Siete sicuri di aver capito cosa sta accadendo in Medio Oriente?

 

Marcello Foa – blogilgiornale.it 16 settembre, 2014

 

Siete sicuri di aver capito cosa sta accadendo in Iraq e perché Obama abbia dichiarato guerra all’Isis? Come sempre c’è la verità formale, quella sotto gli occhi di tutti, e quella sostanziale, che è molto diversa ma permette di cogliere, per chi lo desidera, cosa stia avvenendo davvero. L’Isis non esce dal nulla ma è un “mostro” religioso e militare che proprio gli Usa e alcuni alleati strategici come il Qatar e l’Arabia saudita negli ultimi due anni hanno incoraggiato e sostenuto. Fermi tutti e andiamo in profondità. L’Isis rappresenta l’evoluzione naturale dell’Isil ovvero di una forza estremista irachena su posizioni simili a quelle di Al Qaida che nel corso degli anni Duemila combatteva gli americani in Iraq a forza di attentati. Erano i nemici di ieri. Poi è venuto il tempo delle rivoluzioni colorate. Pacifiche e facili in Egitto e Tunisia, violenta in Libia. E in Siria, dove la protesta di piazza è stata subito repressa e la “rivoluzione popolare” si è trasformata in una guerra civile. Durissima, spietata e sporca. Combattuta da chi? Da eroici rivoltosi sunniti siriani? Solo in parte. Soprattutto da guerriglieri provenienti da altri Paesi, motivati dal denaro, dalla disperazione e dall’esaltazione religiosa; una forza composta dalle milizie che avevano combattuto in Iraq e che avevano contribuito a rovesciare Gheddafi, un’accozzaglia di fanatici ultrareligiosi e ammiratori di Al Qaida. Ovvero quell’estremismo terrorista che l’Occidente in teoria combatte dal 2001. Ma, si sa, le regole della politica internazionale non corrispondono a quelle della morale e le alleanze possono essere molto flessibili. Certi nemici, all’occorrenza, possono diventare amici.

E così è stato. Arabia Saudita e soprattutto Qatar hanno fornito aiuti finanziari, gli americani e verosimilmente i turchi assistenza militare e fornitura d’armi. A posteriori Hilllay Clinton si è addirittura rammaricata che l’aiuto fosse stato troppo timido. E nel frattempo l’America era stata sul punto di attaccare la Siria che era stata accusata da tutti di aver usato armi chimiche contro i ribelli, un attacco a cui si oppose con successo Putin con ottime ragioni: oggi sappiamo che a usare le armi chimiche furono proprio i ribelli che l’Occidente smaniava di soccorrere. Quali ribelli? Quelli dell’Isis. La guerra civile si è prolungata. Assad non è caduto e nella primavera del 2014 i guerriglieri dell’Isis, ben armati e ben finanziati, hanno cercato nuovi sbocchi. Hanno girato i cannoni e i blindati e ha iniziato a scorazzare verso sud ovest, puntando l’Iraq filoamericano, spingendosi fino alle porte di Bagdad e di Mosul; mentre l’America lasciava fare. Obama snobbava l’Isis – o più verosimilmente faceva finta – fino a definirlo una “squadra giovanile”. Della serie: non perdiamo tempo, sono delle giovani teste calde che non ci preoccupano.

Riassumendo: dei ribelli tacitamente sostenuti dagli americani e dai loro alleati attaccavano il governo di Bagdad amico degli stessi americani. Per lunghe settimane Washington ha lasciato fare, decidendosi tardivamente a sostenere il governo iracheno e decisamente controvoglia, ovvero con pochi raid. Intanto Qatar e sauditi continuavano a finanziare l’Isis. Nelle ultime settimane l’accelerazione, i media hanno iniziato a occuparsi quotidianamente dell’Isis, diffondendo storia umane agghiaccianti, storie di stupri, violenze, brutalità, fino a quando sono state diffuse le drammatiche immagini della decapitazione dei due giornalisti americani per mano di (supposti) occidentali convertiti all’Islam. E l’Isis è diventato improvvisamente il problema numero uno. L’opinione pubblica occidentale scioccata di fronte a immagini terribili e a un estremismo religioso che non può trovare giustificazioni, indotta a invocare una reazione forte contro i fanatici dell’Isis. La gente comune non segue le sottigliezze geostrategiche, non conosce gli antefatti, ma reagisce emotivamente a immagini “che parlano da sole”. E Obama, seguendo uno schema classico dello spin, ha risposto all’accorato appello di centinaia di milioni di americani giustamente preoccupati, annunciando una guerra che sarà naturalmente “lunga”, coinvolgendo nello sforzo finanziario proprio quei Paesi, Qatar e sauditi, che fino a ieri avevano finanziato l’Isis. Nuovo ribaltamento di fronte: gli ex nemici, diventati amici, tornano ad essere nemici; anzi molto nemici. Gente da annientare.

Risultato: questa zona del mondo a oltre 11 anni dalla Guerra Lampo che avrebbe dovuto liberare l’Iraq non solo non conosce pace ma vede divampare disordine, violenza e morte un po’ dappertutto: dalla Libia a Gaza, passando per l’Egitto, la Siria, l’Irak. E gli americani si trovano “costretti” ancora una volta a portare la liberazione, impiegando, in quello che appare un moto ormai perpetuo, la loro forza militare. La lotta al terrorismo è diventata una guerra perpetua al terrorismo. E una regione che fino a poco tempo fa era un baluardo di stabilità è diventata il focolaio di crescente instabilità, con conseguenze pesantissime per noi europei, che viviamo non lontano da quelle zone, e per tutti coloro – europei ma anche cinesi e indiani – che del petrolio mediorientale hanno bisogno. L’America invece di quel petrolio da qui a 6-7 anni non avrà più bisogno, grazie allo shale o il di cui dispone in grande quantità. Capito l’arcano?

La stanchezza dell’Occidente

di Massimo Recalcati

la Repubblica 6.10.2013

Recentemente il sociologo coreano Byung-Chul Han ha proposto l’immagine della stanchezza come chiave interpretativa della nostra epoca. Qualcosa si è esaurito, è scaduto, è divenuto privo di forza. In contrasto solo apparente con questa stanchezza di fondo il nostro tempo sembra sostenuto da una corrente eccitatoria permanente.

Come intendere questa oscillazione bipolare tra frenesia e stanchezza? Tutti ci lamentiamo di come il tempo della nostra vita sia in costante accelerazione. Rocco Ronchi per definire questa tendenza ha evocato l’immagine della “mobilitazione generalizzata” con la quale Ernst Jünger aveva definito il tempo caotico della prima guerra mondiale. La nostra mobilitazione permanente non ha però come bussola la difesa del suolo, dell’identità, dei confini. Noi non abitiamo piuttosto il tempo della liquefazione di ogni identità, della contaminazione, della globalizzazione, della relativizzazione di tutti i confini?

Questo significa che l’attuale mobilitazione in cui tutti siamo coinvolti non ha un obbiettivo fuori dalla riproduzione di se medesima. Siamo tutti stanchi e al tempo stesso tutti mobilitati. Siamo bipolari, costretti a servire un principio di prestazione inflessibile e superegoico per poi riconoscerci esausti, sfiniti, senza più risorse. Questo paradosso lo indicava già Heidegger nella
sua diagnosi del nichilismo occidentale: il nostro tempo è il tempo della riduzione del mondo a pura risorsa da sfruttare illimitatamente. In questo senso la nostra stanchezza rivela la verità dell’iperattivismo che non affligge solo le vite dei bambini occidentali ma, ben più radicalmente, la vita stessa dell’Occidente.

La vita è esausta, spossata, afflitta da una stanchezza reattiva alle sirene dell’iperedonismo che, non dimentichiamolo, produce anche la precarietà sociale ed economica che è il vero volto dell’Occidente sotto la maschera della sua giostra maniacale. Marcuse aveva già messo in luce come il capitalismo avesse trasfigurato il principio freudiano di realtà nel principio di prestazione.

Una nuova forma di alienazione si delineava: non solo quella relativa allo sfruttamento della forza lavoro – secondo lo schema marxista –, ma quella di una nuova forma di oppressione
della vita costretta ad essere necessariamente produttiva, liberata dai vincoli oscurantisti della tradizione, ma asservita ad un nuovo padrone: la necessità della affermazione ad ogni costo della propria individualità. Ebbene, la stanchezza che ci affligge oggi non mostra forse il limite di questo mito antropologico? Non mostra la corda del sogno narcisistico di diventare padroni di noi stessi, di realizzare il nostro nome a prescindere da quello dell’Altro?

Facciamo due soli esempi. Il primo è quello del disagio giovanile che non si caratterizza più per il conflitto vitale tra le generazioni, ma per uno spegnimento del sentimento della vita. Al centro non è più il disagio tra la giovinezza che avanza le sue esigenze di trasformazione del mondo e l’ordine granitico dell’esistente, ma il disagio di un vita spenta, stanca, lontana dal desiderio. I sintomi attuali degli adolescenti che si rivolgono allo psicoanalista (violenza, alcoolismo, tossicomanie, dipendenza dall’oggetto tecnologico, anoressia, bulimia, isolamento, ecc.) hanno questa radice in comune: non scaturiscono più dalla dissonanza tra il desiderio e la realtà, ma da una specie di affaticamento del desiderio stesso. La vita che dovrebbe sbocciare nel tempo della sua primavera tende a contrarsi, a chiudersi su se stessa, a ripiegarsi. Questo movimento regressivo contrasta solo apparentemente con l’esaltazione maniacale di cui si nutre la nostra Civiltà poiché, in realtà, è solo l’altra faccia di quella medaglia.

Il secondo esempio riguarda uno dei grandi simboli dell’Occidente; è la stanchezza di Benedetto XVI che, sfinito, lascia il suo posto mostrando il volto umano del rappresentante ideale e normativo di Dio in terra. Cosa vi possiamo leggere? Non solo un dramma interno alla Chiesa Cattolica e alla necessità di un suo profondo rinnovamento. Esso rivela una stanchezza profonda nella vita di tutte le istituzioni che non sembra più in grado di essere animata da passioni profonde. Il senso religioso della vita e quello laico della polis sembrano entrambi esauriti. Si pensi solo alla stanchezza che avvolge la politica come tale. In questo tornante non è in gioco l’esperienza della perdita di tutti i valori, lo spettro minaccioso del nulla, della morte di Dio come accadde alle soglie del Novecento.

Oggi quel grande smarrimento ontologico lascia il posto al frastuono della vita spensierata, all’homo felix dedito alla ricerca compulsiva della “sensazione”, prigioniera della idolatria degli oggetti, integralmente esteticizzata. Al centro non v’è più il nulla che minaccia l’essere, ma un troppo pieno che ottunde, un eccesso di presenza, una mancanza della mancanza, come direbbe Lacan.

Eppure questa ultima grande crisi economica mostra tutti i segni della gravissima patologia che affligge l’Occidente. Siamo in un punto di snodo: dobbiamo provare a leggere la stanchezza attuale dell’Occidente non solo come l’effetto di una disillusione fondamentale delle false promesse di felicità del capitalismo, ma anche come una domanda di un altro mondo possibile.

L’uomo dell’Occidente è un uomo stanco della vita o di questa vita? Dovremmo provare a leggere in questa nostra stanchezza non solo una caduta depressiva della vita, ma anche l’esigenza di un’altra vita. Essa contiene già in sé una domanda latente di pausa, di sconnessione dalla connessione perpetua a cui siamo “obbligati”, contiene già una esigenza positiva di silenzio.

Luce Irigaray. La crisi dell’Occidente come crisi del respiro

(Tratto dal libro di L. Irigaray, Tra Oriente e Occidente. Dalla singolarità alla comunità, Manifesto Libri, Roma 2011, pp. 59-61)

 

Respirare è proprio il primo gesto di autonomia dell’ essere umano. Venire al mondo corrisponde a ispirare ed espirare  da solo. Nell’utero riceviamo l’ossigeno attraverso il sangue della madre: non siamo ancora autonomi, non ancora nati.

Ma, di fatto, questo primo e ultimo gesto della vita, il respiro, lo dimentichiamo. Certamente, respiriamo, pena la vita. Ma lo facciamo in modo inconscio e imperfetto, e non prendiamo cura dell’ aria che ci circonda, benché sia il nostro primo nutrimento di vita. Ci asfissiamo con l’inquinamento, con lo stress, perfino con la prestazione sportiva per costringerci a respirare. Ma non ci incarichiamo, in modo cosciente e quotidiano, del nostro soffio vitale, della nostra vita in quanto tale.

Parliamo dei bisogni elementari come bisogni di mangiare, di bere, di vestir ci e ripararci, ma non di respirare. Eppure questo è la prima e più radicale necessità. E non siamo realmente nati, realmente viventi, autonomi, finché non assumiamo in modo conscio il nostro respiro.

Ora, il più delle volte restiamo passivi e subordinati a livello del respiro. Rimaniamo immersi in una sorta di placenta sociale che ci comunica un’ aria già espirata, già usata, non realmente pura né viva.

Certi orientali si ricordano del fatto che vivere equivale a respirare. E cercano di acquisire una vita autonoma praticando un respiro cosciente. Ciò procura loro a poco a poco una seconda nascita, una nascita assunta da sé e non voluta e procurata dai genitori o da una fisiologia che ci impone le sue leggi.

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Respirare in modo consapevole e autonomo equivale a farsi carico della propria vita, ad assumere la solitudine tagliando il cordone ombelicale, a coltivare la vita per sé e per gli altri.

Di fatto, finché non respiriamo da soli, non solo,viviamo male ma usurpiamo la vita degli altri per sopravvivere. Restiamo radunati in una sorta di massa, di tribù, in cui ogni individuo non ha ancora conquistato la propria vita ma si nutre di un respiro collettivo: sociale, culturale, di un soffio vitale inconscio di gruppo, il quale è in un primo tempo la famiglia.

Questo soffio collettivo rimane più vicino alla natura: alla madre alla donna, alla famiglia, o più vicino alla cultura: alla vita civile, alla vita sociale, più legato allora con il padre, con il mondo maschile nella nostra tradizione.

Siamo in qualche modo divisi fra due respiri: quello del soffio naturale e quello del mondo culturale, senza che esista un passaggio o un’ alleanza possibili fra questi due soffi, né in noi né fra noi. Così siamo cresciuti/e) nella prospettiva di una separazione fra la vita corporale e la vita dello spirito, dell’ anima, senza capire che l’anima non è altro che la vita del corpo coltivata fino a acquisire l’autonomia e il divenire spirituale del soffio vitale. La nostra cultura ci ha insegnato il più delle volte che occorre disprezzare e abbandonare il corpo per diventare spirituali. Il corpo sarebbe la prima natura che dovremmo superare per divenire spirito, per divenire anima.

Ma questa cultura non ci insegna a coltivare il respiro, al contrario di certe culture dell’estremo oriente, quella dello yoga per esempio. Tale cultura conduce il praticante a assumere la sua esistenza e a spiritualizzare il suo soffio vitale, conservandolo libero, disponibile, nutriente per lo stesso corpo, per gli altri.

Diventare spirituali equivarrebbe a trasformare il nostro

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soffio vitale elementare in un soffio più sottile al servizio del cuore, del pensiero, della parola e non soltanto al servizio della sopravvivenza fisiologica.

La nostra tradizione ci indica però l’importanza del soffio. Il racconto della Genesi ci spiega che Dio crea l’uomo con il suo soffio mescolato alla materia. Nel Nuovo Testamento, il figlio di Dio nasce da una donna fecondata dallo Spirito. Lo stesso Cristo scompare per lasciar posto allo Spirito «Se non vi abbandono, lo Spirito non avverrà per voi», dice ai suoi discepoli. Leggiamo pure nei Vangeli che è permesso peccare contro il figlio dell’uomo ma non contro lo Spirito. Cioè: tutti i peccati otterranno il perdono tranne quello contro lo Spirito.

Lo spirito è proprio la dimensione divina insuperabile. Per noi, come per gli yogis, il soffio è la via, il medium, per diventare spirituali. Ma abbiamo trascurato, e perfino dimenticato, questo cammino. E spesso facciamo confusione fra cultura e apprendistato di termini, di parole, di saperi, di poteri.  Diventiamo così affannati, viviamo nell’ affanno senza ricordarci che essere colti equivale ad essere capaci di respirare, non soltanto per sopravvivere, ma per acquisire un soffio sottile, un soffio spirituale.

 

L’oblio del respiro nella nostra tradizione è quasi generale. Questo ha provocato in noi una separazione fra soffio vitale e soffio divino, fra corpo e anima.

La fine della civiltà capitalista. Così tramonta un paradigma, non solo un modello economico

di Massimo Giannini – la Repubblica 27/02/2012

Il saggio di Carandini spiega l ́ascesa e il declino di un fenomeno che è filosofico e politico Dalla finanza alla società, la fase che stiamo vivendo ha cause e conseguenze complesse. Proviamo ad analizzarle, con l ́aiuto di libri e interventi.

Bisognerebbe chiedere a Joseph Schumpeter. Lui, forse, saprebbe dirci se la distruzione in corso è ancora »creatrice», oppure se il capitalismo (come il comunismo, secondo la nota critica berlingueriana) ha definitivamente esaurito la sua «spinta propulsiva». Lo pensavo qualche giorno fa, ascoltando Monti a Milano. Il premier parlava alla comunità finanziaria, con l ́aria di chi predica in terra d ́infedeli: i Salotti Buoni «hanno difeso l ́esistente, impedendo la distruzione creatrice schumpeteriana».Ti guardi intorno, e in questo scorcio di millennio, almeno in Occidente, ti sembra di vedere solo macerie. Recessione e disoccupazione, disagi e disuguaglianze. Dov ́è la “creazione”, in mezzo a bolle finanziarie e immobiliari, che si gonfiano ed esplodono mietendo vittime tra i deboli? Dov ́è il capitalismo “per sua natura congiunturale”, come diceva Galbraith, capace di rigenerarsi continuamente da se stesso?

In cerca di risposte, si moltiplicano libri e riflessioni. Economisti, storici e filosofi. Latitano i politici, ma questa è la costante della fase. Tra gli ultimi saggi, ne segnalo uno che colpisce più di altri. Racconti della civiltà capitalista. Lo scrive per Laterza Guido Carandini, mescolando i suoi diversi saperi: dal lavoro imprenditoriale a quello intellettuale. Non un agile pamphlet sui guasti dell ́oggi, ma un lungo viaggio a ritroso nelle alterne vicende del capitalismo industriale di ieri, che ti fa leggere con occhio diverso quelle del capitalismo finanziario di oggi. Rovistando proprio tra le macerie di otto secoli di storia, Carandini riscrive il grande racconto del capitalismo con un “nuovo paradigma”, che Thomas Kuhn definirebbe “sistemico”. Per capire il fenomeno capitalistico non basta più una sola dimensione, l ́economia. Servono invece tutte le dimensioni del vivere: filosofia e politica, scienza e religione. Perché dal XII secolo in poi, tutte le sfere della società occidentale ricevono l ́impronta del capitale, che le marchia a fuoco.

Ex comunista e deputato del Pci, studioso di Marx e del marxismo, Carandini parte dall ́assioma del maestro di Treviri: “L ́essere sociale determina la coscienza umana”, e non il contrario. Di lì, con una contaminazione che abbraccia Fernand Braudel e Jacques Le Goff, Marc Bloch e Immanuel Wallerstein, sviluppa la sua tesi, intorno alla quale costruisce una “reinvenzione della storia”: il capitalismo, per questa parte di mondo, è molto più che un sistema di governo (o “sgoverno”?) dell ́economia. Molto più del mercato, della libera competizione, del conflitto tra le forze concorrenti. Molto più della stessa democrazia. E ́ una vera e propria forma di “civilizzazione”. Può sembrare un ́ovvietà, mutuata magari proprio dalla valutazione “quantitativa” di Bloch, quando scrive che “tutte le fasi più lunghe della storia si chiamano civilizzazioni”. Otto secoli filati di egemonia capitalista sono abbastanza, per confortare questa teoria. Ma è sul piano “qualitativo” che l ́operazione si fa più audace e suggestiva. Riconoscere fino in fondo l ́equazione capitalismo=civiltà ha implicazioni illuminanti, e soprattutto inquietanti, nella rilettura della vicenda umana che ci porta alla cosiddetta “modernità”.

Il nuovo “paradigma” di Carandini poggia su quattro pilastri, che aiutano a ricostruire la storia degli ultimi ottocento anni: la potenza, l ́accumulazione, la religione e la scienza. Sono queste le “leve” della storia del capitalismo. Lo generano, lo plasmano, lo trasformano e infine lo snaturano. Ai suoi albori, il pre-capitalismo è una versione basica dell ́economia di mercato: vendere per comprare, scambiando per soddisfare i bisogni di sostentamento e di consumo. Poi muta, si sofistica: comprare per vendere, trasformando il denaro in merce e ritrasformando la merce in denaro. Così l ́economia di mercato diventa circolazione capitalista. La nuova “civiltà” non è più ottimale soddisfazione dei bisogni individuali e collettivi, ma perseguimento e accumulazione del massimo dei profitti. La novità dell ́analisi di Carandini è che la metamorfosi comincia molto prima di quanto si pensi. Almeno cinque secoli in anticipo, rispetto alla Rivoluzione Industriale. Già nella Venezia dei borghesi del 1200, come poi nell ́Olanda dei mercanti, la “potenza” del capitale contiene in nuce l ́embrione delle sue evoluzioni/involuzioni successive.

Un filo rosso (o nero, fate voi) unisce quei primordi al meglio e al peggio dei secoli a venire. C ́è “potenza” (la prima “leva”) nei Padri Pellegrini che nel 1620 sbarcano con il Mayflower nel Nuovo Mondo, propiziando il primo Boston Tea Party del 1773 e la Dichiarazione d ́Indipendenza del 4 luglio del 1776. C ́è “potenza” nella Rivoluzione Francese e nella Dichiarazione dei Diritti del 1789. La “scoperta” dei diritti genera democrazia, la democrazia genera libertà, la libertà genera “accumulazione”. Questa “leva” (la seconda) getta le basi per le future tragedie novecentesche. La società massificata, nei consumi e nei costumi, è alla radice dei fascismi europei. Per Carandini, con un coraggio analitico che si fa quasi temerario, persino il comunismo e la sua nemesi (il crollo del Muro), è in qualche misura il compimento delle condizioni primarie tipiche della potenza e dell ́accumulazione capitalista. La Rivoluzione d ́Ottobre di Lenin è “rivoluzione per la potenza”, che ha come obiettivo la crescita dell ́economia e del reddito nazionale. E pazienza se per raggiungerlo, prima Vladimir Ilic Uljanov, poi Josip Giugasvili Stalin, fanno 25 milioni di morti.

Anche in Urss, in quell ́abisso di Terrore, la logica del capitalismo “era in agguato”, e il socialismo occultamente e inconsciamente era assoggettato a una logica dell’industrializzazione tecnicamente imposta dal capitalismo occidentale.

In questa chiave, Carandini ci costringe a ripensare il capitalismo storico non più solo come trasposizione pratica di libera concorrenza, free trade, mercati in equilibrio. La storia del capitalismo, viceversa, è anche storia di commerci di rapina, di guerre sanguinose, conquiste coloniali, schiavitù e sfruttamento. Spinta dalla “potenza”, giustificata dalla “religione” (scrive Max Weber che “il capitalismo è una pratica religiosa di vita”) e accelerata dalla “scienza” e dall ́innovazione tecnica e tecnologica, l ́”accumulazione” ad ogni costo permea le menti individuali e i comportamenti collettivi. Così il capitalismo storico genera dentro se stesso la barbarie e la violenza. Fino al nazismo e all ́Olocausto. Fino alle mafie e alle criminalità organizzate. Più banalmente, il capitalismo contemporaneo compie l ́ultima mutazione, e si fa “inciviltà”. Sconfitte le avventure totalitarie, “domina oggi un mondo diviso tra sprechi di ricchi e privazioni di poveri, un ́etica cieca del profitto acuisce il conflitto tra capitale e lavoro, e non colmerà l ́abisso tra la sazietà e la fame”. Carandini non ci lascia troppi margini per sperare. Restiamo tuttora immersi nelle “fedi ideologiche”. Weber si sbagliava, quando immaginava che la “brama immoderata” non fosse l ́essenza del capitalismo, e sognava che quest ́ultimo ne fosse il “razionale temperamento”.

“Greed is good”, è il motto di Wall Street, mentre a Main Street si soffre e di piange. “Solo la forza della democrazia può imporre limiti all ́avidità di oligarchie affariste e promuovere una crescita più equa”. Verissimo. Ma oggi c ́è un problema, gigantesco: le democrazie per il popolo hanno lasciato il campo alle tecnocrazie senza popolo. E il vero scontro di civiltà, ormai, non è più tra Islam e Occidente, e nemmeno più tra politica ed economia. È tra economia e democrazia.

Chiudo il libro appagato, ma con una domanda finale che resta senza risposta. Per Francis Fukuyama la crisi del comunismo coincise con la fine della storia. Da quel saggio famoso, uscito nel 1992, le cose sono andate un po ́ diversamente. Oggi, con un criterio valutativo uguale e contrario, possiamo azzardare che la crisi del capitalismo coincide con la fine di una civiltà? Non so dirlo. Ma so che il capitalismo finanziario di questi anni (per parafrasare i Balcani di Churchill) consuma molta più storia di quanta ne produce. Così non può reggere. Fosse vivo, lo direbbe anche Schumpeter.

Perché l’Occidente non controlla più il lato selvaggio del potere

Il saggio di Revelli spiega come i modelli di “storia”, “legge” e “polis” usati per addomesticare brutalità e violenza siano stati travolti dalla finanza

di Roberto Esposito

Il nuovo libro di Marco Revelli, I demoni del potere, appena edito da Laterza, si apre e si chiude su due immagini estreme dell’attuale crisi greca. All’inizio quella di un uomo, con un megafono in spalla e una tanica di benzina in mano, che si dà fuoco – il tutto sullo sfondo di un’Atene ridotta alla fame come il Biafra o il Burkina Faso. E alla fine, la notizia, altrettanto devastante nella sua oscena abnormità, di un principe del Qatar che ha comprato, per il prezzo stracciato di 5 milioni di euro, Oxia, una delle più belle isole dell’arcipelago delle Echinadi, ad appena 38 chilometri da Itaca.

Già questa sinistra corrispondenza restituisce la potenza drammatica di un testo capace di scuotere la coscienza del lettore, spingendolo a diretto contatto con la vita offesa dei nostri giorni. Ma esso non si limita a rappresentare la crisi in forma orizzontale, sincronica – mettendo a confronto tragiche istantanee. Revelli compie un periplo più ampio e profondo, interrogandola anche da un punto di vista verticale, che ne riporta in superficie la genealogia nascosta.

Al centro del libro campeggia infatti il fenomeno, già riconosciuto da Benjamin e, diversamente, da Freud, della riemergenza dell’arcaico nel contemporaneo o dell’estraneo nel familiare. Quanto più la storia contemporanea accelera i propri ritmi, emancipandosi dal passato e rimuovendolo, tanto più questo, ad un tratto, sfonda la parete del presente per riapparirci in forma spettrale – come un fantasma della violenza senza limiti da cui proveniamo e che, nonostante tutti i salti di civiltà, non ci siamo mai del tutto lasciata alle spalle.

Nel saggio di Revelli, essa assume il volto, minaccioso e sinistro, di due miti fondativi, quello della Medusa, poi sconfitta da Perseo e quello delle Sirene, ingannate da Ulisse – forse mai indagati con una pari capacità di coglierne gli echi attualissimi. Sia il volto accecante della Gorgone sia il corpo ammaliante delle Sirene costituiscono una rappresentazione icastica dei demoni che non soltanto bussano alla nostra porta, ma nascono dentro di noi, come l’ombra lunga che sottende la nostra esperienza quotidiana.

Entrambe situate sul confine tra uomo e animale, entrambe simboli di un potere che schiaccia gli uomini sulla dimensione della cosa, la Medusa e le Sirene differiscono per lo strumento omicida che usano – lo sguardo la prima e la voce le seconde. Se la Medusa pietrifica chi la guarda, proiettando sul suo viso l’immobilità della propria maschera, le Sirene prosciugano la soggettività di chi le ascolta, dissolvendola nel loro canto di morte. Eppure, in questa simmetria, già traspare una prima, significativa, differenza. Piuttosto che la violenza bruta della Gorgone, le Sirene esercitano un potere più sottile e seducente. Esse non pongono direttamente le mani insanguinate sulla vittima, ma la attirano da lontano nel gorgo. Proprio per questo Ulisse può sfuggire alla loro presa con un artificio tecnico, facendosi legare all’albero della nave senza perdere le note letali del loro canto. Come già per la Medusa, Revelli ripercorre le grandi interpretazioni del mito – da Adorno e Horkheimer, a Blanchot, a Kafka – cogliendone il nucleo di senso. Accettando, e vincendo, la sfida con le sirene, Ulisse fa della loro presenza mitica un racconto, traversando la soglia epocale che conduce dall’universo muto e barbarico del mito al mondo aperto e narrabile della storia.

In questa prospettiva l’autore introduce un parallelo tra l’origine del racconto e quella del diritto. Del resto il processo di civilizzazione, coincidente con l’istituzione della polis,
nasce nel doppio segno del Logos e del Nomos, della Parola e della Legge. Contro la violenza indifferenziata di Kratos – il volto bestiale e demoniaco del potere – le mura della città costituiscono una barriera protettiva che gli uomini si impegnano a non infrangere. Naturalmente ciò non vuol dire che la violenza scompaia. Essa viene assunta e incorporata dallo Stato, che si riserva di adoperarla solo contro coloro che dovessero contravvenire al giuramento di ubbidienza al sovrano.

L’immagine, non meno spaventosa, del Leviatano di Hobbes – un mostro marino, di origine biblica, protetto da una corazza fatta di scaglie umane – rappresenta questo passaggio dalla violenza scatenata alla violenza trattenuta e finalizzata al controllo sociale. La costruzione di quel ius publicum europaeum che per almeno quattro secoli ha garantito l’ordine all’interno degli organismi statali, ne costituisce l’esito insieme prezioso ed ambivalente. Prezioso perché ha consentito uno sviluppo senza precedenti alla civiltà occidentale. Ambivalente perché non solo è stato costruito al prezzo di infinite guerre che hanno rovesciato all’esterno degli Stati la violenza dominata al loro interno, ma soprattutto perché, nel cuore del Novecento, ha visto schizzare fuori dal suo fondale una violenza in camicia bruna più primitiva di quella mitica.

E’ allora che, insieme alle trama del diritto, ha rischiato di spezzarsi anche quella della memoria storica, ripiegata su stessa in un incubo da cui è stato arduo risvegliarsi. Mai come tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso i demoni del potere sono tornati ad affacciarsi, rendendo pietre, o polvere, decine di milioni di uomini. Che si sia trattato di una parentesi, richiusa una prima volta alla fine della guerra calda e una seconda alla fine di quella fredda, oppure dell’annuncio di qualcosa di ancora più devastante, resta per adesso incerto. Le pagine drammatiche scritte da Pasolini sul mutamento antropologico in atto non solo nel nostro Paese – come le immagini insostenibili di Salò-Sade – pongono forti dubbi sul nostro futuro. Ma ancora più problematica si presenta la condizione di quel mondo globale che ha sfondato le mura della politica moderna, aprendolo alla libera circolazione dei flussi demografici, tecnologici, finanziari. Molti hanno puntato sulle sue potenzialità emancipative, prima che qualcosa di arcaico come i conflitti etnici e religiosi abbia prodotto uno sgradevole risveglio dalle prime illusioni.

Come accade quando qualcosa che sembrava sepolto ritorna a interpellarci, essa presenta connotati diversi da quelli che aveva. Così oggi la sovranità non appare più il potere supremo di fare la legge, ma semmai quello di disattivarla, aprendo continui spazi di eccezione all’interno del diritto vigente.

Ora è come se la crisi economica avesse spinto questa procedura al suo estremo esito biopolitico, legando le condizioni della nostra esistenza ad ogni turbolenza dello spread. Quanto più la sovranità confonde i propri tratti nel potere anonimo dei mercati finanziari, tanto più la vita di interi popoli resta non solo offesa, ma anche denudata, esposta allo sguardo pietrificante della nuova Gorgone.

Corriere della Sera – 5 ottobre 2012

Todorov: “Populisti e messianici quei nemici intimi della civiltà occidentale”

 

In Occidente siamo fin troppo consapevoli di quanto sia pericoloso per un autentico progresso della civiltà l’integralismo, di qualsiasi edizione. Noi crediamo di conoscere quello di marca islamica, sia perché i media ci propongono solo quello, sia perché esso nasce all’interno di culture che non hanno fatto il medesimo percorso storico dell’Occidente, e pertanto, secondo i nostri schemi, appaiono come culture “aliene”, da convertire e ancora “indietro”. In risposta a una pretesa assurda come questa, primo, non è detto che altre culture debbano seguire l’evoluzione che ha caratterizzato le vicende del mondo europeo e nord americano. Secondo, l’integralismo esiste anche in altre edizioni, perfino dentro le culture di matrice cristiana.

Ad ogni modo, quello che Todorov spiega in questo saggio, più che l’integralismo, in Occidente il vero male è un altro. Se l’Occidente punta il dito contro l’integralismo islamico accusandolo di essere la causa di tutti i mali, la nostra civiltà ha un suo male oscuro che costituisce altrettanto una minaccia al vero progresso dell’umanità e alla pace. E’ il messianismo con cui le nostre nazioni credono di avere il diritto di imporre con qualunque forza le proprie idee, la propria stessa cultura a chi ha vissuto percorsi storici diversi. Quando si pensa che in nome delle proprie conquiste culturali si ha il diritto di imporre le proprie idee e i propri principi a mondi diversi – e proprio in ciò consiste il messianismo – siamo davanti al permanente rischio di uno scontro tra civiltà che vede imputati l’integralismo islamico tanto quanto il populismo, sia nei paesi arabi che occidentali, sia il messianismo, radicato in genere nella civiltà occidentale, con una speciale enfasi, per via della sua particolare storia, nella cultura americana. (EC)

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FONTE: FABIO GAMBARO – LA REPUBBLICA | 13 SETTEMBRE 2012

Lo studioso franco-bulgaro Tzvetan Todorov racconta il suo ultimo saggio sui problemi e i pericoli interni delle democrazie contemporanee “Il guaio è quando si cercano soluzioni semplici per problemi complessi vendendo miracoli” “L´altro rischio è il voler imporre il proprio modello distorcendo l´idea di progresso” 

«Popolo, libertà e progresso sono fondamenti della democrazia, che però, quando alimentano populismo, ultraliberalismo e messianismo, possono diventare una minaccia per la democrazia stessa». E´ questo il grido d´allarme lanciato da Tzvetan Todorov nel suo nuovo saggio, I nemici intimi della democrazia (Garzanti): alternando prospettiva storica e riflessione teorica, analizza minuziosamente le derive e le contraddizioni che rischiano di minare dall´interno il funzionamento del nostro sistema politico.

Lo studioso francese di origine bulgara parte dalla constatazione che oggi la democrazia non rischia più di essere rimessa in discussione dai suoi tradizionali nemici esterni, vale a dire il fascismo o il comunismo. «Anche se dopo l´11 settembre, c´è chi ha cercato di trasformare l´islam in un nemico globale della democrazia, in realtà per i sistemi democratici le minacce esterne non sono più un pericolo reale», spiega Todorov, che venerdì 21 sarà presente a “Pordenonelegge”. «Oggi, i veri pericoli provengono dall´interno della democrazia stessa, da quelli che ho chiamato “nemici intimi”, forme di perversione o di stravolgimento di alcuni dei suoi principi di base. Il populismo, l´ultraliberalismo o il messianismo non sono il contrario di ciò cui aspira la democrazia, ma il risultato della dismisura di alcuni elementi – popolo, libertà e progresso – che la costituiscono. Tale dismisura è diventata possibile perché, soprattutto nel XX secolo, sono venute meno le limitazioni reciproche cui questi elementi erano sottoposti».

Nella forma classica della democrazia liberale, interessi collettivi e interessi individuali devono sempre equilibrarsi?
«Il liberalismo classico, da Locke a Montesquieu, ha proclamato la libertà degli individui, ma senza mai immaginarla come una libertà illimitata. Come ricordava Burke, la libertà nello spazio pubblico diventa sempre un potere. Per i pensatori del liberalismo, ogni potere senza limiti è un pericolo. Chi ha un potere cerca di espanderlo e la tentazione della tirannia è inerente al comportamento umano. Di conseguenza, per il buon funzionamento dello Stato, i poteri devono limitarsi e controbilanciarsi a vicenda. Solo così si evita il rischio del dispotismo».

Quest´equilibrio sarebbe il cuore della democrazia?
«Esattamente. La democrazia non è caratterizzata dal dominio di un principio unico, ma dall´equilibrio tra diversi principi. Quando questo viene a mancare, si rischiano derive inquietanti. Il caso più evidente è quello dell´ultraliberalismo, frutto di un´esasperazione smisurata del giusto principio della libertà».

La libertà va limitata?
«Da sempre, gli uomini avanzano rivendicazioni di libertà individuale ma anche di appartenenza collettiva. Bene comune e bene individuale non vanno però sempre nella stessa direzione. La democrazia, grazie alla sua natura mista, si sforza di preservarli entrambi. In passato, le cosiddette democrazie popolari – che ho conosciuto da giovane in Bulgaria – in nome dell´interesse collettivo, non lasciavano alcuna libertà all´individuo. Oggi le democrazie corrono il rischio contrario, vale a dire la tirannia dell´individuo che, in nome di una libertà assoluta e smisurata, sottomette tutta la vita sociale al dominio di un´economica regolata esclusivamente dalle leggi del mercato. In questa prospettiva, si postula l´assenza di ogni controllo della società e della politica sulle forze individuali dell´economia. E talvolta si arriva persino al neoliberalismo di Stato, che è una mostruosa combinazione nella quale la funzione dello Stato diventa quella di smantellare lo Stato stesso e d´impedire qualsiasi controllo della società sull´attività degli individui».

Il primato dell´individuo rifiuta di prendere in considerazione l´interesse collettivo?
«Sì, ma anche quando la società prova a occuparsi del bene comune, la mondializzazione dell´economia spesso le sottrae ogni possibilità d´intervento. Lo si vede oggi in Francia, dove Hollande fa fatica a concretizzare le promesse elettorali, scoprendo di avere un margine di manovra molto limitato. Di fronte al potere dell´economia, il potere politico si ritrova impotente. E le democrazie rischiano di trasformarsi in oligarchie dirette dai pochi che controllano il potere economico».

Il messianismo è il rischio che corre la democrazia quando, considerandosi superiore, pensa di dover intervenire per imporre agli altri i propri principi. E´ così?
«Il messianismo politico è una forma di hubris che si è impossessata degli uomini ai tempi dell´Illuminismo, distorcendo l´esigenza del progresso. Il colonialismo, con la sua pretesa d´imporre ai popoli selvaggi una civiltà considerata superiore nasceva da questa prospettiva. Anche la società ideale del comunismo era una sorta di messianismo. Oggi siamo in una nuova fase, caratterizzata da guerre che intendono portare il bene ad altri popoli. E´ un atteggiamento messianico che ricorda il periodo coloniale. Come allora, crediamo ingenuamente nella superiorità della democrazia, al punto che consideriamo giusto e legittimo imporla anche agli altri attraverso guerre asimmetriche, le cui vittime sono soprattutto le popolazioni civili. Tutto ciò non fa altro che indebolire la democrazia».

Un altro nemico “intimo” della democrazia è il populismo…
«Il populismo non si manifesta solo attraverso la xenofobia e il razzismo. E´ infatti presente ogni volta che si pretende di trovare soluzioni semplici per problemi complessi, proponendo ricette miracolose all´attenzione distratta di chi non ha il tempo di approfondire. Il populismo può essere sia di destra che di sinistra, ma propone sempre soluzioni immediate che non tengono conto delle conseguenze a lungo termine. Il populismo preferisce le semplificazioni e le generalizzazioni, sfrutta la paura e l´insicurezza, fa appello al popolo, cortocircuitando le istituzioni. Ma la democrazia non è un´assemblea permanente né un sondaggio continuo».

Certi comportamenti dei politici non approfondiscono il fosso che li separa dalla società?
«E´ sempre stato così, perché l´uomo di potere non fa più la stessa vita dell´uomo della strada. Dimentica le critiche passate per approfittare della posizione conquistata. A ciò oggi si aggiunge il problema della “spersonalizzazione” del potere. In passato, le forme del potere erano più facilmente identificabili, era quindi possibile rivoltarsi contro un avversario visibile. Con la mondializzazione, il potere economico è diventato un potere diffuso, sfuggente, impersonale. Non si sa più come agire, contro chi rivoltarsi. Ci si sente impotenti. Il che spiega una certa disillusione nei confronti della democrazia».

La condivide?
«Io sono convinto che la democrazia abbia ancora la possibilità d´intervenire almeno in parte sulla realtà. I partiti e i loro programmi non sono tutti uguali, e con il voto è possibile determinare alcune scelte collettive sul piano dell´economia e della società».

I cittadini hanno spesso l´impressione di contare di più attraverso le iniziative di base che attraverso i rituali della democrazia. Che ne pensa?
«La democrazia ha forse perduto una parte del suo potere d´attrazione, ma attraverso i suoi meccanismi conferisce ancora molto potere, anche se i risultati sono meno visibili che in passato. Sebbene indebolito, il potere dello Stato resta importante. E´ un potere che va esercitato, votando, controllando. La democrazia non si esaurisce in una sola forma di partecipazione. Il suffragio universale è certo un principio fondamentale, ma è solo un elemento tra molti altri. Ecco perché la moltiplicazione dei livelli d´impegno nella vita pubblica è un segno della vitalità della democrazia».

La vera natura della crisi del mondo è spirituale. Solo una rivoluzione spirituale potrà salvarlo.

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L’Occidente non trova gli strumenti per uscire da una crisi di senso prima che economica
Siamo davanti a un  deficit  strutturale

Il fallimento del neo-materialismo contemporaneo conferma che lo sviluppo o è spirituale o non è

È appena uscito in libreria il saggio “La grande contrazione” (Milano, Feltrinelli, 2012, pagine 325, euro 25). L’autore, sociologo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, propone una lettura della società contemporanea andando alle radici culturali e spirituali dell’attuale crisi economica. Temi affrontati anche in un articolo scritto per la «Rivista del clero» (3/2012) di cui riportiamo alcuni stralci.

di Mauro Magatti

Il XX secolo segna un passaggio di straordinaria importanza nella storia secolare della cultura occidentale. All’interno delle scienze della natura interviene infatti un cambiamento epistemologico fondamentale. Mi riferisco al fatto che l’idea che noi come contemporanei abbiamo della materia oggi è completamente diversa da quella del passato: la materia, nella sua intima costituzione è ridotta a campo energetico, viene “smaterializzata”. A partire dalla teoria della relatività di Einstein, abbiamo imparato a pensare la materia come energia. Ciò rappresenta una fondamentale soluzione di continuità nella nostra rappresentazione della realtà. La materia, infatti, diventa energia altamente condensata, energia che può essere liberata: dalla materia all’atomo, dall’atomo alle particelle subatomiche, dalle particelle subatomiche ai pacchetti di energia, dai pacchetti di energia alle superstringhe vibranti fino al vuoto quantico.

Sul piano dell’immaginario collettivo, ciò determina un effetto tutt’altro che trascurabile, dato che la materia perde la sua “materialità” in favore di una visione energetica all’interno della quale prevalgono forme instabili di organizzazione basate su campi e reti. In questa prospettiva, la materia viene definita come tutto ciò che ha massa e dimensioni (discontinuità nello spazio) ed è soggetta alla forza di gravità. La materia deve essere considerata come uno stato di riposo dell’energia: materia ed energia sono quindi aspetti diversi di una stessa entità fisica. Lungo questa strada, si arriva anche alla ridefinizione del rapporto tra materiale e spirituale: a fronte del nuovo immaginario su che cosa sia la materia è questa seconda dimensione che, in un primo momento almeno, sembra costretta a dover battere in ritirata.

Si pensi, prima di tutto, al caso delle neuroscienze, dove negli ultimi anni si è sviluppato un ampio dibattito sulla «naturalizzazione delle intenzioni». Sviluppando la prospettiva di Spinoza e Comte, si applica al cervello umano lo stesso modo di studio applicato dalle scienze sperimentali. Persa ogni differenza, il cervello è semplicemente un complesso sistema di circuiti neuronali. Dall’altra parte, si pensi alla capacità di intervenire chimicamente sul funzionamento del cervello o sullo stato psichico: non sono queste dimostrazione della pura natura materiale della nostra stessa interiorità?

Nell’ambito della spiegazione “cosmologica”, i fisici quantistici e gli astrofisici parlano di «energia di fondo» o «vuoto quantico». Si tratta di un vuoto che rappresenta la pienezza di tutte le possibili energie e delle loro eventuali densificazioni che prendono “corpo” in una infinità di forme e di esseri viventi. Per esprimere questa idea, oggi si preferisce l’espressione pregnant void, «vuoto pregno». Si tratta di qualcosa che sfugge alle categorie convenzionali di spazio-tempo, qualcosa di anteriore allo stesso spazio-tempo.

Gli astrofisici lo immaginano e la descrivono come un vasto oceano, senza margini, illimitato, ineffabile, indescrivibile e misterioso, in cui, come in un utero infinito, sono in origine ospitate tutte le possibilità e le virtualità dell’essere. È da qui che sarebbe emerso, senza che si possa sapere perché e come, quel piccolo punto estremamente pregno di energia, inimmaginabilmente caldo, che, esplodendo (big bang), ha poi dato origine al pluriverso nel quale esiste il nostro universo.

Un tale salto epistemologico sta alla base e trova riscontro anche in fondamentali applicazioni tecniche del tempo che viviamo: penso, in particolare, agli sviluppi che hanno interessato l’ambito informatico e telematico, dove si diffonde l’uso di un ossimoro come “realtà virtuale” che si definisce come realtà simulata, digitalizzata. Anche se l’uso quotidiano di queste tecnologie fa perdere la portata del loro impatto sull’immaginario contemporaneo, è chiaro che l’istantaneità di cui sono portatrici ci fa fare l’esperienza di una materialità che supera il vincolo spazio-temporale. Come nel caso del banale invio di una email che può istantaneamente arrivare dall’altra parte del mondo: non è questa un’esperienza in passato riservata a forze divine o magiche? Grazie alle risorse di calcolo, dei computer e delle altre tecnologie di interfaccia è inoltre possibile ricreare un ambiente del tutto simile alla realtà al punto che un “partecipante” non riesce più a cogliere la differenza rispetto alla “realtà reale”. In questo modo diventa poi possibile la moltiplicazione artificiale della realtà.

La nostra è dunque un’epoca profondamente neo-materialista. Neomaterialista perché l’idea del materialismo acquisisce oggi una forza che non ha mai avuto in passato. Ciò che chiamo capitalismo tecno-nichilista altro non è che la traduzione storico-sociale di questa concezione neo-materialista che domina nella epistemologia contemporanea. Il combinarsi di un tecnicismo esasperato che fonda la propria legittimazione sul mero criterio del funzionamento e di un nichilismo che vive dell’equivalenza assoluta dei significati è la principale conseguenza.
Pretendendo di vivere senza riferimento a un senso il tecno-nichilismo sostituisce l’infinito con l’infinitazione, cioè con la moltiplicazione delle opportunità, delle contingenze e delle differenze. In questo modo, il tecno-nichilismo finisce, letteralmente, per rimuovere la realtà, coincidente con ciò che l’essere umano ha la presunzione di costruire (attraverso la tecnica o la comunicazione). Per questo, esso finisce per essere un tempo fantasmagorico, dove a prevalere sono le illusioni («il-ludo»).

In questa cultura, esiste solo ciò che è visibile, ciò che viene rappresentato. Si afferma così una concezione neo-sofista dove quello che viene messo in scena in modo efficace convince e viene assunto come reale. L’unico linguaggio che non finisce nella babele contemporanea è quello matematico, linguaggio che si incarna negli apparati tecnico-economico che restano così incatenati alla numerazione e alla quantificazione. Ciò che ci deve sorprendere più di ogni altra cosa è che questo tempo, che si è dispiegato così potentemente negli ultimi decenni, arriva oggi a un punto drammatico di crisi. Trent’anni di espansione lasciano una pesantissima eredità: montagne di debiti, livelli elevati di disuguaglianza, problemi diffusi di depressione. E, ciò che più conta, è come se l’Occidente, dopo aver dominato l’intero mondo per due decenni — cioè a partire dalla conclusione che aveva caratterizzato il Novecento col modello sovietico — si ritrovasse completamente incapace di pensare e praticare il futuro.

È in questa prospettiva che si devono interpretare le bolle finanziarie che hanno caratterizzato gli ultimi anni dello sviluppo economico. Attraverso la moltiplicazione fittizia di nuovi strumenti tecnici — che hanno lavorato su una non-materia — la possibilità di indebitarsi non ha più limiti imprimendo all’economia una velocità di crescita senza precedenti basata però su un gioco di scambi fittizio. Alimentato dal circuito potenza-volontà di potenza. È questa la ragione profonda che sta alla base della grave crisi che ha investito l’Occidente: ciò che è collassato è l’idea che lo sviluppo tecnico può procedere senza limite.

Così, la materia smaterializzata, per quanto accelerata e sollevata, si ripiega su di sé, inerte. Despiritualizzata, essa non regge e non vive. Lo dimostra, appunto, la crisi nella quale ci stiamo dibattendo. Non si tratta solo di economia e finanza. È che la depressione si diffonde come malattia sociale mentre molti indicatori ci parlano di crisi del desiderio. Non male per una società che è nata proprio per “liberare” il desiderio.

Dato che c’è solo il pensiero metaforico che si muove in orizzontale e si perde l’analogia che ci permetterebbe di verticalizzare, la società dei liberi finisce per ritrovarsi in una nuova prigione fatta di istantaneità e slegamento. La sostanza della tecnica — che sfugge a qualsiasi contestazione — si separa dal reale. Il concetto, geloso della propria purezza, diventa così autoreferenziale e viene sospinto avanti solo dalla volontà di potenza. La crisi che abbiamo davanti a noi non è, dunque, semplicemente “economica”, una crisi di efficienza. È, piuttosto, una crisi di senso. Una crisi spirituale.

La cosa è quanto mai interessante, perché il neo-materialismo imperante, che ha pensato di sostituire lo spirito con la mobilità, l’accelerazione, la sensazione, finisce in un cul de sac, dal quale non sa più come uscire.

Il fallimento del neo-materialismo contemporaneo conferma che lo sviluppo o è spirituale o non è. Lo aveva già chiarito Max Weber. Il capitalismo, nel suo fondamento materialistico, sussiste e supera se stesso solo alleandosi con uno spirito. La crisi di oggi è crisi spirituale perché lo spirito individualista e materialista che si è affermato dagli anni Sessanta e Settanta è giunto al suo stesso limite. Per superare la crisi, occorre tornare all’origine del problema che è prima di tutto spirituale. La questione è molto impegnativa dato che la partita si gioca attorno alla capacità di ridire, nel tempo in cui viviamo, la parola spirito. Cioè di dire diversamente libertà.

Compito molto difficile. Mi limito dunque a uno spunto: il termine “spirito” viene dalla radice spas-spus che significa soffiare, esalare, alitare, in italiano «spirare». Il vento, infatti, spira. È interessante osservare che anche la parola speranza viene dalla medesima radice spas-spus nel senso di «a-spirare» e di spingere verso. Dunque, la speranza — come atto spirituale — indica la capacità dell’essere umano di desiderare qualche cosa di buono, di bello, di vero. Un’ulteriorità. Qualche cosa di qualitativamente differente dall’esistente.

La speranza è esattamente l’eccedenza che manca al nostro tempo, che per questo non ha futuro. La crisi dell’Occidente consiste nell’aver confuso l’espansione — materiale, quantitativa, acquisitiva, individualistica, orizzontale — con l’eccedenza — spirituale, qualitativa, donativa, relazionale, verticale.

Uscire dalla crisi significa sanare questo movimento, non riducibile alla sola orizzontalità, ma che ha bisogno anche di verticalità. È proprio tale confusione, derivante dall’attacco neo-materialista alla dimensione spirituale, che ci consegna questa crisi drammatica nella quale noi oggi rischiamo di sprofondare.

Il punto è recuperare l’idea che l’essere umano esiste non solo per via di una infinità quantitativa, ma come unicità qualitativamente infinita; esiste cioè non solo in rapporto ad alcune cose — da possedere, numerare, ridurre a sé — e non solo a cose che gli stanno immediatamente intorno; egli, infatti, risponde al mondo intero, alla totalità dell’essere, alla vita, e risponde rispetto a una interpellazione di senso che chiama in causa la dimensione spirituale, espressiva, qualitativa, relazionale — in una parola, potremmo dire, l’eccedenza propria della vita.

Questa eccedenza è essenzialmente spirituale e qualitativa, espressiva e relazionale. Non affrontare di nuovo tale questione condannerebbe l’Occidente al suo declino.