IL TRAGUARDO DEL VIAGGIO DELLA VITA STA NEL DONO DEL VIAGGIO STESSO
Nel viaggio della vita il traguardo non sta
nelle vette che possiamo conquistare
o nelle cose che possiamo comprare per distinguerci dagli altri.
Il traguardo non sta dove può portarci la nostra ambizione,
né nel fare cose per dimostrare quanto valiamo davanti agli altri.
Il traguardo del viaggio della vita sta nel dono del viaggio stesso.
È più importante dare un senso a questo viaggio,
essere ricordati per la scia di sorrisi che abbiamo saputo regalare
e per la gioia con cui abbiamo arricchito la vita degli tanti…
piuttosto che agitarsi fino a perdere la pace per una poltrona più prestigiosa
e aver vissuto senza amore.
La vita è una questione di Amore.
Se saremo vissuti nell’Amore,
già durante il nostro viaggio ci troveremo
con un patrimonio umano di inestimabile valore,
più grande di ogni conquista
il cui valore si misura solo in denaro.
Scopriremo dentro di noi risorse sempre nuove
per andare avanti quando la strada sembra finire.
Scopriremo nuovi doni con cui affrontare la vita.
* * *
Tutto questo, per il cristiano, significa
che il vero premio non sta nella ricompensa
che aspettiamo alla fine della vita
o nella paga dell’operaio a fine giornata,
ma del dono di essere stati chiamati all’esistenza
e nell’aver vissuto una vita degna.
Il premio sta nell’essere stati chiamati a lavorare nella vigna del Signore.
Premio è: essere rimasti fedeli a Dio e a se stessi nelle prove…
e aver scoperto che la fedeltà a Dio e a se stessi
non sono che due facce della stessa medaglia.
* * *
Se vogliamo elevarci ancora un po’ nella riflessione,
il cristiano sente nel profondo di se stesso
che il vero premio sta nel dono della presenza di Gesù
nella propria vita…
presenza che sostiene, perdona, mostra la direzione e accompagna
mentre compiamo il grande viaggio.
Egli… che è la Via, la Verità e la Vita della nostra vita…
Il vero premio è nell’aver ricevuto
la vocazione a partecipare
alla vita stessa di Dio,
È partecipare, con la nostra vita,
alle relazioni che costituiscono il dialogo d’Amore
tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Assorbiti dentro questo Mistero,
la nostra vita si trasforma in DONO.
Diventiamo AMORE.
E nell’essere divenuti DONO e AMORE abbiamo raggiunto il traguardo.
E il traguardo è Dio, perché Dio è Amore.
E mentre scopriamo che tutto è dono della sovrabbondanza
dell’Amore e della misericordia di Dio,
continua il grande viaggio della vita, come un grande traguardo
che si disvela, poco a poco, come un quadro d’autore…
Enzo Caruso
__________
“Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? …. E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? …. Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena”.
(Dal Vangelo secondo Matteo, capitolo 6, versetti 25-34)
La croce del Papa: fare unità nel tempo degli smarrimenti. Di Enzo Caruso
L’intervento
Da Avvenire: http://www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/La-croce-del-Papa-fare-unit-nel-tempo-degli-smarrimenti-.aspx
Ritornanti polemiche di alcuni opinionisti sui gesti e sul magistero di papa Francesco sembrano collocarsi all’interno di un movimento di malumore che, in alcuni ambiti della Chiesa e fuori di essa, viene alimentato nei confronti di questo pontificato. Ciò che mi preoccupa è l’ideologizzazione degli argomenti, e il fatto che si stia bypassando il ‘grande discorso’ che papa Francesco sta facendo alla Chiesa (la conversione missionaria, il rilancio dell’evangelizzazione, il coraggio di varcare porte e confini…), per giudicare un pontificato a partire da alcuni gesti ‘fuori programma’ e da dichiarazioni poco protocollari che colpiscono, interrogano e, a volte, lasciano perplessi. Ma che sono anche il pungolo per provocare una nuova riflessione sulla missione nel tempo presente.
Sembra che si punti a far emergere una dura contrapposizione di visioni non solo sul pontificato, ma sulla stessa concezione di Chiesa. Per questa via, però, non ci si accorge o si dimentica che nella Chiesa, in forza dell’azione dello Spirito Santo, la diversità di sguardo, se non ideologizzata, diventa ricchezza per la missione. In Cristo le contrapposizioni si dissolvono; conservatori e progressisti si incontrano e si riscoprono nella categoria fondamentale del «discepolato», tanto cara al Papa, e concorrono a edificare l’unica Chiesa di Cristo, perché legati dalla medesima fede in Lui. Trovo che gli argomenti e lo stile di alcuni critici sistematici del Papa rischino, essi sì, di disorientare
i fedeli. Vittorio Messori, a proposito dei gesti del Pontefice, ha scritto di una «imprevedibilità che continua, turbando la tranquillità del cattolico medio, abituato a fare a meno di pensare in proprio, quanto a fede e costumi, ed esortato a limitarsi a ‘seguire il Papa’». Sono preoccupato da una frase del genere. Come pastore. Il «cattolico medio» non è la misura dell’essere Chiesa. La misura è nel «duc in altum» con cui Giovanni Paolo II aprì la missione nel XXI secolo. È nel grande messaggio della Evangelii gaudium.
Il «cattolico medio», così come viene definito – tranquillo, senza una propria capacità di pensiero autonomo, uno che deve ‘solo fare quello che gli viene detto’ e che sarebbe confuso da questo pontificato – rappresenta non la misura, ma il problema, perché una simile figura solleva la questione dell’efficacia di azione pastorale che dovrebbe suscitare cristiani maturi, leader nelle proprie comunità e autentici evangelizzatori. Allo stesso modo, la parola di Francesco non è il problema, ma il segnale d’allarme di una crisi in atto e lo sprone a superarla: è più facile – e comodo – suscitare semplici ‘praticanti’ e ‘ripetitori obbedienti’ anziché evangelizzatori.
Nella Chiesa cattolica il Papa è colui che tiene insieme, nella comunione, tutta l’incredibile complessità che la Chiesa stessa rappresenta. Tenere insieme questa complessità è la croce del pontificato. Ed è una croce che deve essere condivisa dall’intero popolo di Dio.
Valorizzare la diversità di visioni per costruire unità in un tempo di grandi smarrimenti è, insieme, la sfida e la croce del cristiano, oggi. La Chiesa non può essere pensata, vissuta e raccontata secondo ‘logiche parlamentari’, dove opposte fazioni si annullano a vicenda a colpi di votazioni.
Nessun Papa ha la ricetta per la soluzione dei problemi del proprio tempo. Francesco e il suo predecessore Benedetto rappresentano, ognuno secondo i rispettivi doni, una ricchezza inestimabile per la Chiesa. Non ci si può sbandierare ‘papalini’, ‘cattolici, apostolici, romani’ solo quando si ha un Papa di proprio assoluto gradimento. Questo non è secondo il Vangelo. Ne è piuttosto la sua manipolazione.
*Sacerdote e direttore per l’Italia del Movimento per un Mondo Migliore
Dietro ogni ombra c’è una luce
La preghiera… respiro dell’anima
Trovate il tempo per pregare…
Dio guarisce ogni cuore spezzato…
Riunire i tre «fratelli»: la forza del gesto inedito
Un’analisi di Tornielli sull’incontro per la pace promosso da papa Francesco con Peres, Abu Mazen e Bartolomeo
ANDREA TORNIELLI – Vatican Insider 9/06/2014
CITTÀ DEL VATICANO
«Ci sono dei gesti che mi vengono dal cuore, in quel momento…». Così Papa Francesco aveva risposto a chi due settimane fa gli chiedeva come fosse nato quell’omaggio con il bacio della mano ai sopravvissuti della Shoah nello Yad Vashem. Ed è in questo modo che a Bergoglio era venuta l’idea di far ritrovare insieme per pregare i responsabili dei due popoli, israeliano e palestinese, durante il breve viaggio in Terra Santa dello scorso maggio. Il sogno non si era potuto realizzare in loco, ma il Papa non ci aveva rinunciato, e aveva così invitato a casa sua Shimon Peres e Abu Mazen.
L’invocazione a Dio perché doni la pace in Terra Santa che si è svolta ieri sera in Vaticano è un gesto nuovo e inedito. Giovanni Paolo II, dopo l’11 settembre, aveva invitato ad Assisi i leader delle religioni. Ma non aveva portato a pregare nello stesso luogo chi si combatte. Più che le parole, comunque significative, a colpire della cerimonia nel giardino triangolare con il Cupolone che si stagliava sullo sfondo, sono stati i silenzi, la partecipazione, le immagini. Qualcosa di veramente «potente», ha commentato a caldo il portavoce del presidente Peres. Una celebrazione curata in ogni dettaglio dal Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa, con uguali spazi alle tre religioni professate da chi vive in Israele e Palestina. Tre preghiere distinte, senza confusioni, ma accompagnate da tanti credenti in tutto il mondo, tutti spiritualmente presenti accanto ai quattro vegliardi che con le pale di metallo blu hanno piantato un piccolo ulivo, simbolo della pace e pianta a suo modo emblematica: ci vogliono molti anni prima che possa portare frutto.
Un gesto inedito, quello di ieri sera, anche per i cristiani. Uniti nell’abbraccio tra Francesco e il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, entrambi al centro della scena al momento del saluto finale di pace. Una minoranza, quella cristiana, sempre più riconciliata al suo interno, che può giocare un ruolo chiave nella pacificazione di israeliani e palestinesi.
Francesco ha voluto gettare un sasso in un processo negoziale stagnante, interrotto dopo la decisione di Abu Mazen di dar vita a un governo di unità nazionale con esponenti di Hamas, alla quale ha fatto seguito l’annuncio da parte del premier israeliano Benjamin Netanyahu del via libera a migliaia di nuovi insediamenti di coloni in Cisgiordania. Il vescovo di Roma non ha agito da politico, ha portato i due presidenti a pregare, come uomini di fede, all’ombra del Cupolone di San Pietro. Le tensioni e i conflitti aperti rimangono tanti. Sia Peres che Abu Mazen hanno fatto riferimento nei loro interventi, all’unicità di Gerusalemme come città santa delle loro rispettive fedi. Ma il presidente israeliano, ormai prossimo alla scadenza del suo mandato, ha anche riconosciuto che la pace va costruita anche «se ciò richiede sacrifici o compromessi».
Francesco non ha fatto il diplomatico né il mediatore. Ha però detto parole chiarissime sui troppi figli vittime innocenti della guerra e della violenza: «È nostro dovere far sì che il loro sacrificio non sia vano». «Per fare la pace – ha aggiunto – ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza. Per tutto questo ci vuole coraggio, grande forza d’animo».
E invocare Dio, alzare gli occhi al cielo, non significa affatto rinunciare all’impegno di costruire «artigianalmente», ogni giorno e con coraggio, la pace. Aver pregato nello stesso luogo, con rabbini, preti e imam, con i rappresentanti dei popoli israeliano e palestinese, nel giorno in cui i cristiani festeggiano la Pentecoste – festa dello Spirito Santo che «è armonia» come sempre ricorda Bergoglio – è un richiamo e una responsabilità. La spirale dell’odio e della violenza va spezzata «con una sola parola: “fratello”. Ma per dire questa parola – ha concluso Francesco – dobbiamo alzare tutti lo sguardo al cielo, e riconoscerci figli di un unico Padre».
Nasce la pace quando…
Una stella dal mare. Il corso dell’amore
Si può avere tutto,
successo, affetto, ricchezza,
ma tutto è nulla senza quel
brandello di strada che,
passa attraverso il cuore
e conduce al giardino della vita.
Il corso dell’ amore sgorga
con forza dal cuore senza preavvisi,
e niente può fermare il suo scorrere.
L’ amore, quando è vero amore,
raggiunge la riva,
e riesce difficile frenare l’ impeto
delle bianche onde o impedire
al mare di cambiare colore.
E’ una rete sottilissima,
che unisce due esseri.
E’ un’ acqua tranquilla,
che dona forza ai giorni pieni
di vento e di rabbia.
E’ la stessa pace che precede la notte.
Una stella dal mare…
è una stella arrivata con le onde,
dopo lunghe lotte, per raccontare
del suo significato, e di tutto quello
che è capace di dare.
Un dono infinito tenuto nel cuore
come una delle cose più belle
regalate dalla vita.
A volte dura nel tempo, a volte per sempre,
e non può essere stretto in una mano.
(Rosita C.)
Dio non ci lascia mai senza strade
Ascolta il sussurro del silenzio dentro di te
Signore, mi fido anche del tuo silenzio
Il fascino della notte, tempo di Dio
Il Gabbiano. Poesia.
Una poesia che ha partecipato al concorso “Poesia da tutti i cieli “, – I Concorsi di Samideano – con il patrocinio ella Federazione Esperantista Italiana.
Il mondo
è un mare agitato,
con alte onde
da cavalcare e attraversare.
Da una spiaggia all’ altra,
cambio direzione
a ogni colpo di vento,
e son fiero e contento.
In bonaccia o in tempesta,
passo a volo radente sulla riva,
fra un attimo e l’altro della vita che resta.
Verso uno scoglio
plano sicuro,
anche in mare ventoso e scuro.
Senza aver nido
sulla sabbia leggero mi poso,
e ad ogni pensiero d’ amore
tranquillo riposo.
Sfioro le montagne,
e dopo un ampio giro
vado deciso verso quel che miro.
Sto sopra lo sguardo del pescatore
quando passo in compagnia,
volando e lasciando
sopra quel mare una lieta scia.
Oltre l’ orizzonte
risalgo il cielo,
per veder meglio da lassù,
ma son così in alto
che non vedo più.
(Rosita C.)
La Samaritana al pozzo. Una donna amata e redenta.
Una donna, cinque mariti, un convivente, l’attesa di un Salvatore, il Messia. Una simbolo del travaglio umano che cerca compimento e incontra fallimenti. Gesù rompe il silenzio e infrange una norma sociale secondo cui è vietato per un uomo intrattenersi a parlare con una donna sconosciuta, tanto più se samaritana. Gesù entra nella sua storia, con delicatezza e compassione. La donna non si sente invasa o umiliata. Sente nel profondo il significato dell’amicizia di Gesù e si lascia penetrare dal suo amore. E lui entra, in punta di piedi, per accarezzare la sua storia e per sanarla dall’interno. Così facendo, Gesù si rivela come la sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna che rigenera ogni esistenza spezzata. Nella donna samaritana l’immagine dell’umanità spezzata, presa per mano da Gesù e rialzata.
Per ascoltare l’audio-riflessione, clicca qui: TQ DOM 03 A – L’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna (Gv 4, 5-42) – II RIFLESSIONE
Per ascoltare la proclamazione del vangelo, CLICCA PRIMA QUI
Lettera di un padre ateo alla figlia convertita al cattolicesimo
La lettera scritta da James Harrington, giornalista britannico agnostico e sposato con «una fervente atea», dopo la «coraggiosa» scelta della figlia: diventare cattolica
http://www.tempi.it/lettera-padre-ateo-figlia-convertita-cattolicesimo#.UvTJS0J5PmY
«Dio e la religione non hanno mai avuto un ruolo nella mia vita», almeno fino a quando «la mia figlia più grande non ha deciso di farsi battezzare e diventare cattolica». Comincia così la lettera ospitata martedì 15 gennaio dal quotidiano progressista britannico Guardian e firmata da James Harrington, giornalista inglese trasferitosi nel 2009 in Francia, «ateo tendente all’agnosticismo», sposato con «un’atea fervente».
TUTTO MA NON CONSACRATA. «Battezzato da bambino», James ha ben presto lasciato perdere la religione, anche se «ero d’accordo con mia moglie che nostra figlia avrebbe potuto scegliere la vita che voleva, tranne entrare nell’esercito e diventare consacrata». Poi la scoperta che voleva farsi battezzare. «Questa non sarebbe dovuta essere una grande sorpresa. In Francia l’abbiamo iscritta a una scuola cattolica, scelta solo perché un collega mi aveva rassicurato sull’eccellente qualità dell’educazione. E se devo essere sincero era proprio così, non ci siamo mai dovuti lamentare, anzi al contrario, avevamo tutte le ragioni per ringraziare il mio collega».
«CHE CORAGGIO MIA FIGLIA». A scuola la ragazza ha conosciuto la religione cattolica, attraverso l’ora di insegnamento facoltativa, e «chissà quanto coraggio le è servito per dirci quello che voleva. Era chiaro che la nostra coraggiosa e dolce figlia aveva riflettuto a lungo sulla fede». James e la moglie non l’hanno però lasciata andare senza prima discuterne: «Nostra figlia ci ha parlato della Genesi, della natività, della crocifissione di Gesù, del Paradiso. Noi invece del Big Bang, degli amici, della famiglia, del cibo, del coniglietto pasquale e della vita moderna».
«LA SUA CONVERSIONE CI HA CAMBIATI». «Ma dopo tutto questo e nonostante la nostra antipatia verso dio e la creazione, lei aveva ancora il coraggio di dirci in faccia e davanti al sacerdote che la nostra visione del mondo per lei non era sufficiente. Lei crede e voleva essere battezzata e voleva essere cattolica», continua James, che non è rimasto indifferente alla conversione della figlia: «Non posso negare che quello che lei ha detto a me e mia moglie ha cambiato il nostro percorso compiaciuto, indifferente alla religione e buonista».
«ANDRÒ CON LEI FINCHÉ POSSO». James descrive così le conseguenze della conversione della figlia: «Per me, questo significa viaggi regolari per assistere a “lezioni cattoliche”, andare a messa la domenica senza sapere quando alzarmi e sedermi, sperando che il prete non venga da me con il microfono durante la predica». Insomma, conclude il cronista inglese, «per me significa uno sforzo in più e per mia moglie una non piccola dose di frustrazione. Ma questo è tutto per mia figlia. Ha fatto un primo passo lungo una strada che, alla fine, dovrà percorrere da sola. Io andrò con lei finché posso, ma lei sa che è il suo viaggio. Sta andando dove io non posso seguirla. Spero solo che la prossima volta che prende una decisione definitiva per la vita, si ricordi di quando ci ha detto che aveva fede in qualcosa in cui non credevamo. E che noi abbiamo creduto a lei».
COMING OUT SPIRITUALE. La lettera di James ricorda in qualche modo la storia di Thierry Bizot, intellettuale francese che ha riscoperto la fede dopo l’incontro con l’«amore di un Dio non inavvicinabile, come credevo da piccolo, ma umano, reale». La sua vicenda, raccontata nel libro Catholique anonyme, è stata poi ripresa dalla moglie, Anne Giafferi, regista non credente, nel film L’amore inatteso, uscito nelle sale l’anno scorso. Il film non mostra solo come «una persona “normale”, nel senso di equilibrata e poco vulnerabile, possa, controvoglia, essere toccata dalla fede», secondo le parole di Giafferi, ma documenta anche l’esistenza di un pregiudizio anticattolico nella società che «rende difficile il “coming out spirituale”. La Chiesa cattolica è spesso percepita come vecchia, complessata, fuori moda».
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Lo sguardo di Cristo che conquista
Libertà, amore e perdono
La cremazione, un’importante rottura antropologica
Niente e nessuno poteva prepararci alla vastità delle proporzioni del cambiamento che è avvenuto negli ultimi 150 anni, circa il modo in cui l’uomo vede la vita, il suo senso, il mondo, le relazioni umane e la stessa morte. E’ un cambiamento avvenuto una volta per sempre e offre al cristianesimo nuove frontiere ancora intatte e inesplorate, affascinanti e avventurose. Queste frontiere, ora, vanno varcate con la luce della fede.
(E.C.)
* * *
di Gaëlle Dupont – “Le Monde” del 2 novembre 2013
È un cambiamento di una rapidità fulminea per pratiche che risalgono alla notte dei tempi e che
costituiscono l’essenza delle società umane: i riti funerari. Mentre da migliaia di anni i morti
venivano inumati, la cremazione è diventata un fenomeno di massa in Francia nel giro di una
generazione. Oggi, il 32% dei defunti viene cremato (la parola “incenerire” è giudicata troppo
triviale dagli specialisti). La percentuale supera il 50% nelle grandi città. Secondo un sondaggio
Ipsos effettuato su 1009 persone per i servizi funerari della città di Parigi e pubblicato il 17 ottobre,
la maggioranza dei francesi desidera ricorrervi (il 53% contro il 47% a favore dell’inumazione).
Si tratta soprattutto di un’importante rottura antropologica. Come spiegare un cambiamento tanto
profondo e rapido? Il costo inferiore è una spiegazione molto parziale. La perdita d’influenza della
religione cattolica, che, contrariamente al protestantesimo, è legata alla permanenza del corpo dopo
la morte, è senza dubbio un fattore più importante. Lo testimonia il sondaggio Ipsos. I credenti e
praticanti preferiscono ampiamente l’inumazione (75%), mentre i non credenti e gli atei scelgono la
cremazione (69%). Quest’ultima è tuttavia tollerata dalla Chiesa cattolica dal 1963.
Altre evoluzioni delle mentalità sono parte di tale successo. “La nostra società idealizza il corpo di
cui si ha il dominio fino alla morte”, analizza François Michaud-Nérard, direttore dei servizi
funerari della città di Parigi. “E dopo, lo si lascerebbe marcire tra quattro assi?” “Il fuoco ha un
aspetto sterilizzante. È un modo di negare il cadavere e di liquidare l’immaginario della
decomposizione, conferma l’antropologo e professore all’università Paris-Descartes Jean-Didier
Urbain. I progressi della cremazione vanno di pari passo con la negazione della morte e della sua
realtà biologica”. Mentre è costantemente presente sugli schermi, la morte reale è sempre meno
tangibile: i corpi sono più raramente esposti, il lutto non viene più portato, per il linguaggio si
preferiscono eufemismi (si parla di dipartita, di scomparsa, ecc.).
I sostenitori della cremazione affermano di non voler pesare sui vivi. “Le persone vivono sempre
più a lungo, ma non in buona salute, decodifica Michaud.Nérard. Hanno l’impressione di essere un
peso e non vogliono più esserlo dopo la morte”.
Viene anche sostenuto l’argomento ecologico da parte di chi preferisce la cremazione, in maniera
paradossale, perché il fatto di bruciare il corpo sprigiona dei gas tossici, al punto che occorre dotare
i crematori di filtri. Anche le rotture familiari hanno il loro peso. “Non viviamo più nella Francia
dei villaggi, dove tutti i morti della famiglia erano nello stesso cimitero, non lontano dalle
abitazioni”, constata Patrick Baudry, professore di sociologia all’università di Bordeaux-Montaigne.
Come occuparsi di una tomba a Strasburgo se si vive a Bordeaux?
“iperindividualismo contemporaneo”
Per il filosofo e vicepresidente del Comitato nazionale d’etica funeraria Damien Le Guay, l’aumento
delle cremazioni testimonia più profondamente l’“iperindividualismo” contemporaneo. “Le esequie
avevano la funzione di assolvere a un debito simbolico verso coloro che non c’erano più, spiega.
Permettevano di inscriversi in una discendenza. Tale idea tende a scomparire. La gente si sente
meno debitrice verso le generazioni precedenti e meno responsabile della trasmissione a quelle
future. Si sente responsabile solo di se stessa e sciolta da ogni continuità”.
Assistiamo a un cambiamento che rafforza tale analisi: l’idea che ognuno deve farsi carico della
proprie esequie è sempre più presente. Ad esempio, il 44% delle persone interrogate da Ipsos ritiene
che spetta al futuro defunto pagare le spese dei funerali, contro il 35% che pensa che sia la famiglia
a doverlo fare. Tra i primi, circa il 31% desidera prevedere il loro finanziamento e il loro
svolgimento nei dettagli, il 33% solo il loro finanziamento, l’8% solo lo svolgimento.
Un cambiamento che può far problema. I funerali servono soprattutto ai vivi per superare il lutto e
le volontà del morto non corrispondono necessariamente a quelle dei parenti o delle persone a lui
vicine. Ora, la cremazione resta una violenza simbolica importante. Del resto, è scelta meno frequentemente quando i morti sono dei bambini (attorno al 30% contro il 48% in media, secondo
uno studio su più di 3000 esequie a Parigi).
“Nella cremazione, c’è un ‘accorciamento’ del tempo, spiega Marie-Frédérique Bacqué, psicologa e
presidente della Société de thanatologie (che raccoglie ricercatori specialisti). Passare da una
persona a due litri di cenere in poche ore, è difficile da sopportare. Un tempo, c’era qualche cosa
di più progressivo”. “Il disfacimento del morto e il processo del lutto andavano di pari passo”,
completa Le Guay.
tre milioni di persone in lutto ogni anno in Francia
Lo sviluppo della cremazione ha posto, per un certo tempo, il problema dello statuto delle ceneri,
che potevano essere portate a domicilio, col rischio di annullare la separazione tra vivi e morti
segnata dalla sepoltura e dal cimitero e indispensabile al lutto. Ormai, la conservazione a domicilio
è proibita e la dispersione regolamentata. Il fatto che le ceneri cominciano a seguire lo stesso
destino dei corpi è un segno che il bisogno di localizzazione dei morti resta importante. Secondo
uno studio realizzato al crematorio di Champigny-sur-Marne nel 2013, il 55% delle ceneri viene
inumato (in una tomba o in un colombario), contro il 16% disperso nel giardino del ricordo, e il
33% altrove.
Ormai, si pone anche il problema della celebrazione dei funerali. “La povertà di cerimonie di certe
cremazioni è stupefacente”, afferma Le Guay. Ma il tema è ancora più ampio. Che cosa fare quando
il rito non viene più affidato alla Chiesa? Tra i francesi, il bisogno di cerimonia resta forte (il 75% la
desidera per se stesso, il 77% per i propri cari). Secondo gli osservatori, sono stati effettuati dei
progressi notevoli dalle imprese di pompe funebri nel caso di cremazioni. Ma i luoghi restano
impersonali e l’organizzazione dipende molto dal coinvolgimento della famiglia. “Non è facile
inventare dei riti”, sottolinea Urbain.
“Una società deve preoccuparsi dei riti funerari, perché hanno un effetto sulla salute psichica,
avverte Baudry. Una cerimonia sbrigata alla bell’e meglio può essere fonte di lutti complicati”.
Secondo lui, le collettività locali sono le prime a doversene far carico, ma non solo: “Anche gli
architetti, i paesaggisti, gli artisti dovrebbero essere coinvolti”. Le Guay si appella ai rappresentanti
eletti a livello nazionale, non per legiferare, ma per stilare una carta etica. “L’argomento riguarda
500 000 persone ogni anno, e 3 milioni di persone in lutto, afferma. È troppo importante per essere
lasciato agli operatori funerari e al libero gioco del mercato”.