Dio, il cammino della vita, la solitudine… Le cose che contano veramente.
Una delle più grandi risorse dell’uomo
è la capacità di vedere nel prossimo il proprio fratello.
Questa è certamente la radice di una vita felice.
L’egoismo umano è la causa di tutti i mali del mondo.
Ho sempre creduto:
è meglio rinunciare
ad “avere” ragione ad ogni costo,
nelle relazioni umane,
quando il risultato più sicuro
è perdere le persone che si amano
e rimanere soli con la propria ragione.
A volte capita di deporre
anche bandiera bianca,
pur di dimostrare quali distanze
si è disposti a percorrere,
basta che l’altro capisca che l’Amore
vale più di ogni ragione del mondo.
Ma talvolta ti trovi davanti al rifiuto finale
come davanti ad una torre di fuoco.
L’Amore accetta anche il fallimento.
E continua ad amare.
Alla ragione,
quando ha esaurito i suoi argomenti,
resta solo il vuoto che si è creato.
E dentro questo vuoto
cova il risentimento….
Perché il limite più tragico della ragione…
è quello che troppo spesso
non è disposto ad ammettere
altre ragioni che la propria ostinazione,
e quindi non ammette mai di sbagliare.
DIO NON ABBANDONA MAI i suoi figli.
Non è una frase di mera consolazione.
Dio non potrebbe essere diverso da quello che è:
un Padre e Amore infinito.
LA SOLITUDINE è solo il risultato
dell’ostinazione degli uomini
a vivere senza amore.
A PAGARE LE TRAGICHE CONSEGUENZE
di chi rinnega l’amore è, prima di tutto,
chi l’ha rinnegato, perché destinato, prima o poi,
ad essere raggiunto
dalle conseguenze del proprio agire
e a naufragare nel vuoto
dentro la propria anima.
E la solitudine di quel vuoto
deve essere terrificante,
a giudicare dai livelli di cattiveria
che queste persone sviluppano.
GLI ALTRI A PAGARE LE CONSEGUENZE
sono coloro ai quali
è stato negato il diritto all’amore,
sul quale ogni cosa nella vita si regge,
compresa la vita stessa.
Queste persone, se animate
dalle virtù della FEDE e della SPERANZA,
hanno dentro il dono necessario
per trovare l’Amore
anche dove esso viene negato,
e di trasmetterlo soprattutto
A CHI CREDE DI NON AVERNE BISOGNO.
Solo l’Amore salva.
Solo l’amore dà senso a tutto.
L’amore copre tutto.
Il resto è solo pura illusione.
(EC)
Quando Benedetto XVI rispose a sette domande in diretta TV rivoltegli da persone dei vari continenti
Sette domande su Dio, sul dolore, sull’anima, su Gesù…. Per la prima volta nella storia, un pontefice ha scelto di rispondere ad alcune domande in una trasmissione televisiva.
Il 22 aprile 2011, per la prima volta nella storia, il Papa ha partecipato ad una trasmissione televisiva. Nel programma “A Sua Immagine – Speciale Venerdì Santo”, in onda su Rai Uno, Benedetto XVI ha risposto a sette domande, che gli sono arrivate da Giappone, Costa d’Avorio, Iraq, Italia.
A volte, fra le distrazioni della vita, la nostra coscienza riesce a portarci alle radici delle grandi domande che albergano nel profondo del cuore di ogni persona, e a farci esprimere qualcuna di esse che arriva alla superficie della nostra anima con maggiore chiarezza. E allora sospendiamo per un attimo le nostre faccende, guardiamo al mistero della vita e lasciamo che quelle domande vengano fuori. E poi speriamo che qualcuno possa darcene la risposta. Sappiamo che la fede ci aiuta ad affrontare queste domande, e a volte ha anche risposte chiare, ma il più delle volte le domande riguardano il mistero della vita e non vi sono risposte immediate e definitive. La risposta è la fede. Non la fede che annulla lo spirito di ricerca e si trincera dietro quella che spesso è l’arroganza delle certezze assolute, ma la fede umile che, mentre lascia aperta la domanda, accende nel cuore il desiderio di andare alla ricerca della risposta. La fede ci dice che tale risposta è in Dio, e allora il nostro cuore è attratto dalla sorgente che è Dio. Ma non bisogna cadere nell’errore che Dio da la risposta materiale a tutte le domande, né farlo credere. Spesso sentiamo dire che “Dio è la risposta a tutte le tue domande”. Mentre sappiamo che, nella fede, Egli lo è, non possiamo usare quesat risposta per chiudere la faticosa ricerca dell’animo tormentato in cerca di risposte, come se, poiché vive nel dubbio, vive nel peccato. Se questo è l’approccio, allora un vero credente non può che reagire dicendo che Dio non è una equazione matematica o un algoritmo che, applicato, produce in sé la risposta razionale a tutte le nostre domande. Anzi, nel cammino della vita è molto più affascinante la scoperta che la pretesa del possesso della risposta. E Dio è contemplato come un mistero di amore che, nel suo profondo, porta tutte le risposte che tormentano l’uomo dal giorno in cui è stato creato. (E.C.)
(I testi che seguono sono tratti dall’agenzia di stampa SIR – http://www.agensir.it/pls/sir/v3_s2doc_a.a_autentication?target=3&tema=Anticipazioni&oggetto=215398&rifi=guest&rifp=guest. I video sono tratti dalla trasmissione “A Sua Immagine”, del 22 aprile 2011)
Prima domanda. Progetto d’amore. “Perché voi dovete soffrire tanto, mentre altri vivono in comodità? E non abbiamo le risposte, ma sappiamo che Gesù ha sofferto come voi, innocente, che il Dio vero, che si mostra in Gesù, sta dalla vostra parte”. Lo ha detto Benedetto XVI, rispondendo alla domanda di Elena, una bambina giapponese di sette anni, sul terremoto che ha colpito il Giappone. È molto importante capire che “Dio sta dalla vostra parte” e che “nel mondo, nell’universo, tanti sono con voi, pensano a voi, fanno per quanto possono qualcosa per voi, per aiutarvi. Ed essere consapevoli che, un giorno, io capirò che questa sofferenza non era vuota, non era invano, ma che dietro di essa c’è un progetto buono, un progetto di amore”.
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Seconda domanda. L’anima c’è. “Certamente l’anima è ancora presente nel corpo. La situazione, forse, è come quella di una chitarra le cui corde sono spezzate, così non si possono suonare. Così anche lo strumento del corpo è fragile, è vulnerabile, e l’anima non può suonare, per così dire, ma rimane presente”. Ha risposto così Benedetto XVI alla domanda di una donna italiana, madre di un figlio in stato vegetativo dalla Pasqua del 2009, che chiede se l’anima abbia abbandonato il corpo del figlio. “Sono anche sicuro – ha chiarito il Papa – che quest’anima nascosta sente in profondità il vostro amore, anche se non capisce i dettagli, le parole”, “perciò questa vostra presenza, cari genitori, cara mamma, accanto a lui, ore ed ore ogni giorno, è un atto vero di amore di grande valore, perché questa presenza entra nella profondità di quest’anima nascosta”.
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Terza domanda. Una storia comune. “Prego ogni giorno per i cristiani in Iraq”. Lo ha detto Benedetto XVI, rispondendo alla domanda rivolta da giovani di Baghdad, che chiedono come convincere i cristiani perseguitati a non emigrare. Per il Papa, occorre fare “il possibile perché possano rimanere, perché possano resistere alla tentazione di migrare”. La Santa Sede “è in permanente contatto con le diverse comunità, non solo con le comunità cattoliche, con le altre comunità cristiane, ma anche con i fratelli musulmani, sia sciiti, sia sunniti. E vogliamo fare un lavoro di riconciliazione, di comprensione, anche con il governo, aiutarlo in questo cammino difficile di ricomporre una società lacerata. Perché questo è il problema, che la società è profondamente divisa”. Si deve ricostruire la “consapevolezza” che, nella diversità, c’è “una storia in comune”.
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Quarta domanda. Rinunciare alla violenza. Rispondendo a Bintù, una donna musulmana della Costa d’Avorio, che chiede un consiglio per il suo Paese, il Papa ha invitato a tutte le parti “a rinunciare alla violenza, a cercare le vie della pace. Non potete servire la ricomposizione del vostro popolo con mezzi di violenza, anche se pensate di avere ragione. L’unica via è rinunciare alla violenza, ricominciare con il dialogo, con tentativi di trovare insieme la pace, con la nuova attenzione l’uno per l’altro, con la nuova disponibilità ad aprirsi l’uno all’altro”.
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Quinta domanda. Redenzione per tutti. La discesa dell’anima di Gesù “è un viaggio dell’anima”, infatti la sua anima “è sempre in contatto con il Padre, ma nello stesso tempo quest’anima umana si estende fino agli ultimi confini dell’essere umano. In questo senso va in profondità, va ai perduti”. Lo ha spiegato il Pontefice, rispondendo a una domanda se come Gesù, dopo la morte, anche a noi discenderemo agli Inferi, prima di salire al Cielo. Questa parola della discesa del Signore agli Inferi “vuol soprattutto dire che anche il passato è raggiunto da Gesù, che l’efficacia della Redenzione non comincia nell’anno zero o trenta, ma va anche al passato, abbraccia il passato, tutti gli uomini di tutti i tempi”.
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Sesta domanda. La materia e l’eternità. “Non possiamo definire il corpo glorioso perché sta oltre le nostre esperienze”, ma Gesù ci ha dato dei segni per capire “in quale direzione dobbiamo cercare questa realtà”. Lo ha affermato Benedetto XVI, rispondendo ad una domanda su cosa significa che dopo la Risurrezione il corpo di Cristo è glorioso. “Gesù non ha lasciato il suo corpo alla corruzione, ci ha mostrato che anche la materia è destinata all’eternità, che realmente è risorto, che non rimane una cosa perduta”, ha evidenziato il Papa. Quindi “c’è una condizione nuova, diversa, che noi non conosciamo, ma che si mostra” in Gesù ed “è la grande promessa per noi tutti che c’è un mondo nuovo, una vita nuova, verso la quale noi siamo in cammino”. Gesù “è un vero uomo, non un fantasma, che vive una vera vita, ma una vita nuova che non è più sottomessa alla morte e che è la nostra grande promessa”.
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Settima domanda. Maria. L’ultima domanda al Papa è stata su Maria, sotto la croce, affidata da Gesù a Giovanni. “Gesù – ha chiarito – affida tutti noi, tutta la Chiesa, tutti i discepoli futuri, alla madre e la madre a noi”. E d’altra parte “la Madre è immagine della Chiesa, della Madre Chiesa, e affidandoci a Maria dobbiamo anche affidarci alla Chiesa”.
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Alla fine…. resta solo l’amore
…un’altra volta viene sera…
un’altra volta il tempo
ha corso piu’ di me.
Il cuore si domanda
nel silenzio,
che resta dei giorni,
che resta della vita?
Un’altra volta anche stasera,
una melodia sale
dal cuore dentro me:
non conta quel che è grande
o quel che ha un nome…
ma conta solo cio’ che Amore !!!
Perche’ niente è piccolo
di quello che fai per Amore,
solo l’Amore resta della Vita,
solo l’Amore…
(un’amica del bog)
La prima testimonianza di Cristo sta nel non aver paura (Card. Caffarra)
Ricordi del GMG di Madrid. Catchesi del Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, del 19 agosto 2011

Passaggi salienti della catechesi:
“…qualcuno si chiederà: come faccio concretamente a rendere testimonianza a Gesù”
“…La risposta ce la dona S. Pietro…. È una lettera scritta a cristiani calunniati, perseguitati..: «Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto» [1Pt 3, 14-15].
“…Tu rendi testimonianza prima di tutto, se non hai paura; se non ti lasci turbare dalla previsione di essere deriso e come “compatito” o squalificato [“ma come… tu pensi ancora così?”]”.
“…Ma la vera fortezza è in un rapporto profondo – «nei vostri cuori» – con Cristo: «adorate il Signore».”…Chi vive senza speranza, vive veramente in modo miserevole, perché non ha un futuro”.
“…Chi incontra Gesù sa che Egli lo conduce sempre, anche quando passa attraverso valli oscure”.
“…Siate dunque testimoni di speranza: «sono molti coloro che desiderano ricevere questa speranza»”.”…Non si è testimoni se non si è in grado di rendere ragione della speranza. La nostra è una speranza ragionevole, che ha un fondamento incrollabile: la fede in Gesù. Dovete quindi conoscere profondamente le ragioni della nostra fede…
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TESTO INTERO
1. Quando Gesù lascia visibilmente questa terra, dice ai suoi amici: «avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni … fino agli estremi confini della terra» [At 1, 8].
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Sappiamo che cosa significa “essere testimoni” o “rendere testimonianza”. Molto semplicemente narrare ciò che si è visto, oppure ciò che si è udito a chi ha l’autorità di chiederlo o a chi ha semplicemente interesse a sapere. A modo di esempio, ascoltate la seguente testimonianza: «ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita … noi lo annunziamo anche a voi» [1Gv 1, 1. 3]. È la testimonianza resa a Gesù dal suo più grande amico: Giovanni.
La fede è un incontro vero e proprio con Gesù, perché Egli non è solo un ricordo, ma è una presenza reale in mezzo a noi. Nella fede e mediante i sacramenti noi viviamo una vera esperienza di amicizia con Gesù.
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Perché, uno potrebbe pensare, devo testimoniare, narrare ciò che mi è accaduto incontrando Gesù? Perché non posso tenerlo per me? Negli Atti degli Apostoli viene narrata una testimonianza resa da Pietro, assai interessante. Egli assieme a Giovanni ha appena compiuto il miracolo di guarire uno storpio. Essi vengono richiesti dal Sommo Sacerdote di rendere ragione del loro operato. Allora Pietro dice: «nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso, e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta dinanzi sano e salvo … in nessun altro v’è salvezza» [At 4, 10. 12]. È accaduto un fatto. Pietro ne dà la ragione: Gesù è presente fra noi con la sua potenza di salvezza. Pietro e Giovanni erano ben consapevoli di questo. Essi per primi lo avevano sperimentato. Ma Cristo non era un bene solo per loro stessi; è un bene da condividere con tutti, perché la sua salvezza è offerta a tutti. Chi crede in Gesù; chi lo ha veramente incontrato, e cerca di nascondere questo avvenimento che gli è accaduto, è come uno che – direbbe Gesù – accende la luce e poi la copre perché non illumini.
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2. Ma, qualcuno si chiederà: come faccio concretamente a rendere testimonianza a Gesù? La risposta ce la dona S. Pietro nella sua prima lettera. È una lettera scritta a cristiani calunniati, perseguitati. E quindi anch’essi si facevano la stessa domanda: come faccio a rendere testimonianza a Gesù in questa società? Ascoltate bene la risposta di Pietro: «Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vidomandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto» [1Pt 3, 14-15]. Tu rendi testimonianza prima di tutto, se non hai paura; se non ti lasci turbare dalla previsione di essere deriso e come “compatito” o squalificato [“ma come… tu pensi ancora così?”]. Ma la vera fortezza è in un rapporto profondo – «nei vostri cuori» – con Cristo: «adorate il Signore». E poi finalmente ecco come si rende testimonianza a Gesù: «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi». Mi fermo su questo punto un po’ più a lungo.
Voi date testimonianza di una speranza che è in voi e che è frutto dell’incontro con Gesù. Chi vive senza speranza, vive veramente in modo miserevole, perché non ha un futuro. Solo quando siamo certi che il futuro è sotto il segno positivo, anche il presente è vivibile. Chi incontra Gesù sa che Egli lo conduce sempre, anche quando passa attraverso valli oscure. Siate dunque testimoni di speranza: «sono molti coloro che desiderano ricevere questa speranza».Ma non si è testimoni se non si è in grado di rendere ragione della speranza. La nostra è una speranza ragionevole, che ha un fondamento incrollabile: la fede in Gesù. Dovete quindi conoscere profondamente le ragioni della nostra fede. Leggete e studiate il catechismo: da soli o assieme ai vostri amici. Fatevi aiutare dai vostri sacerdoti.
Che cosa grandiosa è la vostra testimonianza! Essa dà gloria a Cristo: dando testimonianza, siete la gloria di Cristo in tutto quello che farete. L’Apostolo Paolo usa un’immagine bellissima. Dice che siamo il “profumo di Cristo”: «diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo intero. Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo» [2Cor 2, 14-15]. La gloria di Cristo nel mondo rifulge attraverso la testimonianza che gli uomini, i suoi discepoli, danno a Lui. La sfida di Gesù si può riassumere in questo: Egli scommette sui suoi discepoli, ipotizzando che il suo Amore e la sua Salvezza riveleranno la loro potenza e presenza nel mondo attraverso la testimonianza dei suoi discepoli.
Voi sarete i testimoni di Gesù, la sua gloria, il suo profumo, e così «diventerete strumento per far ritrovare ad altri giovani come voi il senso e la gioia della vita, che nasce dall’incontro con Cristo».3. Non posso tuttavia tacere, cari giovani, l’esistenza di una grave insidia che può impedire la vostra testimonianza fin dall’inizio. È uno dei dogmi indiscutibili della cultura in cui viviamo. Potrei formularlo nel modo seguente.
“La fede religiosa è un fatto privato. Ciascuno si tenga la propria o non ne tenga nessuna. Tutte alla fine hanno lo stesso valore. L’importante è che ci sia una reciproca tolleranza”. Provate a pensare ad un cristiano che accetti questa posizione, e chiedetegli di essere testimone. È come chiedere a uno di … bere litri di liquore e di non ubriacarsi! Cerchiamo dunque di analizzare seriamente, anche se brevemente, quella posizione.
Essa presuppone – è questo l’errore fondamentale – che la fede religiosa, o meglio ciò che dice la religione non è né vero né falso, dal momento che essa non interloquisce con la ragione ma con altri interlocutori. Chiedersi quindi se una religione è vera o falsa, è come chiedersi … quanti chili pesa una sinfonia di Mozart. Verità e religione sono due grandezze completamente estranee l’una all’altra.Vi ricordate la testimonianza resa da Pietro? Perché Paolo percorse il mondo intero allora conosciuto per predicare il Vangelo di Gesù? Semplicemente per dire: “cari ateniesi, cari romani, questa è la mia opinione; però voi ne avete un’altra: è lo stesso!”?
No certamente. La loro testimonianza nasceva da una certezza: ciò che testimoniamo è vero; e quindi vale per ogni uomo. Ora capite meglio perché vi dicevo: sappiate rendere ragione della speranza che è in voi.
“Ma – vi si dirà – in questo modo tu sei intollerante”. Intanto costatiamo un fatto: i grandi testimoni di Gesù non solo non hanno mai imprigionato nessuno, o ucciso qualcuno. Sono stati imprigionati e uccisi, non raramente.
È anche vero che lungo i secoli, non sempre nella Chiesa c’è stata chiarezza su questo punto. E quindi sicuramente dobbiamo fare attenzione.
La verità non può essere imposta, ma solo proposta. Essa chiede solo di essere conosciuta. «E la vittoria che nasce dalla fede è quella dell’amore. Quanti cristiani sono stati e sono una testimonianza vivente della forza della fede che si esprime nella carità».
Alla fine, perché testimoniare Cristo? perché è vero, e ne siamo certi, che affrontare la vita nella memoria continua dell’incontro con Cristo, è più intelligente, è più gioioso. In una parola: è più umano.
Zaccheo: uno straordinario caso umano
Una delle caratteristiche più diffuse della crisi di transizione epocale del nostro tempo consiste nello scoprire che il senso della vita non può essere dato dalle ricchezze materiali. Ci sono valori molto più profondi che vanno scoperti e coltivati. Chi ha fatto esperienza di una vita centrata solo sul denaro e sulla soddisfazione dei propri bisogni individuali è destinato, prima o poi, a scontrarsi col vuoto dentro la propria anima. E dentro quel vuoto rischierà di fare una esperienza terrificante… di solitudine, di nullità e di vertigini. Dentro quel vuoto ci si può perdere. Solo chi ha provato il vuoto di una vita senza direzione né progetto sa veramente raccontare come l’irruzione inattesa di Cristo rappresenti l’attimo della propria rinascita… la “Buona Notizia”, nel senso di “sconvolgente…. incredibile… tanto grande capovolgere tutti i valori creduti fino a quel momento, e provocare un terremoto spirituale e un cambiamento di vita. Questa fu l’esperienza di Zaccheo.
* * *
ZACCHEO. Un ebreo. Membro del popolo eletto da Dio. Un popolo caduto sotto la tirannia dell’impero romano.
Un ebreo opportunista. Sceglie di approfittare della situazione e si vende ai romani.
Diventa capo doganiere, esattore delle tasse.
E’ furbo, astuto, cattivo…
Vede negli altri solo opportunità di profitto.
Rende contenti i romani perché sa come spremere fino all’ultimo spicciolo alle famiglie già immiserite e depredate dalla voracità dei dominatori.
Conosce i meccanismi dalla grande finanza del tempo e approfitta di ogni occasione per depredare e arricchirsi.
Ad un certo punto passa Gesù.
Uno stuolo di poveri, malati e disperati lo seguono.
Lui vuole vederlo. Ma senza alcuna intenzione di convertirsi.
E’ piccolo di statura…quasi ad indicare la bassezza della sua statura morale.
Sale su un albero. Poi… all’improvviso… sente la voce di Gesù rivolgersi a lui. Il corteo si ferma.
Tutto tace. la gente aspetta. Non capisce.
Gesù alza gli occhi verso i rami di un albero e tutti lo vedono.
Zaccheo sente chiamare il suo nome. E’ la voce di Gesù… la voce di Dio. “Voglio entrare a casa tua!”
Quella voce non solo entra nella casa di Zaccheo… ma squarcia il muro di immoralità e corruzione e penetra nella zone più profonde della sua anima.
Lo sconquassa. Lo tormenta. Provoca in lui una improvvisa e violenta crisi di coscienza.
All’improvviso Zaccheo vede passare davanti a sé le scene di una vita dissoluta, vissuta senza significato e da traditore verso il suo popolo. La crisi arriva al punto in cui esplode in pianto:
“O mio Signore. Restituirò tutto. Anzi, più di quello che ho rubato. Resterò povero e nei debiti ma non posso tollerare più i volti dei padri disperati ai quali ho tolto il cibo per i figli. Diventerò un benefattore… ma non mi chiamerò mai così, perché sto solo restituendo ciò che ho tolto e il di più che non ho tolto è per la gloria di Dio. Un uomo onesto. Ma non datemi mai il premio Nobel come benefattore dell’umanità.
Il solo fatto di averti incontrato è il mio premio… la mia salvezza. Non voglio altro”.
(E.C.)
La croce per Karol Wojtyla: un punto di domanda
INEDITI
La croce? È un punto di domanda
Si intitola «La mia croce» la raccolta di testi (alcuni dei quali inediti) di Karol Wojtyla curata da Andrzej Dobrzynvski e Valerio Rossi per Interlinea (pp. 160, euro 12).
Si tratta di omelie di Giovanni Paolo II sul tema della Passione, alcune pronunciate quando non era ancora Papa; in questa pagina riportiamo appunto un brano della predica fatta dall’allora cardinale Wojtyla al santuario della Santa Croce a Mogila di Nowa Huta, presso Cracovia, il 20 settembre 1970. Pubblichiamo anche la prefazione all’antologia firmata da monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro.
Che cos’è la croce? Direi che è soprattutto un simbolo eterno, è una domanda dell’uomo che non tace mai. Basta ascoltare il pianto di un bambino piccolo per poter scoprire in esso questa domanda. Basta passare per le vie dell’antica città di Cracovia e di Nowa Huta, non solo dentro gli ospedali, i luoghi delle malattie, della prigionia, ma anche dentro numerose abitazioni; forse basterebbe passare fra noi: come spesso si ripeterà questa domanda! È una domanda legata alla sofferenza. L’uomo che soffre, l’uomo che viene provato dalla sofferenza, che la sperimenta, sempre chiede: perché? È una domanda legata alla croce: la domanda della croce, una domanda molto diffusa. Tutti, quasi fin dai primi istanti della vita, la sentiamo come la nostra domanda. E forse per questo andiamo in pellegrinaggio verso la croce, perché essa è una questione fondamentale della nostra vita terrena. A volte questa domanda procede di pari passo con la risposta. A volte, quando vediamo la sofferenza umana, pensiamo che sia una conseguenza di qualche causa, che sia un castigo per qualche colpa. Possiamo sempre dire così? Ma forse, più spesso, la domanda legata alla sofferenza umana – la domanda che riguarda la croce – rimane senza una chiara risposta. Qui nei pressi, a Pleszów, sono andato a visitare i bambini nell’Istituto infantile dei disabili mentali. Così simpatici, così innocenti e tanto infelici. E l’uomo deve chiedersi: perché? Possiamo dire che siano colpevoli i genitori? A volte proprio i genitori innocenti innalzano la seguente domanda: perché? Le domande sulla croce aumentano. A volte le domande sulla croce si accumulano nella vita di una particolare persona, si accumulano nella vita delle società, nella vita dell’umanità. Eppure nella croce sta la risposta per tantissime persone che soffrono. La croce è una risposta, è l’unica risposta. Perché molto spesso mancano risposte umane, spiegazioni umane. Perché soffre un bambino, una persona, un prigioniero, una nazione? La croce è l’unica risposta. Sicuramente possiamo indicare moltissime persone, forse anche fra noi, per le quali nella sofferenza la croce è stata l’unica risposta. Pensiamo allora così: soffro, ma anche Dio che divenne uomo soffrì. Soffro, guardo Lui, vedo la sua croce.
La croce è una domanda e una risposta. È questo soltanto il primo grado della nostra riflessione sulla croce. Molto spesso dalla risposta, che è la croce, nasce un’ulteriore domanda: perché Dio, che divenne uomo, perché il Figlio di Dio ha dovuto soffrire e morire sulla croce? Questa domanda si potrebbe considerare di secondo grado. Ma su questo secondo grado molto spesso subentra l’uomo, il suo pensiero, la sua riflessione umana e cristiana. Si potrebbero indicare molte persone, numerosi poeti, pensatori che si sono posti questa domanda di secondo grado: perché? A tale domanda troviamo la risposta nella Rivelazione: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
Ecco la risposta. La risposta alla domanda di secondo grado, come ho detto, è l’amore. La croce corrisponde all’amore. La croce spiega l’amore universale. Ma dobbiamo dirci, miei cari fratelli, che proprio per il fatto che la croce spiega l’amore, che la croce rivela Dio amore, proprio per questo lui è una tale domanda. Quando guardiamo Cristo nel momento in cui va verso la croce, vediamo dei momenti di una giustizia assoluta. Quando nell’orto degli ulivi dice: «Allontana da me questo calice» (Lc 22,42). E non viene ascoltato. Certo, è stato esaudito nella seconda parte della sua preghiera: «Non ciò che io voglio, ma quello che Tu vuoi». Allora vengono alla mente le altre parole di un apostolo che ha scritto: «Dio neppure al proprio Figlio ha risparmiato ciò» (Rm 8,32). Questa costituisce la base dell’amore, che «ha dato il suo Figlio unigenito», affinché nessuno di noi perisca. È il mistero della croce: sapete come conducono lontano queste domande e risposte, che grazie alla luce della nostra fede giungono a noi. Nella croce c’è la misura suprema delle questioni umane, una misura così grande che supera la misura dell’uomo. È la conseguenza della nostra grandezza originaria. È la conseguenza del fatto che siamo creati a immagine e somiglianza di Dio e che la nostra vita, i nostri atti vengono misurati secondo una misura non solo umana, ma anche divina. Siccome noi uomini, soprattutto dopo il peccato – tutti siamo dopo il peccato –, non riusciamo a portare questa misura, allora occorreva la croce, sulla quale fu appeso il Figlio di Dio affinché a noi uomini venisse ripristinata la misura di Dio nella vita e negli atti. Il Crocifisso aiuta sempre ciascuno di noi a ritrovare questa misura. Ci insegna come è grande la responsabilità dell’uomo per l’uomo, per l’umanità, per la dignità umana. E quando l’uomo sente che non riesce ad assumere questa responsabilità, lo aiuta. Il mistero della croce passa nel profondo delle nostre anime. Sentiamo dentro di noi queste dimensioni di Dio, le sentiamo in modo più intenso quando cadiamo nel peccato: allora è necessaria la coscienza umana, per purificarci, per rialzarci. Ma la necessità della coscienza umana è nello stesso tempo umana e divina. L’uomo desidera fortemente recuperare questa originaria misura divina, con la quale Dio l’ha misurato e alla quale Dio non rinuncia mai. Miei cari fratelli e sorelle, so di essere audace, ma questa audacia è dovuta al desiderio di toccare le questioni di Dio, i misteri di Dio, che umanamente sono impronunciabili. Ma oggi perdonatemi questa audacia e accettate; se nelle mie parole c’è una luce, accettatele.
Avvenire – 28 marzo 2012
Quale spiritualità per il nostro tempo?
La spiritualità è nella natura dell’uomo.
E’ una spinta insopprimibile verso l’Assoluto.
Noi cristiani, questo “Assoluto” lo chiamiamo Dio e Padre.
Egli si è rivelato al mondo in Gesù di Nazareth.
***
Il mondo oggi ha un urgente bisogno di spiritualità…
per trovare la strada e dare un nuovo senso alla vita,
e la forza di costruire il mondo su nuove fondamenta, oltre l’egoismo.
Ma che tipo di spiritualità occorre?
E cosa intendiamo con “mondo nuovo”?
Una premessa
Quando diciamo “spiritualità”, dobbiamo capire che parliamo di altra cosa del pullulare di pratiche religiose, considerate in se stesse. Queste sono uno strumento della spiritualità, ma non sono “la” spiritualità. Piuttosto questa è la “sorgente” da dove sgorga il fiume d’acqua che alimenta tutto il simbolismo con cui una religione… ogni religione, esprime il suo bisogno di Dio e il dialogo con lui. Ma questo vale anche per colui che non ha alcuna religione e si pone davanti al mondo con sincerità di cuore, ne vede la grandezza, si sente parte di qualcosa più grande di lui e sente la chiamata a custodire e tramandare ad altri ciò che ha ricevuto, e non solo a “consumare” ciò che ha ricevuto (i beni materiali, culturali, spirituali, il dono del tempo, ecc.). In tal senso la spiritualità sta alle pratiche religiose e di pietà come l’anima sta al fare. Il fare esprime l’anima di una persona. E l’anima ispira il fare”.
La spiritualità come fatto umano.
La spiritualità è anzitutto un fatto umano. Appartiene alla sua natura. Essa coincide con il riconoscimento di quella spinta innata ad autosuperarsi, o autotrascendersi, e di tendere verso l’assoluto. Quando l’essere umano riconosce questa spinta, egli è anche spinto a “definirsi” di fronte ad essa. A partire da quella spinta egli matura una “visione del mondo” e matura uno stile di vita che mira a realizzare tale visione. Allo stesso modo, nel rispetto del credo di ciascuna persona e cultura, egli promuove con a la sua vita la coscienza che un mondo migliore è possibile, ed entra in relazione con tutto ciò che vi è di positivo e di “generativo” in ogni persona e cultura, per favorire lo sviluppo di una coscienza collettiva della spiritualità umana.
La spiritualità cristiana.
La spiritualità cristiana assume in toto quella umana e la eleva. L’Assoluto del cristiano è Cristo. “Io sono la luce del mondo”, dice Gesù, “Io sono la via, la verità e la vita”. La spiritualità cristiana nasce in Cristo e in lui si compie. Chi vive questa spiritualità “definisce” se stesso, assumendo uno stile di vita coerente con lo spirito delle beatitudini, col comandamento dell’amore e promuove l’avvento del Regno di Dio e dei suoi valori: “pace, giustizia e gioia nello Spirito” (Rom 14,17). Per il cristiano, quindi, promuovere un mondo migliore significa promuovere il Regno di Dio e la sovranità di Cristo, perché tutti siano salvati e condotti alla piena e definitiva comunione con Dio. Per questa comunione, in Dio e tra gli uomini, vissuta in Cristo e in suo nome, la spiritualità cristiana è una “spiritualità di comunione”, o, se vogliamo, una spiritualità del Regno.
Alle sorgenti della spiritualità
Lo Spirito del Cristo Risorto è la sorgente di una spiritualità che, come una permanente Pentecoste che irrompe nel nostro tempo – come in ogni tempo – aleggia sul caos del presente e fa nuove tutte le cose. Le fa nuove attraverso le mani degli uomini di buona volontà che sono disposti ad assecondare il suo soffio divino e accogliere la sua presenza operante e santificatrice nel profondo delle coscienze e della storia umana. Chi, poi, accoglie lo Spirito nel nome del Risorto, accoglie il Padre che lo ha inviato nel mondo ed entra nel vortice di un mistero che supera ogni umana conoscenza, e conferisce una nuova sapienza e un nuovo intelletto: la sapienza divina e l’intelletto delle cose di Dio. Il mondo non è più solo il mondo, ma è il mondo visto alla luce di un piano d’amore infinito e imperscrutabile…è il mondo cristificato, ossia il mondo contemplato in quanto realtà creata per mezzo del Verbo di Dio e ricapitolata nello stesso Verbo, Risorto e assiso alla destra del Padre come Signore cosmo.
E.C.
Agostino e Monica. Un dialogo fra madre e figlio, con lo sguardo rivolto alle cose del cielo
Agostino e la madre Monica ad Ostia. Un dialogo fra madre e figlio, con lo sguardo rivolto alle cose del cielo
Cosa significa avere lo sguardo rivolto alle cose del cielo? È veramente possibile desiderare il cielo più di quanto si desideri rimanere in questa vita? Non è che Dio, nelll’altra vita, ci porterà vita le cose e le persone a cui siamo più legati, quelle che abbiamo ricevuto proprio per un suo dono? Una prima risposta può essere quella “concettuale”. L’essere in Dio comporta il godimento pieno della sua presenza , in Lui, di tutto ciò che Lui ci ha dato durante la nostra vita. Non è forse detto in molte forme, nella liturgia dei defunti, che viviamo nell’attesa di ricongiungerci con i nostri cari che ci hanno lasciato? ma c’è una risposta più “nobile”, meno attaccata alle cose della terra.
C’è una bellezza indescrivibile che invade l’animo di colui che, pur vivendo la cittadinanza in questo mondo, tiene ormai lo sguardo fisso all’eternità. Per vivere questa esperienza non occorrono virtù eroiche. Occorre lasciarsi conquistare da Dio, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, fino a quando ameremo con il più autentico amore i nostri cari, e li sentiremo perfino più nostri… Più vicini, proprio perché il nostro sguardo sarà radicato in Dio. Più il nostro sguardo sprofonda nella contemplazione di Dio… più sentiamo dentro di noi l’alito del suo Spirito… più noi sentiamo di appartenere al Lui, più acquistano valore autentico le cose e le persone. Perché Dio è il nostro “tutto”. Non c’è persona umana che possa darci la gioia che solo Dio può darci. Per due motivi: primo, le persone che Dio ci regala sono raggi della gioia che vengono dal suo cuore, ma non sono la sorgente. Ci rallegrano, ma non ci tolgono l’anelito di un compimento definitivo dell’esistenza; secondo, perché Dio è la sorgente stessa della gioia, e non semplicemente un suo raggio.
E.C.
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Dalle «Confessioni» di sant’Agostino, vescovo
(Lib. 9, 10-11; CSEL 33, 215-219)
Era ormai vicino il giorno in cui ella sarebbe uscita da questa vita, giorno che tu conoscevi mentre noi lo ignoravamo. Per tua disposizione misteriosa e provvidenziale,avvenne una volta che io e lei ce ne stessimo soli, appoggiati al davanzale di una finestra che dava sul giardino interno della casa che ci ospitava, là presso Ostia, dove noi, lontani dal frastuono della gente, dopo la fatica del lungo viaggio, ci stavamo preparando ad imbarcarci. Parlavamo soli con grande dolcezza e, dimentichi del passato, ci protendevamo verso il futuro, cercando di conoscere alla luce della Verità presente, che sei tu, la condizione eterna dei santi, quella vita cioè che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore d’uomo (cfr. 1 Cor 2, 9). Ce ne stavamo con la bocca anelante verso l’acqua che emana dalla tua sorgente, da quella sorgente di vita che si trova presso di te. Dicevo cose del genere, anche se non proprio in tal modo e con queste precise parole. Tuttavia, Signore, tu sai che in quel giorno, mentre così parlavamo e, tra una parola e l’altra, questo mondo con tutti i suoi piaceri perdeva ai nostri occhi ogni suo richiamo, mia madre mi disse: «Figlio, quanto a me non trovo ormai più alcuna attrattiva per questa vita. Non so che cosa io stia a fare ancora quaggiù e perché mi trovi qui. Questo mondo non è più oggetto di desideri per me. C’era un solo motivo per cui desideravo rimanere ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico, prima di morire. Dio mi ha esaudito oltre ogni mia aspettativa, mi ha concesso di vederti al suo servizio e affrancato dalle aspirazioni di felicità terrene. Che sto a fare qui?».
Non ricordo bene che cosa io le abbia risposto in proposito. Intanto nel giro di cinque giorni o poco più si mise a letto con la febbre. Durante la malattia un giorno ebbe uno svenimento e per un pò di tempo perdette i sensi. Noi accorremmo, ma essa riprese prontamente la conoscenza, guardò me e mio fratello in piedi presso di lei, e disse, come cercando qualcosa: «Dove ero»?
Quindi, vedendoci sconvolti per il dolore, disse: «Seppellire qui vostra madre». Io tacevo con un nodo alla gola e cercavo di trattenere le lacrime. Mio fratello, invece, disse qualche parola per esprimere che desiderava vederla chiudere gli occhi in patria e non in terra straniera. Al sentirlo fece un cenno di disapprovazione per ciò che aveva detto. Quindi rivolgendosi a me disse: «Senti che cosa dice?». E poco dopo a tutti e due: «Seppellirete questo corpo, disse, dove meglio vi piacerà; non voglio che ve ne diate pena. Soltanto di questo vi prego, che dovunque vi troverete, vi ricordiate di me all’altare del Signore».
Quando ebbe espresso, come poté, questo desiderio, tacque. Intanto il male si aggrava ed essa continuava a soffrire.
In capo a nove giorni della sua malattia, l’anno cinquantaseiesimo della sua vita, e trentatreesimo della mia, quell’anima benedetta e santa se ne partì da questa terra.
La liturgia è ciò che fa Dio per l’uomo, non ciò che l’uomo fa per Dio (Benedetto XVI)
La liturgia manifesta il “Dio-con-noi”
Messaggio del Papa alla 62ma Settimana Liturgica Nazionale Italiana
Alcuni passaggi del messaggio che il Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone ha inviato – a nome del Santo Padre – alla 62maedizione della Settimana Liturgica Nazionale Italiana, promossa dal Centro di Azione Liturgica (Cal) sul tema: “Dio educa il suo popolo. La liturgia, sorgente inesauribile di catechesi”, inaugurata lunedì a Trieste.
10 agosto 2011
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…La Chiesa, specialmente quando celebra i divini misteri, si riconosce e si manifesta quale realtà che non può essere ridotta al solo aspetto terreno e organizzativo. In essi deve apparire chiaramente che il cuore pulsante della comunità è da riconoscersi oltre gli angusti e pur necessari confini della ritualità, perché la liturgia non è ciò che fa l’uomo, ma quello che fa Dio con la sua mirabile e gratuita condiscendenza. Questo primato di Dio nell’azione liturgica era stato evidenziato dal Servo di Dio Paolo VI alla chiusura del secondo periodo del Concilio Vaticano II mentre annunciava la proclamazione della Costituzione Sacrosanctum Concilium: “In questo fatto ravvisiamo che è stato rispettato il giusto ordine dei valori e dei doveri: in questo modo abbiamo riconosciuto che il posto d’onore va riservato a Dio; che noi come primo dovere siamo tenuti ad innalzare preghiere a Dio; che la sacra Liturgia è la fonte primaria di quel divino scambio nel quale ci viene comunicata la vita di Dio, è la prima scuola del nostro animo, è il primo dono che da noi deve essere fatto al popolo cristiano…” (Paolo VI, Discorso per la chiusura del secondo periodo, 4 dicembre 1963, AAS [1964], 34).
La liturgia, oltre ad esprimere la priorità assoluta di Dio, manifesta il suo essere “Dio-con-noi”, perché “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva.” (Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, 1). In tal senso, Dio è il grande educatore del suo popolo, la guida amorevole, sapiente, instancabile nella e attraverso la liturgia, azione di Dio nell’oggi della Chiesa.
A partire da questo aspetto fondativo, (occorre) riflettere sulla dimensione educativa dell’azione liturgica, in quanto “scuola permanente di formazione attorno al Signore risorto, luogo educativo e rivelativo in cui la fede prende forma e viene trasmessa” (Conferenza Episcopale Italiana, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 39). A tale proposito, è necessario approfondire sempre meglio il rapporto tra catechesi e liturgia, rifiutando, tuttavia, ogni indebita strumentalizzazione della liturgia a scopi “catechistici”. Al riguardo, la vivente tradizione patristica della Chiesa ci insegna che la stessa celebrazione liturgica, senza perdere la sua specificità, possiede sempre un’importante dimensione catechetica (cfr Sacrosanctum Concilium, 33). Infatti, in quanto “prima e per di più necessaria sorgente dalla quale i fedeli possano attingere uno spirito veramente cristiano” (ibidem, 14), la liturgia può essere chiamata catechesi permanente della Chiesa, sorgente inesauribile di catechesi, preziosa catechesi in atto (cfr Conferenza Episcopale Italiana, Il rinnovamento della catechesi, 7 febbraio 1970, 113). Essa, in quanto esperienza integrata di catechesi, celebrazione, vita, esprime inoltre l’accompagnamento materno della Chiesa, contribuendo così a sviluppare la crescita della vita cristiana del credente e alla maturazione della sua coscienza…
Vocazione (E. Caruso)
Un mistero imperscrutabile e potente
Coloro che Dio si è scelto
con una chiamata di particolare consacrazione
sono intimamente e indissolubilmente legati
non solo a Lui e alla promessa di ricevere
cento volte tanto rispetto a ciò che si è lasciato,
ma rimangono nello stesso modo misterioso
indissolubilmente legati anche alla sua croce,
e con ogni istante della sua passione.
La gloria di Cristo, infatti,
si manifesta in tutta la sua pienezza
non solo nella sua risurrezione,
ma parimenti attraverso l’obbedienza al Padre…
obbedienza che ha chiesto al Verbo incarnato
l’accettazione piena e incondizionata della croce.
In questo cammino…
disseminato di grandi grazie e di grandi prove,
anche di grandi tentazioni,
colui che è amato da Dio e a lui si è abbandonato,
non è mai solo.
Non lo è nello splendore del giorno
e non lo è nell’oscurità della notte più buia.
In lui dimorerà sempre lo Spirito del Padre
che rende presente il Signore Risorto.
E attorno a lui il Padre ha disposto
schiere di angeli,
oltre agli amici che gli resteranno accanto
nei giorni del suo peregrinare.
QUESTO GRANDE MISTERO
NON E’ PER IL GODIMENTO DI CHI HA RICEVUTO
UNA TALE CHIAMATA,
MA PER IL BENE DELL’INTERA FAMIGLIA DI DIO,
AI QUALI I SUOI ELETTI SONO INVIATI.
(E. Caruso)
Senza Cristo, anche per un solo attimo, è tutta l’esistenza si sgretola (EC)
Come prete, ma essenzialmente come cristiano,
al pari di ogni credente, o forse di più,
ho bisogno di essere ricondotto, ad ogni mio risveglio,
e in ogni istante della giornata,
al mistero insondabile dell’Amore di Dio,
e di abbandonarmi a questo Amore,
perché se perdo anche per un solo attimo questo orizzonte,
non è solo quell’attimo che si sfalda e perde senso;
è tutta l’esistenza che perde il suo centro e si sgretola.
Cristo è la pietra angolare e l’àncora che conferisce stabilità
e direzione a ogni discepolo che invoca da Lui la salvezza.
(E.C.)
La Pace… (di R. Pierobon)
Il dialogo è gratuita attenzione all’altro (B. Forte)
di Bruno Forte – Il Sole 24 Ore 1 luglio 2012
Quanto sta avvenendo in Italia, in Europa e nell’intero “villaggio globale” mostra con evidenza quanto ci sia bisogno di dialogo: dalla crisi che attraversiamo non si uscirà se non insieme. Sembra lo stiano comprendendo anche le forze politiche, o almeno i più. Dialogare, però, non è facile: può farlo veramente solo chi crede in un interesse superiore alle parti, nel bene comune da amare e servire più del proprio o di quello di gruppo. Riflettere sulle condizioni che rendono possibile e autentico il dialogo non è allora un esercizio astratto, risulta anzi tanto importante, quanto urgente. Il dialogo comporta sempre una sorta di uscita da sé, dalle ristrettezze del proprio punto di vista, per arrivare alla condivisione e all’incontro con l’altro.
A tutti i livelli, il dialogo è il linguaggio della vita vissuta come dono e come impegno, e perciò il luogo dove propriamente può realizzarsi la ricerca del bene comune. Dove non c’è impegno generoso per gli altri non potrà esserci dialogo; e, analogamente, dove non c’è dialogo è dubbio che possa esserci attenzione adeguata al bene di tutti e spirito di servizio. Si potrebbe rischiare l’affermazione che il dialogo è la misura dell’autenticità della vita, della ricchezza di umanità di ciascuno e della credibilità delle proposte fatte per il bene comune. Perciò, nulla si oppone di più alla natura del dialogo che la strategia o il tatticismo: dove il dialogo è strumento per dominare l’altro o per usarlo ai propri fini, li cessa di esistere. Il dialogo, in tutti i campi e specialmente in politica, ha la dignità del fine e non del mezzo: esso esige la gratuità dell’intenzione e si propone come una possibilità feconda d’incontro che nasce dalla volontà di servire la causa del bene di tutti.
Proprio per questo il dialogo non nasce e non si sviluppa lì dove la dignità e la consistenza dell’altro non siano rispettati. Il monologo, che ignora le esigenze e gli apporti altrui, vanifica l’incontro, rendendolo puramente accidentale: il dialogo, al contrario, vive della «reciprocità delle coscienze» (Maurice Nédoncelle), dello scambio fecondo in cui il dare e il ricevere sono misurati dalla gratuità e dall’accoglienza di ciascuno dei due. La massificazione anonima esclude ogni possibilità di esistenza dialogica: il riconoscimento dell’alterità come dono da accogliere, e non come rischio da cui difendersi, è essenziale al dialogo. E questo vale nel rapporto interpersonale come in quello fra gruppi (si pensi, ad esempio, alla presenza degli immigrati fra noi). Iniziativa e accoglienza esigono, tuttavia, di non restare chiuse nel cerchio del faccia a faccia, perché il dialogo sia vero e fecondo: la libertà da ogni forma di cattura è necessaria alla possibilità e all’effettiva realizzazione di uno scambio dialogico. Dove si creassero strumentalizzazioni o chiusure settarie il dialogo verrebbe a mancare: esso è autentico non solo quando nasce nel clima della libertà, ma quando si presenta come esperienza liberante, costantemente aperta agli altri, inclusiva e mai esclusiva dei bisogni e delle inquietudini di tutti. L”‘incontro nella parola” – in cui consiste letteralmente il dialogo (“da logos”) – deve rendere possibili altri incontri: esso proietta gli interlocutori fuori del cerchio dei due, verso il vasto mondo della solidarietà e della giustizia per tutti.
È qui che si coglie come dialogo e ricerca della verità non solo non si oppongano, ma siano in certo modo l’uno la via e l’autenticità dell’altro: ciò che è ricevuto nell’ascolto docile della verità, esige di essere gratuitamente offerto nel dialogo. L’onestà nell’obbedienza al giusto e al vero rende possibile e autentico il dialogo. Dialogo non è irenismo o cedimento alla dittatura del più forte: chi dialoga veramente deve servire la verità e impegnarsi per la giusta causa, anche a costo di rischiare il fallimento della convergenza cercata (così, mi sembra, hanno finalmente saputo dialogare i leader europei nel vertice del 28 e 29 giugno a Bruxelles: e bisogna dare atto al presidente del Consiglio Monti di essersi battuto in prima persona per questa linea). D’altra parte, dialogando così si sprigionano le energie nascoste del bene, e le potenzialità di ciascuno, lungi dal chiudersi in se stesse, si proiettano fuori di sé, facendosi servizio e dono. Quest’apertura all’esterno non solo non
mortifica la comunione di coloro che dialogano, ma la rende vera e liberante: da un dialogo vero e non soggiogato a poteri forti, ad esempio, l’Europa esce migliore, più credibile e incisiva. Qui si comprende anche come la fatica, che a volte il dialogo richiede, può essere tanto più sostenuta e condurre a un’esistenza veramente dialogica quanto più ci si accorge di essere stati interpellati per primi da un Altro che ci trascende tutti nel dialogo della vita. In questa luce si coglie lo specifico di chi s’impegna al servizio del bene comune sorretto da un’ispirazione di trascendenza di sé, di obbedienza a Dio e di servizio agli altri. Come afferma Agostino, «nulla maior est ad amorem invitatio, quam praevenire amando» -«Non c’è invito più grande all’amore, che amare per primi» (De cathechizandis rudibus, 4,7). Chi crede nella rivelazione del Dio che ci ha amato per primo è chiamato da questa stessa fede a uno stile di vita plasmato dal dialogo e impegnato nel servizio che anteponga il bene comune al proprio. Senza dialogo al suo interno la Chiesa stessa non potrà proporsi come “icona della Trinità”, riflesso nel tempo del dialogo eterno dei Tre.
Senza dialogo di sollecitudine e di amicizia verso la comunità degli uomini essa non annuncerà quanto gratuitamente le è stato rivelato e donato. Senza dialogo e spirito di servizio l’ispirazione cristiana in ogni campo e specialmente in politica non sarà credibile. È questo un aspetto chiave del messaggio del Concilio Vaticano II, non solo in rapporto all’ecumenismo e al dialogo interreligioso, ma anche riguardo agli stili della vita ecclesiale e alla relazione fra la Chiesa e il mondo. A cinquant’anni dall’apertura del Concilio e dalle intuizioni profetiche di Giovanni XXIII, che indirizzavano verso il riconoscimento di una nuova aurora per il popolo di Dio e la famiglia umana (il «tantum aurora est…» del discorso inaugurale dell’assise conciliare, l’11 ottobre 1962), queste verità semplici e grandi non solo non hanno perso, hanno anzi guadagnato in attualità e urgenza per tutti.
Potenza della fede e conferme dello Spirito (E.C.)
“Abbiate sempre accesa
la lampada della vostra fede in Cristo
e siate senza paura;
Camminate con passo
spedito e vigoroso.
Siate sempre nella Verità
e servitela con la vostra vita.
Non fate nulla per vile interesse
né per vanagloria.
Avrete in Gesù la luce
che illuminerà le tenebre
della vostra anima
e sarete luce per il mondo.
Verranno a voi in molti
per attingere a questa luce
e sarete riconosciuti dai piccoli di Dio.
In questo avrete conferma
che lo Spirito sta operando in voi
E che si sta servendo di voi
per compiere la sua opera.
Restate umili… Siate docili…
Rimanete nella Verità e nella Carità
e non temete
né minacce né calunnie…
Affrontate con serenità e coraggio
le prove; non vi agitate.
Non si turbi il vostro cuore
perché non sarete soli.
Lo Spirito del Risorto sarà
la vostra consolazione.
Cristo sarà la vostra corona di gloria…
il vostro vanto…
la vostra gioia.
Cristo sarà la vostra beatitudine.”
(E.C.)
Solo l’Amore salva… Il resto è inganno (E.C.)
Nella vita si cercano mille vie di salvezza
e si spendono tante energie per trovarle,
ma alla fine, stremato,
il cuore umano riconosce ciò che da sempre ha saputo…
Solo l’Amore salva…
Solo l’Amore riesce a dare un senso a tutto…
Il resto è solo inganno.
(Enzo Caruso)
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“DOVE C’È AMORE,
NON C’È BISOGNO DI PERDONO
PERCHÉ L’AMORE COPRE TUTTO.
L’AMORE BASTA A SÉ STESSO“.