungo.

 

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Voi date testimonianza di una speranza che è in voi e che è frutto dell’incontro con Gesù. Chi vive senza speranza, vive veramente in modo miserevole, perché non ha un futuro. Solo quando siamo certi che il futuro è sotto il segno positivo, anche il presente è vivibile. Chi incontra Gesù sa che Egli lo conduce sempre, anche quando passa attraverso valli oscure. Siate dunque testimoni di speranza: «sono molti coloro che desiderano ricevere questa speranza».Ma non si è testimoni se non si è in grado di rendere ragione della speranza. La nostra è una speranza ragionevole, che ha un fondamento incrollabile: la fede in Gesù. Dovete quindi conoscere profondamente le ragioni della nostra fede. Leggete e studiate il catechismo: da soli o assieme ai vostri amici. Fatevi aiutare dai vostri sacerdoti.

Che cosa grandiosa è la vostra testimonianza! Essa dà gloria a Cristo: dando testimonianza, siete la gloria di Cristo in tutto quello che farete. L’Apostolo Paolo usa un’immagine bellissima. Dice che siamo il “profumo di Cristo”: «diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo intero. Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo» [2Cor 2, 14-15]. La gloria di Cristo nel mondo rifulge attraverso la testimonianza che gli uomini, i suoi discepoli, danno a Lui. La sfida di Gesù si può riassumere in questo: Egli scommette sui suoi discepoli, ipotizzando che il suo Amore e la sua Salvezza riveleranno la loro potenza e presenza nel mondo attraverso la testimonianza dei suoi discepoli.

Voi sarete i testimoni di Gesù, la sua gloria, il suo profumo, e così «diventerete strumento per far ritrovare ad altri giovani come voi il senso e la gioia della vita, che nasce dall’incontro con Cristo».3. Non posso tuttavia tacere, cari giovani, l’esistenza di una grave insidia che può impedire la vostra testimonianza fin dall’inizio. È uno dei dogmi indiscutibili della cultura in cui viviamo. Potrei formularlo nel modo seguente.

“La fede religiosa è un fatto privato. Ciascuno si tenga la propria o non ne tenga nessuna. Tutte alla fine hanno lo stesso valore. L’importante è che ci sia una reciproca tolleranza”. Provate a pensare ad un cristiano che accetti questa posizione, e chiedetegli di essere testimone. È come chiedere a uno di … bere litri di liquore e di non ubriacarsi! Cerchiamo dunque di analizzare seriamente, anche se brevemente, quella posizione.

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Essa presuppone – è questo l’errore fondamentale – che la fede religiosa, o meglio ciò che dice la religione non è né vero né falso, dal momento che essa non interloquisce con la ragione ma con altri interlocutori. Chiedersi quindi se una religione è vera o falsa, è come chiedersi … quanti chili pesa una sinfonia di Mozart. Verità e religione sono due grandezze completamente estranee l’una all’altra.Vi ricordate la testimonianza resa da Pietro? Perché Paolo percorse il mondo intero allora conosciuto per predicare il Vangelo di Gesù? Semplicemente per dire: “cari ateniesi, cari romani, questa è la mia opinione; però voi ne avete un’altra: è lo stesso!”?

No certamente. La loro testimonianza nasceva da una certezza: ciò che testimoniamo è vero; e quindi vale per ogni uomo. Ora capite meglio perché vi dicevo: sappiate rendere ragione della speranza che è in voi.

“Ma – vi si dirà – in questo modo tu sei intollerante”. Intanto costatiamo un fatto: i grandi testimoni di Gesù non solo non hanno mai imprigionato nessuno, o ucciso qualcuno. Sono stati imprigionati e uccisi, non raramente.

È anche vero che lungo i secoli, non sempre nella Chiesa c’è stata chiarezza su questo punto. E quindi sicuramente dobbiamo fare attenzione.

La verità non può essere imposta, ma solo proposta. Essa chiede solo di essere conosciuta. «E la vittoria che nasce dalla fede è quella dell’amore. Quanti cristiani sono stati e sono una testimonianza vivente della forza della fede che si esprime nella carità».

Alla fine, perché testimoniare Cristo? perché è vero, e ne siamo certi, che affrontare la vita nella memoria continua dell’incontro con Cristo, è più intelligente, è più gioioso. In una parola: è più umano.

Perché oggi si ha paura di dormire? La paura di incontrarci col nostro profondo

Alcuni stralci di uno dei saggi dell’ultimo numero della rivista «Vita e Pensiero».

di Claudio Risé

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In una società caotica, che ci ha svuotati dello spazio interiore, nel quale potevamo gustare il silenzio e ciò che lentamente nel silenzio nasce e matura…. la vita, la coscienza, la nostra identità, le relazioni umane che ci costituiscono e che ci fanno quello che siamo, la capacità di guardare oltre la materia e contemplare lo spirito… dobbiamo ritrovare quello spazio interiore… Ma soprattutto dobbiamo ritrovare il coraggio di non aver paura di incontrarci con le nostre profondità. Interiorità e Relazione col Mondo non sono in opposizione tra loro. Non sono alternative… sono momenti coessenziali perché l’esperienza della vita acquisti il suo senso più pieno. Cristo ci attende nel profondo di noi stessi e, insieme, nell’incontro con l’altro. E nell’incontro con l’altro io posso, rientrando nelle mie profondità, rielaborare il senso di quello e di tanti altri incontri e dare pieno sviluppo alla mia identità. Nessuno diventa ciò che è da solo, chiuso nelle proprie profonditòà, ma solo se si apre nella relazione con l’altro… col mondo… e col mistero della vita. Ma senza l’incontro con il mio profondo, non ho lo spazio dove elaborare il frutto di questa esperienza. (E.C.)

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Tanto per rimanere vicini a noi, lo sapeva anche Jim Morrison che «nel sonno puoi trovare ciò che il giorno non ti può dare». Eppure il sonno sta diventando più difficile. Secondo il Centro di Medicina del sonno dell’ospedale Niguarda (Milano), un italiano su tre soffre di questi disturbi.

Come mai uno stato da sempre onorato («La metà della vita. E la migliore», secondo Goethe) sta oggi diventando così difficoltoso? Per tentare di rispondere occorre mettere a fuoco qualche caratteristica del sonno. Ad esempio il fatto che il sonno coincida con una sospensione dello stato di coscienza abituale. Si tratta dunque di una condizione che ha a che vedere con la coscienza, non fosse che per il silenzio che essa vi assume. E per il comparire, durante il sonno, nei sogni, di un altro tipo di linguaggio e di scenario, che la psicoanalisi ha chiamato “inconscio”, ma noto da sempre alla gran parte delle culture umane.

I disturbi del sonno, dunque, possono essere osservati come afferenti al rapporto con la coscienza, e più precisamente al suo ritmico avvicendarsi con l’inconscio. Come se l’uomo del nostro tempo faticasse ad affidarsi alla scansione veglia-sonno, coscienza e inconscio; soprattutto, come se non accettasse più la sospensione della coscienza diurna (nella sua forma attuale).

L’uomo sembra temere, oggi in modo particolare, l’ingresso nel sonno, nel sogno, con il suo linguaggio fatto principalmente di immagini, spesso simboliche, e le sue espressioni verbali concise, contratte, evocative. Parole, quelle che si odono tra le immagini del sogno, molto diverse dal “discorso” sulle cose frequentato assiduamente, oggi, dalla coscienza di veglia.

Dietro il contemporaneo “timore di dormire” si intravede la paura di un incontro con un mondo “altro”, innanzitutto rappresentazione dinamica e narrativa degli aspetti dell’umano espulsi dalla vita di oggi, che si ripresentano puntualmente nei sogni.

Non si tratta di aspetti da poco. Nel sonno e nelle immagini dei sogni troviamo ad esempio l’esperienza religiosa e del sacro, che le pretese assolutiste del processo di secolarizzazione hanno cacciato dalla coscienza e dalla vita quotidiana. Dio, gli dèi, le immagini divine differenziate presenti nell’inconscio collettivo, si fanno avanti nei sogni. Con i rispettivi luoghi di culto: la chiesa, il tempio greco, la moschea islamica, la sinagoga e altri appositamente allestiti dall’inconscio del sognatore (la radura nella foresta, la capanna del sudore degli indiani d’America e così via). La psiche, l’anima, di cui la tecnoscienza non vuole parlare, appena la ascoltiamo ci racconta la ricerca dell’Altro. Lo scenario del sogno ci apre un campo ben più ampio della rimozione dei desideri sessuali, collegati ai vissuti interni al “romanzo familiare”, su cui si focalizza la psicoanalisi freudiana.

Nei sogni presentati e interpretati nelle loro pagine, infatti, la vita religiosa e la vita sociale con le loro diverse appartenenze, comunità e gerarchie (non solo la famiglia) compaiono con frequenza, con significati che, al di là delle pulsioni, riguardano l’identità, il destino e il senso della stessa vita personale e del gruppo.

Spesso, anzi, accade il contrario di quanto afferma l’implacabile machine interprétative (così chiamata da Gilles Déleuze e Felix Guattari) freudiana: non sono gli dèi che alludono alla sessualità, ma sono le immagini sessuali che raccontano delle appartenenze e identità sociali, la direzione della vita, l’avvicinarsi della morte.

Qui siamo all’altro grande rimosso dalla coscienza contemporanea, che si teme di incontrare nel sonno. Si tratta delle relazioni e dei rapporti sociali, dell’incontro con l’altro nella società. Quella contemporanea è una società pletorica dal punto di vista burocratico e istituzionale, ma riluttante a riconoscere sentimenti e legami personali.

Già gli studiosi dei fenomeni totalitari del secolo scorso (Lederer o Arendt, tra gli altri) avevano notato come l’annichilimento dell’umano attraverso grandi costruzioni burocratico-politiche (temute da Max Weber all’inizio del Novecento) si sviluppasse con la distruzione delle culture tradizionali fondate sulle credenze religiose, sulle relazioni di territorio e produttive (agricoltura, artigianato e industria, professioni).

La desertificazione sociale che generò i mostri del Novecento ripropone oggi, ma a livello globale, le sue caratteristiche burocratiche e le fantasie di dominio di una tecnoscienza onnipotente che modifichi direttamente le strutture dell’umano, a cominciare dalla persona unica e irripetibile, con le sue relazioni e i suoi sentimenti.

Se nel secolo scorso il Superuomo sarebbe stato costruito dal laboratorio del partito, oggi si delira di un’autogenerazione umana realizzata in parte attraverso il pensiero, in parte in laboratori, che (per ora) verrebbero selezionati dal mercato, come già avviene per le diverse tecniche di fecondazione e riproduzione.

Dopo quella di Dio viene così distrutta l’idea, e la realtà, di “spazio pubblico”: «un luogo in cui le passioni siano rese pubbliche e trasformate sotto la tutela di contenitori collettivi (famiglia, gruppo, comunità, eccetera)», scrive Pietro Barcellona in Il suicidio dell’Europa. Questi luoghi formativi delle relazioni tra persone, costitutivi della società stessa (oltre che del soggetto), vengono sostituiti da aggregazioni virtuali o burocratiche. L’obiettivo non è più la formazione di un soggetto che interagisca positivamente con la comunità, ma il piacere e/o potere di un individuo ormai avulso da relazioni affettive, emozioni e passioni personali, ridotto all’esercizio di funzioni che realizzano piaceri, o poteri, di cui gli altri sono eventualmente oggetto, ma non compagni di avventura.

Lo spazio pubblico sottratto all’uomo a favore dell’interesse “privato” (privo di anima) riprende però forma quando ci addormentiamo, nel sogno che lo ha da sempre accolto in quanto territorio indispensabile allo sviluppo psicologico. Così le figure, i miti, i percorsi simbolici tradizionali delle varie culture, cacciate dalle scuole, dai media, dalle rappresentazioni politiche, insomma dalle istituzioni ufficiali del mondo tecnoscientifico, si ripresentano con inattesa chiarezza nel sogno dell’individuo, spersonalizzato ma oscuramente in cerca della propria anima.

Addormentarsi e sognare diventa, oggi più che mai, un “diventare altro”, frequentare percorsi imprevedibili, penetrare nelle crepe di una superficie sociale scientificamente levigata e ben controllata.

Anche per questo, forse, addormentarsi inquieta. Inoltre, lungi dal limitarsi a essere «la realizzazione di un desiderio», come pensava Freud, già chiuso nella gabbia individualista del Novecento, il sogno presenta il futuro, chiedendone al sognatore il riconoscimento e l’impegno a realizzarlo.