Benedetto XVI, l’intervista inedita: «La Chiesa non è un’organizzazione per il miglioramento del mondo»

02 gen 2023

Alcune delle dichiarazioni rilasciate a Manfred Schell su Die Welt, che saranno pubblicate integralmente nell’Opera Omnia del papa emerito che sarà edita in primavera

Pubblichiamo uno stralcio dell’intervista inedita (in italiano) rilasciata nel 1988 da Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, a Manfred Schell, su Die Welt (traduzione di Pierluca Azzaro). L’intervista comparirà nel nuovo volume dell’Opera Omnia di Joseph Ratzinger che sarà pubblicato in primavera da Libreria Editrice Vaticana.

Lei ha denunciato la stanchezza della fede in Occidente. Quali sono le cause?
«Penso si tratti di una stanchezza che nel complesso risulti da una saturazione dell’esistenza di conoscenza e capacità di fare e nella quale emergono dubbi riguardo all’uomo stesso. Siamo talmente concentrati su questioni relative all’autoaffermazione economica e politica che la fede appare come un’offerta da aggiungere per così dire a forza da qualche parte. I dubbi su sé stessi portano alla fuga, al volere scendere. Ma qui sta anche la possibilità di una riviviscenza della fede, se dà risposte alle domande del proprio tempo».

La Chiesa deve diventare più attiva, più critica, forse anche più politica?
«Più attiva e più critica certamente. Negli ultimi anni la Chiesa è stata troppo occupata con sé stessa. Negli ultimi decenni la Chiesa in Germania in ambito politico ha fatto sentire con forza la sua voce — e a ragione — a favore dei valori fondamentali. È importante, ma non deve nascere l’impressione che la fede si esaurisca in una specie di moralismo politico. Il messaggio centrale di Dio, di Gesù Cristo, della salvezza temporale ed eterna deve nuovamente percepirsi di più, perché la Chiesa non è un’organizzazione per il miglioramento del mondo».

Resta da questione del se la Chiesa debba caratterizzarsi di più politicamente.
«È molto importante che la Chiesa non diventi essa stessa attore di uno gioco di forze politiche e in esso soccomba. Ma deve badare all’anima della politica, al suo fondamento etico».

fonte: https://www.corriere.it/cronache/23_gennaio_02/chiesa-non-eun-organizzazioneper-miglioramentodel-mondo-424a3680-8a5c-11ed-8b19-cdc718310dd5.shtml?refresh_ce

L’inattesa sorpresa di Benedetto XVI che scrive al matematico ateo Odifreddi

Ratzinger: “Caro Odifreddi

le racconto chi era Gesù”

La fede, la scienza, il male. Un dialogo a distanza fra Benedetto XVI e il matematico

pubblicato su La Repubblica il 24 settembre 2013

 

ll. mo Signor Professore Odifreddi, (…) vorrei ringraziarLa per aver cercato fin nel dettaglio di confrontarsi con il mio libro e così con la mia fede; proprio questo è in gran parte ciò che avevo inteso nel mio discorso alla Curia Romana in occasione del Natale 2009. Devo ringraziare anche per il modo leale in cui ha trattato il mio testo, cercando sinceramente di rendergli giustizia.

Il mio giudizio circa il Suo libro nel suo insieme è, però, in se stesso piuttosto contrastante. Ne ho letto alcune parti con godimento e profitto. In altre parti, invece, mi sono meravigliato di una certa aggressività e dell’avventatezza dell’argomentazione. (…)

Più volte, Ella mi fa notare che la teologia sarebbe fantascienza. A tale riguardo, mi meraviglio che Lei, tuttavia, ritenga il mio libro degno di una discussione così dettagliata. Mi permetta di proporre in merito a tale questione quattro punti:

1. È corretto affermare che “scienza” nel senso più stretto della parola lo è solo la matematica, mentre ho imparato da Lei che anche qui occorrerebbe distinguere ancora tra l’aritmetica e la geometria. In tutte le materie specifiche la scientificità ha ogni volta la propria forma, secondo la particolarità del suo oggetto. L’essenziale è che applichi un metodo verificabile, escluda l’arbitrio e garantisca la razionalità nelle rispettive diverse modalità.

2. Ella dovrebbe per lo meno riconoscere che, nell’ambito storico e in quello del pensiero filosofico, la teologia ha prodotto risultati durevoli.

3. Una funzione importante della teologia è quella di mantenere la religione legata alla ragione e la ragione alla religione. Ambedue le funzioni sono di essenziale importanza per l’umanità. Nel mio dialogo con Habermas ho mostrato che esistono patologie della religione e – non meno pericolose – patologie della ragione. Entrambe hanno bisogno l’una dell’altra, e tenerle continuamente connesse è un importante compito della teologia.

4. La fantascienza esiste, d’altronde, nell’ambito di molte scienze. Ciò che Lei espone sulle teorie circa l’inizio e la fine del mondo in Heisenberg, Schrödinger ecc., lo designerei come fantascienza nel senso buono: sono visioni ed anticipazioni, per giungere ad una vera conoscenza, ma sono, appunto, soltanto immaginazioni con cui cerchiamo di avvicinarci alla realtà. Esiste, del resto, la fantascienza in grande stile proprio anche all’interno della teoria dell’evoluzione. Il gene egoista di Richard Dawkins è un esempio classico di fantascienza. Il grande Jacques Monod ha scritto delle frasi che egli stesso avrà inserito nella sua opera sicuramente solo come fantascienza. Cito: “La comparsa dei Vertebrati tetrapodi… trae proprio origine dal fatto che un pesce primitivo “scelse” di andare ad esplorare la terra, sulla quale era però incapace di spostarsi se non saltellando in modo maldestro e creando così, come conseguenza di una modificazione di comportamento, la pressione selettiva grazie alla quale si sarebbero sviluppati gli arti robusti dei tetrapodi. Tra i discendenti di questo audace esploratore, di questo Magellano dell’evoluzione, alcuni possono correre a una velocità superiore ai 70 chilometri orari…” (citato secondo l’edizione italiana Il caso e la necessità, Milano 2001, pagg. 117 e sgg.).

In tutte le tematiche discusse finora si tratta di un dialogo serio, per il quale io – come ho già detto ripetutamente  –  sono grato. Le cose stanno diversamente nel capitolo sul sacerdote e sulla morale cattolica, e ancora diversamente nei capitoli su Gesù. Quanto a ciò che Lei dice dell’abuso morale di minorenni da parte di sacerdoti, posso  –  come Lei sa  –  prenderne atto solo con profonda costernazione. Mai ho cercato di mascherare queste cose. Che il potere del male penetri fino a tal punto nel mondo interiore della fede è per noi una sofferenza che, da una parte, dobbiamo sopportare, mentre, dall’altra, dobbiamo al tempo stesso, fare tutto il possibile affinché casi del genere non si ripetano. Non è neppure motivo di conforto sapere che, secondo le ricerche dei sociologi, la percentuale dei sacerdoti rei di questi crimini non è più alta di quella presente in altre categorie professionali assimilabili. In ogni caso, non si dovrebbe presentare ostentatamente questa deviazione come se si trattasse di un sudiciume specifico del cattolicesimo.

Se non è lecito tacere sul male nella Chiesa, non si deve però, tacere neppure della grande scia luminosa di bontà e di purezza, che la fede cristiana ha tracciato lungo i secoli. Bisogna ricordare le figure grandi e pure che la fede ha prodotto  –  da Benedetto di Norcia e sua sorella Scolastica, a Francesco e Chiara d’Assisi, a Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, ai grandi Santi della carità come Vincenzo dè Paoli e Camillo de Lellis fino a Madre Teresa di Calcutta e alle grandi e nobili figure della Torino dell’Ottocento. È vero anche oggi che la fede spinge molte persone all’amore disinteressato, al servizio per gli altri, alla sincerità e alla giustizia. (…)

Ciò che Lei dice sulla figura di Gesù non è degno del Suo rango scientifico. Se Lei pone la questione come se di Gesù, in fondo, non si sapesse niente e di Lui, come figura storica, nulla fosse accertabile, allora posso soltanto invitarLa in modo deciso a rendersi un po’ più competente da un punto di vista storico. Le raccomando per questo soprattutto i quattro volumi che Martin Hengel (esegeta dalla Facoltà teologica protestante di Tübingen) ha pubblicato insieme con Maria Schwemer: è un esempio eccellente di precisione storica e di amplissima informazione storica. Di fronte a questo, ciò che Lei dice su Gesù è un parlare avventato che non dovrebbe ripetere. Che nell’esegesi siano state scritte anche molte cose di scarsa serietà è, purtroppo, un fatto incontestabile. Il seminario americano su Gesù che Lei cita alle pagine 105 e sgg. conferma soltanto un’altra volta ciò che Albert Schweitzer aveva notato riguardo alla Leben-Jesu-Forschung (Ricerca sulla vita di Gesù) e cioè che il cosiddetto “Gesù storico” è per lo più lo specchio delle idee degli autori. Tali forme mal riuscite di lavoro storico, però, non compromettono affatto l’importanza della ricerca storica seria, che ci ha portato a conoscenze vere e sicure circa l’annuncio e la figura di Gesù.

(…) Inoltre devo respingere con forza la Sua affermazione (pag. 126) secondo cui avrei presentato l’esegesi storico-critica come uno strumento dell’anticristo. Trattando il racconto delle tentazioni di Gesù, ho soltanto ripreso la tesi di Soloviev, secondo cui l’esegesi storico-critica può essere usata anche dall’anticristo – il che è un fatto incontestabile. Al tempo stesso, però, sempre – e in particolare nella premessa al primo volume del mio libro su Gesù di Nazaret – ho chiarito in modo evidente che l’esegesi storico-critica è necessaria per una fede che non propone miti con immagini storiche, ma reclama una storicità vera e perciò deve presentare la realtà storica delle sue affermazioni anche in modo scientifico. Per questo non è neppure corretto che Lei dica che io mi sarei interessato solo della metastoria: tutt’al contrario, tutti i miei sforzi hanno l’obiettivo di mostrare che il Gesù descritto nei Vangeli è anche il reale Gesù storico; che si tratta di storia realmente avvenuta. (…)

Con il 19° capitolo del Suo libro torniamo agli aspetti positivi del Suo dialogo col mio pensiero. (…) Anche se la Sua interpretazione di Gv 1,1 è molto lontana da ciò che l’evangelista intendeva dire, esiste tuttavia una convergenza che è importante. Se Lei, però, vuole sostituire Dio con “La Natura”, resta la domanda, chi o che cosa sia questa natura. In nessun luogo Lei la definisce e appare quindi come una divinità irrazionale che non spiega nulla. Vorrei, però, soprattutto far ancora notare che nella Sua religione della matematica tre temi fondamentali dell’esistenza umana restano non considerati: la libertà, l’amore e il male. Mi meraviglio che Lei con un solo cenno liquidi la libertà che pur è stata ed è il valore portante dell’epoca moderna. L’amore, nel Suo libro, non compare e anche sul male non c’è alcuna informazione. Qualunque cosa la neurobiologia dica o non dica sulla libertà, nel dramma reale della nostra storia essa è presente come realtà determinante e deve essere presa in considerazione. Ma la Sua religione matematica non conosce alcuna informazione sul male. Una religione che tralascia queste domande fondamentali resta vuota.

Ill. mo Signor Professore, la mia critica al Suo libro in parte è dura. Ma del dialogo fa parte la franchezza; solo così può crescere la conoscenza. Lei è stato molto franco e così accetterà che anch’io lo sia. In ogni caso, però, valuto molto positivamente il fatto che Lei, attraverso il Suo confrontarsi con la mia Introduzione al cristianesimo, abbia cercato un dialogo così aperto con la fede della Chiesa cattolica e che, nonostante tutti i contrasti, nell’ambito centrale, non manchino del tutto le convergenze.

Con cordiali saluti e ogni buon auspicio per il Suo lavoro.

Benedetto XVI. Omelia Domenica delle Palme 28 marzo 2010

“Colui che viene nel nome del Signore porti sulla terra ciò che è nei cieli.”

Piazza San Pietro
XXV Giornata Mondiale della Gioventù
Domenica delle Palme, 28 marzo 2010

Pope Attends Palm Sunday Celebration

 

Cari fratelli e sorelle,
cari giovani!

Il Vangelo della benedizione delle palme, che abbiamo ascoltato qui riuniti in Piazza San Pietro, comincia con la frase: “Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme” (Lc 19,28). Subito all’inizio della liturgia di questo giorno, la Chiesa anticipa la sua risposta al Vangelo, dicendo: “Seguiamo il Signore”. Con ciò il tema della Domenica delle Palme è chiaramente espresso. È la sequela. Essere cristiani significa considerare la via di Gesù Cristo come la via giusta per l’essere uomini – come quella via che conduce alla meta, ad un’umanità pienamente realizzata e autentica. In modo particolare, vorrei ripetere a tutti i giovani e le giovani, in questa XXV Giornata Mondiale della Gioventù, che l’essere cristiani è un cammino, o meglio: un pellegrinaggio, un andare insieme con Gesù Cristo. Un andare in quella direzione che Egli ci ha indicato e ci indica.

Ma di quale direzione si tratta? Come la si trova? La frase del nostro Vangelo offre due indicazioni al riguardo. In primo luogo dice che si tratta di un’ascesa. Ciò ha innanzitutto un significato molto concreto. Gerico, dove ha avuto inizio l’ultima parte del pellegrinaggio di Gesù, si trova a 250 metri sotto il livello del mare, mentre Gerusalemme – la meta del cammino – sta a 740-780 metri sul livello del mare: un’ascesa di quasi mille metri. Ma questa via esteriore è soprattutto un’immagine del movimento interiore dell’esistenza, che si compie nella sequela di Cristo: è un’ascesa alla vera altezza dell’essere uomini. L’uomo può scegliere una via comoda e scansare ogni fatica. Può anche scendere verso il basso, il volgare. Può sprofondare nella palude della menzogna e della disonestà. Gesù cammina avanti a noi, e va verso l’alto. Egli ci conduce verso ciò che è grande, puro, ci conduce verso l’aria salubre delle altezze: verso la vita secondo verità; verso il coraggio che non si lascia intimidire dal chiacchiericcio delle opinioni dominanti; verso la pazienza che sopporta e sostiene l’altro. Egli conduce verso la disponibilità per i sofferenti, per gli abbandonati; verso la fedeltà che sta dalla parte dell’altro anche quando la situazione si rende difficile. Conduce verso la disponibilità a recare aiuto; verso la bontà che non si lascia disarmare neppure dall’ingratitudine. Egli ci conduce verso l’amore – ci conduce verso Dio.

“Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme”. Se leggiamo questa parola del Vangelo nel contesto della via di Gesù nel suo insieme – una via che, appunto, prosegue sino alla fine dei tempi – possiamo scoprire nell’indicazione della meta “Gerusalemme” diversi livelli. Naturalmente innanzitutto deve intendersi semplicemente il luogo “Gerusalemme”: è la città in cui si trovava il Tempio di Dio, la cui unicità doveva alludere all’unicità di Dio stesso. Questo luogo annuncia quindi anzitutto due cose: da un lato dice che Dio è uno solo in tutto il mondo, supera immensamente tutti i nostri luoghi e tempi; è quel Dio a cui appartiene l’intera creazione. È il Dio di cui tutti gli uomini nel più profondo sono alla ricerca e di cui in qualche modo tutti hanno anche conoscenza. Ma questo Dio si è dato un nome. Si è fatto conoscere a noi, ha avviato una storia con gli uomini; si è scelto un uomo – Abramo – come punto di partenza di questa storia. Il Dio infinito è al contempo il Dio vicino. Egli, che non può essere rinchiuso in alcun edificio, vuole tuttavia abitare in mezzo a noi, essere totalmente con noi.

Se Gesù insieme con l’Israele peregrinante sale verso Gerusalemme, Egli ci va per celebrare con Israele la Pasqua: il memoriale della liberazione di Israele – memoriale che, allo stesso tempo, è sempre speranza della libertà definitiva, che Dio donerà. E Gesù va verso questa festa nella consapevolezza di essere Egli stesso l’Agnello in cui si compirà ciò che il Libro dell’Esodo dice al riguardo: un agnello senza difetto, maschio, che al tramonto, davanti agli occhi dei figli d’Israele, viene immolato “come rito perenne” (cfr Es 12,5-6.14). E infine Gesù sa che la sua via andrà oltre: non avrà nella croce la sua fine. Sa che la sua via strapperà il velo tra questo mondo e il mondo di Dio; che Egli salirà fino al trono di Dio e riconcilierà Dio e l’uomo nel suo corpo. Sa che il suo corpo risorto sarà il nuovo sacrificio e il nuovo Tempio; che intorno a Lui, dalla schiera degli Angeli e dei Santi, si formerà la nuova Gerusalemme che è nel cielo e tuttavia è anche già sulla terra, perché nella sua passione Egli ha aperto il confine tra cielo e terra. La sua via conduce al di là della cima del monte del Tempio fino all’altezza di Dio stesso: è questa la grande ascesa alla quale Egli invita tutti noi. Egli rimane sempre presso di noi sulla terra ed è sempre già giunto presso Dio, Egli ci guida sulla terra e oltre la terra.

Così, nell’ampiezza dell’ascesa di Gesù diventano visibili le dimensioni della nostra sequela – la meta alla quale Egli vuole condurci: fino alle altezze di Dio, alla comunione con Dio, all’essere-con-Dio. È questa la vera meta, e la comunione con Lui è la via. La comunione con Lui è un essere in cammino, una permanente ascesa verso la vera altezza della nostra chiamata. Il camminare insieme con Gesù è al contempo sempre un camminare nel «noi» di coloro che vogliono seguire Lui. Ci introduce in questa comunità. Poiché il cammino fino alla vita vera, fino ad un essere uomini conformi al modello del Figlio di Dio Gesù Cristo supera le nostre proprie forze, questo camminare è sempre anche un essere portati. Ci troviamo, per così dire, in una cordata con Gesù Cristo – insieme con Lui nella salita verso le altezze di Dio. Egli ci tira e ci sostiene. Fa parte della sequela di Cristo che ci lasciamo integrare in tale cordata; che accettiamo di non potercela fare da soli. Fa parte di essa questo atto di umiltà, l’entrare nel «noi» della Chiesa; l’aggrapparsi alla cordata, la responsabilità della comunione – il non strappare la corda con la caparbietà e la saccenteria. L’umile credere con la Chiesa, come essere saldati nella cordata dell’ascesa verso Dio, è una condizione essenziale della sequela. Di questo essere nell’insieme della cordata fa parte anche il non comportarsi da padroni della Parola di Dio, il non correre dietro un’idea sbagliata di emancipazione. L’umiltà dell’«essere-con» è essenziale per l’ascesa. Fa anche parte di essa che nei Sacramenti ci lasciamo sempre di nuovo prendere per mano dal Signore; che da Lui ci lasciamo purificare e corroborare; che accettiamo la disciplina dell’ascesa, anche se siamo stanchi.

Infine, dobbiamo ancora dire: dell’ascesa verso l’altezza di Gesù Cristo, dell’ascesa fino all’altezza di Dio stesso fa parte la Croce. Come nelle vicende di questo mondo non si possono raggiungere grandi risultati senza rinuncia e duro esercizio, come la gioia per una grande scoperta conoscitiva o per una vera capacità operativa è legata alla disciplina, anzi, alla fatica dell’apprendimento, così la via verso la vita stessa, verso la realizzazione della propria umanità è legata alla comunione con Colui che è salito all’altezza di Dio attraverso la Croce. In ultima analisi, la Croce è espressione di ciò che l’amore significa: solo chi perde se stesso, si trova.

Riassumiamo: la sequela di Cristo richiede come primo passo il risvegliarsi della nostalgia per l’autentico essere uomini e così il risvegliarsi per Dio. Richiede poi che si entri nella cordata di quanti salgono, nella comunione della Chiesa. Nel «noi» della Chiesa entriamo in comunione col «Tu» di Gesù Cristo e raggiungiamo così la via verso Dio. È richiesto inoltre che si ascolti la Parola di Gesù Cristo e la si viva: in fede, speranza e amore. Così siamo in cammino verso la Gerusalemme definitiva e già fin d’ora, in qualche modo, ci troviamo là, nella comunione di tutti i Santi di Dio.

Il nostro pellegrinaggio alla sequela di Cristo non va verso una città terrena, ma verso la nuova Città di Dio che cresce in mezzo a questo mondo. Il pellegrinaggio verso la Gerusalemme terrestre, tuttavia, può essere proprio anche per noi cristiani un elemento utile per tale viaggio più grande. Io stesso ho collegato al mio pellegrinaggio in Terra Santa dello scorso anno tre significati. Anzitutto avevo pensato che a noi può capitare in tale occasione ciò che san Giovanni dice all’inizio della sua Prima Lettera: quello che abbiamo udito, lo possiamo, in certo qual modo, vedere e toccare con le nostre mani (cfr 1Gv 1,1). La fede in Gesù Cristo non è un’invenzione leggendaria. Essa si fonda su di una storia veramente accaduta. Questa storia noi la possiamo, per così dire, contemplare e toccare. È commovente trovarsi a Nazaret nel luogo dove l’Angelo apparve a Maria e le trasmise il compito di diventare la Madre del Redentore. È commovente essere a Betlemme nel luogo dove il Verbo, fattosi carne, è venuto ad abitare fra noi; mettere il piede sul terreno santo in cui Dio ha voluto farsi uomo e bambino. È commovente salire la scala verso il Calvario fino al luogo in cui Gesù è morto per noi sulla Croce. E stare infine davanti al sepolcro vuoto; pregare là dove la sua santa salma riposò e dove il terzo giorno avvenne la risurrezione. Seguire le vie esteriori di Gesù deve aiutarci a camminare più gioiosamente e con una nuova certezza sulla via interiore che Egli ci ha indicato e che è Lui stesso.

Quando andiamo in Terra Santa come pellegrini, vi andiamo però anche – e questo è il secondo aspetto – come messaggeri della pace, con la preghiera per la pace; con l’invito forte a tutti di fare in quel luogo, che porta nel nome la parola “pace”, tutto il possibile affinché esso diventi veramente un luogo di pace. Così questo pellegrinaggio è al tempo stesso – come terzo aspetto – un incoraggiamento per i cristiani a rimanere nel Paese delle loro origini e ad impegnarsi intensamente in esso per la pace.

Torniamo ancora una volta alla liturgia della Domenica delle Palme. Nell’orazione con cui vengono benedetti i rami di palma noi preghiamo affinché nella comunione con Cristo possiamo portare il frutto di buone opere. Da un’interpretazione sbagliata di san Paolo, si è sviluppata ripetutamente, nel corso della storia e anche oggi, l’opinione che le buone opere non farebbero parte dell’essere cristiani, in ogni caso sarebbero insignificanti per la salvezza dell’uomo. Ma se Paolo dice che le opere non possono giustificare l’uomo, con ciò non si oppone all’importanza dell’agire retto e, se egli parla della fine della Legge, non dichiara superati ed irrilevanti i Dieci Comandamenti. Non c’è bisogno ora di riflettere sull’intera ampiezza della questione che interessava l’Apostolo. Importante è rilevare che con il termine “Legge” egli non intende i Dieci Comandamenti, ma il complesso stile di vita mediante il quale Israele si doveva proteggere contro le tentazioni del paganesimo. Ora, però, Cristo ha portato Dio ai pagani. A loro non viene imposta tale forma di distinzione. A loro viene dato come Legge unicamente Cristo. Ma questo significa l’amore per Dio e per il prossimo e tutto ciò che ne fa parte. Fanno parte di quest’amore i Comandamenti letti in modo nuovo e più profondo a partire da Cristo, quei Comandamenti che non sono altro che le regole fondamentali del vero amore: anzitutto e come principio fondamentale l’adorazione di Dio, il primato di Dio, che i primi tre Comandamenti esprimono. Essi ci dicono: senza Dio nulla riesce in modo giusto. Chi sia tale Dio e come Egli sia, lo sappiamo a partire dalla persona di Gesù Cristo. Seguono poi la santità della famiglia (quarto Comandamento), la santità della vita (quinto Comandamento), l’ordinamento del matrimonio (sesto Comandamento), l’ordinamento sociale (settimo Comandamento) e infine l’inviolabilità della verità (ottavo Comandamento). Tutto ciò è oggi di massima attualità e proprio anche nel senso di san Paolo – se leggiamo interamente le sue Lettere. “Portare frutto con le buone opere”: all’inizio della Settimana Santa preghiamo il Signore di donare a tutti noi sempre di più questo frutto.

Alla fine del Vangelo per la benedizione delle palme udiamo l’acclamazione con cui i pellegrini salutano Gesù alle porte di Gerusalemme. È la parola dal Salmo 118 (117), che originariamente i sacerdoti proclamavano dalla Città Santa ai pellegrini, ma che, nel frattempo, era diventata espressione della speranza messianica: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore” (Sal 118[117],26; Lc 19,38). I pellegrini vedono in Gesù l’Atteso, che viene nel nome del Signore, anzi, secondo il Vangelo di san Luca, inseriscono ancora una parola: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore”. E proseguono con un’acclamazione che ricorda il messaggio degli Angeli a Natale, ma lo modifica in una maniera che fa riflettere. Gli Angeli avevano parlato della gloria di Dio nel più alto dei cieli e della pace in terra per gli uomini della benevolenza divina. I pellegrini all’ingresso della Città Santa dicono: “Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!”. Sanno troppo bene che in terra non c’è pace. E sanno che il luogo della pace è il cielo – sanno che fa parte dell’essenza del cielo di essere luogo di pace. Così questa acclamazione è espressione di una profonda pena e, insieme, è preghiera di speranza: Colui che viene nel nome del Signore porti sulla terra ciò che è nei cieli. La sua regalità diventi la regalità di Dio, presenza del cielo sulla terra. La Chiesa, prima della consacrazione eucaristica, canta la parola del Salmo con cui Gesù venne salutato prima del suo ingresso nella Città Santa: essa saluta Gesù come il Re che, venendo da Dio, nel nome di Dio entra in mezzo a noi. Anche oggi questo saluto gioioso è sempre supplica e speranza. Preghiamo il Signore affinché porti a noi il cielo: la gloria di Dio e la pace degli uomini. Intendiamo tale saluto nello spirito della domanda del Padre Nostro: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra!”. Sappiamo che il cielo è cielo, luogo della gloria e della pace, perché lì regna totalmente la volontà di Dio. E sappiamo che la terra non è cielo fin quando in essa non si realizza la volontà di Dio. Salutiamo quindi Gesù che viene dal cielo e lo preghiamo di aiutarci a conoscere e a fare la volontà di Dio. Che la regalità di Dio entri nel mondo e così esso sia colmato con lo splendore della pace. Amen.

Benedetto XVI. I video dello storico, inatteso e umile gesto di rinuncia al pontificato

(Se i video non caricano o visualizzate un video diverso, ricaricate la pagina)

 

Ascolta il discorso integrale del pontefice in latino. Clicca qui:

 

Testo del discorso in italiano:

“Carissimi Fratelli, vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20.00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice. Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio”. (Benedetto XVI, 11 feb 2013)

 

L’ultimo saluto del pontificato all’Angelus di domenica 24 febbraio 2013

 

 

L’ultima udienza del pontificato in Piazza San Pietro il 27 febbraio 2013

 

 

Benedetto XVI lascia per l’ultima volta il Vaticano da pontefice

 

 

Ultimo saluto da pontefice di Benedetto XVI a Castel Gandolfo

 

 

Chiusura del Portone di Castel Gandolfo e fine del pontificato

 

 

Chiusura del Portone di Castel Gandolfo e fine del pontificato (dall’esterno)

Benedetto XVI. La riflessione nell’ultima udienza da Pontefice

BXVI_ULTIMA UDIENZA_2013_02_27_11

Benedetto XVI saluta la folla per l’ultima volta mentre lascia Piazza San Pietro, dopo l’Udienza generale

* * *

…Sono veramente commosso! E vedo la Chiesa viva!

…Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio…

…Dio ci ama…

…ho voluto bene a tutti e a ciascuno, senza distinzioni…

ricevo anche moltissime lettere da persone semplici che mi scrivono semplicemente dal loro cuore… Mi scrivono come fratelli e sorelle o come figli e figlie, con il senso di un legame familiare molto affettuoso. Qui si può toccare con mano che cosa sia Chiesa – non un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari…

…ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa…

…Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi…

…La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo.  Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso…

…Dio guida la sua Chiesa, la sorregge sempre anche e soprattutto nei momenti difficili. Non perdiamo mai questa visione di fede… Nel nostro cuore, nel cuore di ciascuno di voi, ci sia sempre la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto, non ci abbandona, ci è vicino e ci avvolge con il suo amore…

* * *

L’Udienza Generale del 27 febbraio 2013, l’ultima del Pontificato del Santo Padre Benedetto XVI, si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro.
Erano presenti Cardinali e Vescovi, la Curia Romana, il Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, i sacerdoti, parroci e seminaristi della diocesi di Roma, i dipendenti vaticani, pellegrini e fedeli provenienti da Roma, dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Il Papa ha tenuto la catechesi in lingua italiana, e, dopo averla riassunta in diverse lingue, ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato!
Distinte Autorità!
Cari fratelli e sorelle!

Vi ringrazio di essere venuti così numerosi a questa mia ultima Udienza generale.

Grazie di cuore! Sono veramente commosso! E vedo la Chiesa viva! E penso che dobbiamo anche dire un grazie al Creatore per il tempo bello che ci dona adesso ancora nell’inverno.

Come l’apostolo Paolo nel testo biblico che abbiamo ascoltato, anch’io sento nel mio cuore di dover soprattutto ringraziare Dio, che guida e fa crescere la Chiesa, che semina la sua Parola e così alimenta la fede nel suo Popolo. In questo momento il mio animo si allarga ed abbraccia tutta la Chiesa sparsa nel mondo; e rendo grazie a Dio per le «notizie» che in questi anni del ministero petrino ho potuto ricevere circa la fede nel Signore Gesù Cristo, e della carità che circola realmente nel Corpo della Chiesa e lo fa vivere nell’amore, e della speranza che ci apre e ci orienta verso la vita in pienezza, verso la patria del Cielo.

Sento di portare tutti nella preghiera, in un presente che è quello di Dio, dove raccolgo ogni incontro, ogni viaggio, ogni visita pastorale. Tutto e tutti raccolgo nella preghiera per affidarli al Signore: perché abbiamo piena conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, e perché possiamo comportarci in maniera degna di Lui, del suo amore, portando frutto in ogni opera buona (cfr Col 1,9-10).

In questo momento, c’è in me una grande fiducia, perché so, sappiamo tutti noi, che la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita. Il Vangelo purifica e rinnova, porta frutto, dovunque la comunità dei credenti lo ascolta e accoglie la grazia di Dio nella verità e nella carità. Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia.

Quando, il 19 aprile di quasi otto anni fa, ho accettato di assumere il ministero petrino, ho avuto la ferma certezza che mi ha sempre accompagnato: questa certezza della vita della Chiesa dalla Parola di Dio. In quel momento, come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, perché mi chiedi questo e che cosa mi chiedi? E’ un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai, anche con tutte le mie debolezze. E otto anni dopo posso dire che il Signore mi ha guidato, mi è stato vicino, ho potuto percepire quotidianamente la sua presenza.

E’ stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi il mio cuore è colmo di ringraziamento a Dio perché non ha fatto mai mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce, il suo amore.

Siamo nell’Anno della fede, che ho voluto per rafforzare proprio la nostra fede in Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano. Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano. In una bella preghiera da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: «Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano…». Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più prezioso, che nessuno ci può togliere! Ringraziamo il Signore di questo ogni giorno, con la preghiera e con una vita cristiana coerente. Dio ci ama, ma attende che anche noi lo amiamo!

Ma non è solamente Dio che voglio ringraziare in questo momento. Un Papa non è solo nella guida della barca di Pietro, anche se è la sua prima responsabilità Io non mi sono mai sentito solo nel portare la gioia e il peso del ministero petrino; il Signore mi ha messo accanto tante persone che, con generosità e amore a Dio e alla Chiesa, mi hanno aiutato e mi sono state vicine. Anzitutto voi, cari Fratelli Cardinali: la vostra saggezza, i vostri consigli, la vostra amicizia sono stati per me preziosi; i miei Collaboratori, ad iniziare dal mio Segretario di Stato che mi ha accompagnato con fedeltà in questi anni; la Segreteria di Stato e l’intera Curia Romana, come pure tutti coloro che, nei vari settori, prestano il loro servizio alla Santa Sede: sono tanti volti che non emergono, rimangono nell’ombra, ma proprio nel silenzio, nella dedizione quotidiana, con spirito di fede e umiltà sono stati per me un sostegno sicuro e affidabile. Un pensiero speciale alla Chiesa di Roma, la mia Diocesi! Non posso dimenticare i Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, le persone consacrate e l’intero Popolo di Dio: nelle visite pastorali, negli incontri, nelle udienze, nei viaggi, ho sempre percepito grande attenzione e profondo affetto; ma anch’io ho voluto bene a tutti e a ciascuno, senza distinzioni, con quella carità pastorale che è il cuore di ogni Pastore, soprattutto del Vescovo di Roma, del Successore dell’Apostolo Pietro. Ogni giorno ho portato ciascuno di voi nella preghiera, con il cuore di padre.

Vorrei che il mio saluto e il mio ringraziamento giungesse poi a tutti: il cuore di un Papa si allarga al mondo intero. E vorrei esprimere la mia gratitudine al Corpo diplomatico presso la Santa Sede, che rende presente la grande famiglia delle Nazioni. Qui penso anche a tutti coloro che lavorano per una buona comunicazione e che ringrazio per il loro importante servizio.

A questo punto vorrei ringraziare di vero cuore anche tutte le numerose persone in tutto il mondo, che nelle ultime settimane mi hanno inviato segni commoventi di attenzione, di amicizia e di preghiera. Sì, il Papa non è mai solo, ora lo sperimento ancora una volta in un modo così grande che tocca il cuore. Il Papa appartiene a tutti e tantissime persone si sentono molto vicine a lui. E’ vero che ricevo lettere dai grandi del mondo – dai Capi di Stato, dai Capi religiosi, dai rappresentanti del mondo della cultura eccetera. Ma ricevo anche moltissime lettere da persone semplici che mi scrivono semplicemente dal loro cuore e mi fanno sentire il loro affetto, che nasce dall’essere insieme con Cristo Gesù, nella Chiesa. Queste persone non mi scrivono come si scrive ad esempio ad un principe o ad un grande che non si conosce. 

Mi scrivono come fratelli e sorelle o come figli e figlie, con il senso di un legame familiare molto affettuoso. Qui si può toccare con mano che cosa sia Chiesa – non un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti. Sperimentare la Chiesa in questo modo e poter quasi toccare con le mani la forza della sua verità e del suo amore, è motivo di gioia, in un tempo in cui tanti parlano del suo declino. Ma vediamo come la Chiesa è viva oggi!

In questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa. Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi.

Qui permettetemi di tornare ancora una volta al 19 aprile 2005. La gravità della decisione è stata proprio anche nel fatto che da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore. Sempre – chi assume il ministero petrino non ha più alcuna privacy. Appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata. Ho potuto sperimentare, e lo sperimento precisamente ora, che uno riceve la vita proprio quando la dona. Prima ho detto che molte persone che amano il Signore amano anche il Successore di san Pietro e sono affezionate a lui; che il Papa ha veramente fratelli e sorelle, figli e figlie in tutto il mondo, e che si sente al sicuro nell’abbraccio della vostra comunione; perché non appartiene più a se stesso, appartiene a tutti e tutti appartengono a lui.

Il “sempre” è anche un “per sempre” – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio.

Ringrazio tutti e ciascuno anche per il rispetto e la comprensione con cui avete accolto questa decisione così importante. Io continuerò ad accompagnare il cammino della Chiesa con la preghiera e la riflessione, con quella dedizione al Signore e alla sua Sposa che ho cercato di vivere fino ad ora ogni giorno e che orrei vivere sempre. Vi chiedo di ricordarmi davanti a Dio, e soprattutto di pregare per i Cardinali, chiamati ad un compito così rilevante, e per il nuovo Successore dell’Apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito.

Invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria Madre di Dio e della Chiesa perché accompagni ciascuno di noi e l’intera comunità ecclesiale; a Lei ci affidiamo, con profonda fiducia.

Cari amici! Dio guida la sua Chiesa, la sorregge sempre anche e soprattutto nei momenti difficili. Non perdiamo mai questa visione di fede, che è l’unica vera visione del cammino della Chiesa e del mondo. Nel nostro cuore, nel cuore di ciascuno di voi, ci sia sempre la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto, non ci abbandona, ci è vicino e ci avvolge con il suo amore. Grazie!

© Copyright 2013 – Libreria Editrice Vaticana

La scelta di Benedetto XVI è per la missione della Chiesa e la verità del mondo

di Bernardo Cervellera

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Nel suo essere liberamente “espropriato” del titolo, il papa compie un gesto di passione missionaria per l’annuncio. La sua decisione per la clausura e la contemplazione mostra la vera radice dell’efficacia di ogni azione cristiana. Quasi tutti i media non percepiscono questa dimensione divino-umana del suo gesto e riducono lo spessore della sua testimonianza a banalità politiche o a svelamenti di trame segrete. Eppure vi è un enorme interesse verso di lui, segno di una segreta speranza.
Pope Benedict XVI in Val d'Aosta

Roma (AsiaNews) – A quattro giorni dall’annuncio che ha scioccato la Chiesa e il mondo, le dimissioni di Benedetto XVI, non si placa l’interesse dei cristiani e dei media internazionali, anche se con risultati diversi.

Fra i fedeli, vescovi e laici, è sempre più evidente che la decisione del papa di riconsegnare il ministero petrino a Cristo e alla Chiesa è un gesto di amore verso entrambi. Esso è dettato non da un desiderio di “abdicare”, di “farsi alla fine gli affari suoi”, ma dalla passione a che la missione della Chiesa abbia ancora più forza. Le sue considerazioni sulla mancanza di vigore che egli scopre nel suo corpo ultra-ottuagenario non sono un semplice riconoscimento di impedimento per “raggiunti limiti d’età”. Come lui stesso ha dichiarato, la sua scelta è spinta dal bisogno di “annunciare il Vangelo”  “nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede”. Nella decisione di dimettersi c’è perciò una acuta passione missionaria perché la Chiesa possa trovare nuove vie, nuovi volti e nuove energie da dedicare all’opera che lo ha assorbito per tutta la vita: quella di rendere Cristo vicino all’uomo e soprattutto all’uomo che non lo conosce o lo disprezza.

I teologi spiegano che Cristo si è “espropriato” del suo titolo divino per divenire uomo, fino a morire in croce (Filippesi 2, 6-11); i missionari, soprattutto quelli che vanno in Paesi lontani, vengono “espropriati” della loro cultura per penetrare nelle fibre di altre culture e farsi vicini ad altri popoli. Benedetto XVI in questo slancio per l’annuncio della fede al mondo, si è “espropriato” anche del suo titolo di papa.

In questa nudità della propria offerta a Cristo e alla Chiesa egli continuerà a operare per la missione, ma in una via tutta speciale, che è quella della contemplazione.  Nell’annuncio della sua decisione ai cardinali, egli ha detto: “Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando”. Il soffrire del suo corpo debilitato e la preghiera nella clausura in cui sta per entrare saranno efficaci per la Chiesa quanto la sua parola, i suoi viaggi, le sue pubblicazioni, la sua testimonianza attiva.

In questo passo egli è maestro a tutti i cristiani, preti, vescovi, cardinali, che considerano “indispensabile” il loro ruolo attivo in qualche commissione, lavoro, organizzazione. Benedetto XVI ci sta dicendo con la sua scelta che l’efficacia della vita sta invece nella consegna a Cristo, vera garanzia della fecondità. Lui stesso, in tante omelie e discorsi ha ricordato la fecondità della Piccola Teresa, la carmelitana di clausura che è divenuta patrona delle missioni: una contemplativa, modello dell’attività più acuta e più universale dei cristiani.

Con la sua scelta presa “davanti a Dio” Benedetto XVI è ancora di più “pontefice”, ponte fra Dio e l’uomo. In questo suo passo così estremo e coraggioso veniamo persuasi di più su quanto Cristo sia presente nella vita di uomo, capace di trasformare la debolezza della vecchiaia – tanto rifuggita e nascosta nel nostro tempo – in un sacramento dell’amore a Dio, a sé e al mondo.

Forse è proprio questo carattere della sua scelta così vicino al divino a rendere diversi media così superficiali e ottusi. Senza una sensibilità a questa dimensione verticale, umano-divina, la scelta del papa è solo un altro capitolo di un uomo che va in pensione, il frutto dello sfinimento per battaglie combattute fra partiti nella Chiesa, la mossa scaltra e astuta per “condizionare” elezioni nella Chiesa e nel mondo. Questo mondo non riesce a capacitarsi che si può fare questa scelta per un amore più grande (“Simone, mi ami tu più di costoro?” – Giov. 21, 15) e per questo deve ridurre alle sue corte misure, al pragmatismo degli interessi meschini, al politicantismo che ci riempie di soddisfazione e di disperazione. L’accanimento dei media a cercare secondi motivi, svelare trame nascoste, additare “evidenti” fallimenti è il tentativo disperato di allontanare, banalizzare, cancellare quel Cristo che il gesto del papa ci ha reso ancora una volta così vicino e amorevole.

Ma forse in questo tentativo iconoclasta di inghiottire nel solito fango la perla della sua testimonianza, c’è anche una segreta speranza: che nel materialismo, nel relativismo e nella presunzione ideologica che ci ha inariditi, la verità possa esistere: “E tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace/ un’onta, forse, un po’ come si tace una speranza ineffabile”.

(R.M. Rilke, Elegie duinesi, II).

Del resto, anche il papa che viene deriso e compianto per i suoi fallimenti è simile, molto simile a Gesù Cristo, che vinceva l’odio del mondo mentre veniva inchiodato alla croce.

Lettera a benedetto XVI, in occasione dell’annuncio della sua rinuncia

SULLE DIMISSIONI DI SUA SANTITA’, BENEDETTO XVI. IL SIGNIFICATO PROFONDAMENTE CRISTIANO DEL SUO GESTO.

Molte persone mi stanno scrivendo, in questi giorni, per capire di più sulle dimissioni del Papa e trovare un senso in un gesto a cui nessuno era preparato. Siamo rimasti tutti scossi e smarriti. Avevamo un’altra idea del pontificato. Una idea che affonda le sue radici nel nostro inconscio, dove molte cose si confondono e acquistano mille significati, non sempre coerenti con la realtà.

Eravamo abituati, credo, inconsciamente, all’idea di un Papa super-eroe, uno che supplisce da solo, per il ruolo che occupa, alla debolezza di tutti; uno che porta, da solo, sulle sue spalle, il peso di tutti. Sempre inconsciamente, i meccanismi sottili per i quali noi tendiamo ad auto-assolvere le nostre fragilità, ci portano ad essere degli esattori duri verso coloro sui quali proiettiamo il nostro bisogno di potenza.

E così, nel nostro immaginario, nasceva l’idea di un Papa che deve essere infallibile (non nel senso vero del termine, secondo la dottrina della Chiesa!!!). Un papa infallibile perché, se a noi è concesso essere fragili, a lui no. Il papa deve essere infallibile, nel senso di potente: non può invecchiare, non può ammalarsi, non può “venire meno”.

Molti non riescono a comprendere. Credo che nessuno di noi abbia compreso, al momento dell’annuncio. Forse in tutti i cuori dei credenti si è affacciato un sentimento simile a quello dei figli che sperimentano l’abbandono… Per chi ama il papa come un padre – o forse più – è un sentimento fin troppo naturale. E tuttavia è proprio l’insegnamento fondamentale di Benedetto XVI che ci offre la chiave per comprendere il suo gesto. Non è solo con l’intelletto ma nella fede che si potrà comprendere il significato del suo gesto.

Proprio lui ci ha insegnato, rassegnando le dimissioni, che la Chiesa non è del Papa, ma di Cristo. E’ Lui… solo Lui… il Pastore supremo e universale del gregge di Dio. Forse pochi gesti come questo hanno il potere di restituire, nella Chiesa, il primato assoluto di Cristo, da cui la Chiesa nasce e in cui essa sussiste. Nulla ci appartiene… Nulla ci è dovuto … Tutto è dato… Noi siamo di Cristo! Il ministero di Pietro è a servizio del primato assoluto di Cristo, vero capo della Chiesa.

Il papa ha dato una motivazione profondamente evangelica – e spirituale – alle sue dimissioni: il mondo di oggi è entrato in una fase della sua storia caratterizzato dalla velocità sempre crescente dei cambiamenti, da sfide sempre nuove e più grandi alla fede e all’uomo, perfino alla sua sopravvivenza, e da tensioni che si radicalizzano man mano che si velocizzano i processi di cambiamento. La Chiesa, per poter affrontare queste sfide, ha bisogno di una guida spirituale che abbia le energie – fisiche e psichiche – adatte a reggere al peso delle grandi responsabilità che la propria funzione comporta. Il mondo sta cambiando… la Chiesa sta cambiando sotto la guida dello Spirito. Chi non ha uno sguardo di fede difficilmente potrà comprendere le ragioni profonde… perché rimane ancorato a una interpretazione solo “politica” di questo evento, oppure legata esclusivamente a delle proiezioni delle proprie aspettative su ciò che la figura del papa rappresenta nella sua coscienza.

Rinunciare al pontificato, da parte di Benedetto XVI, è stato un atto profondamente radicato nelle prerogative del ministero petrino. Pietro ha il compito di salvaguardare e promuovere il bene della Chiesa, e cioè del gregge di Cristo, al di sopra di ogni altra cosa. Rinunciare proprio in nome di questo bene, quando, cioè, egli vede in pericolo questo bene, rappresenta il gesto più coerente con quello che è lo spirito del ministero del successore degli apostoli. Il bene della Chiesa al di sopra di tutto.

EC

 

* * *

 

La lettera di Alessandro D’Avenia indirizzata a Benedetto XVI, apparsa sul quotidiano Avvenire del 13 febbraio 2013.

Caro Papa, manca un accento all’ultima lettera di que­sto tuo nome, Papa, e verrebbe fuori un’altra pa­rola. La parola che ogni figlio pronuncia migliaia di volte nella vita e che un figlio di Dio ha la for­tuna di pronunciare molte più volte perché, al­la fine, la vita cristiana è imparare a dire abbà, papà, a Dio.

Alla notizia della tua rinuncia ho avuto paura. Ho provato lo stesso dolore per la morte di Gio­vanni Paolo II: allora avevo 28 anni e mi sentii orfano, piansi come chi ha perso un padre.

Lunedì mi è successo lo stesso. Mi sono sentito orfano. Tu avevi deciso di non essere più Papa. Un altro padre mi veniva meno. È il dolore di un figlio che ha ricevuto moltissimo. Ho seguito il tuo pontificato sin dal momento in cui ti sei af­facciato per la prima volta dal balcone (abitavo a Roma allora). Ho letto i tuoi scritti, mi sono nu­trito delle tue parole sempre profonde e stra­namente semplici per un professore di teolo­gia, perché fondate sul rapporto vero con Dio (quanto gelo nelle parole di alcuni pastori che capita di ascoltare…).

In questi anni in cui la fede è spesso messa alla prova, dileggiata, fraintesa, tu hai fatto da para­fulmine a molte critiche. Le hai prese tutte su di te. Non te ne importava niente di essere colpi­to. Sono beati quelli che vengono colpiti a cau­sa di Cristo e chissà quanta della sporcizia che c’è nella Chiesa è stata gettata su di te per il fat­to di essere quel padre di famiglia che è il Papa. Tu hai sempre dimostrato e chissà con quanto dolore, dal discorso di Ratisbona a quello sul matrimonio, che l’unico consenso che ti inte­ressa è quello di tuo Padre Dio, cioè della verità, del logos.

Per questo ho avuto paura quando hai annunciato la tua rinuncia. Sul momento mi è sembrato un tirarsi indietro. Se ti tiri indietro anche tu, che sei il Papa, che fine facciamo noi? Ho ripensato a una tua frase che mi porto nel cuore: «Fedeltà è il nome che ha l’amore nel tempo». Me la ricordo tutte le volte che il mio e l’altrui amore è messo alla prova e devo ag­grapparmi con tutte le forze all’Amore che muove tutti gli altri amori, oltre che il sole e le altre stelle. In questi anni la mia fede si è raffor­zata grazie a quel logos cortese, fermo e caldo che tu sai infondere alle parole che usi, come (tanto per fare un esempio) queste che ho let­to qualche giorno fa: «Dio, con la sua verità, si oppone alla molteplice menzogna dell’uomo, al suo egoismo e alla sua superbia. Dio è amo­re. Ma l’amore può anche essere odiato, laddove esige che si esca da se stessi per andare al di là di se stessi. L’amore non è un romantico sen­so di benessere. Redenzione non è wellness, un bagno nell’autocompiacimento, bensì una li­berazione dall’essere compressi nel proprio io. Questa liberazione ha come costo la sofferen­za della Croce». Ripensando alla tua frase, leggendo queste pa­role, le tue ‘dimissioni’ mi sembravano in­comprensibili e mi hanno gettato nello sgo­mento.

Mi sono sentito solo. A che serve difen­dere la propria fede se poi anche il Papa si tira indietro. Poi a poco a poco l’emotività ha la­sciato lo spazio al logos appunto, alla verità, a Cristo, e una grande pace è tornata nel cuore. Dovevo andare oltre il codice di interpretazio­ne soggettivo, emotivo, mondano. Rinunciare rappresenta un fallimento per il mondo, è un gesto di debolezza per il mondo, nel quale si ‘è’ solo se ci si afferma, a ogni costo. La logica del­la debolezza non è del mondo. Del mondo è la logica del potere e dell’egoismo. Per questo il tuo gesto è un gesto di libertà dall’io e non di fu­ga da Dio, nel quale ti vuoi rifugiare del tutto per continuare a sostenere la Chiesa più e meglio.

Con questo gesto fai trionfare una logica diver­sa, un logos diverso. Quello di chi sa che la sua preghiera silenziosa vale tanto quanto la sua a­zione, e lascia quest’ultima a chi può meglio di lui portarla avanti. Doveva suonare allo stesso modo, fastidiosa e inspiegabile, la frase di Cri­sto ai suoi: «È bene che io me ne vada perché venga a voi un altro consolatore».

Anche Cristo sembra tirarsi indietro, ma così vince: lascia lo spazio alla potenza dello Spirito, non si lascia legare neanche dalla sua condizione umana, dà tutto, anche quella, si espropria di tutto se stesso, perché come tu hai spiegato nel tuo libro più bello ‘essere cristiani’ è ‘essere per’. Egli pone nelle mani dei suoi il compito di continuare le sue opere e afferma che ne faranno anche di più grandi delle sue. Ti ringrazio, caro Papa, per tutto il logos che ci hai donato e ci donerai sino al 28 febbraio, da Papa, ma anche per il logos che ci donerai dopo, nel silenzio che il mondo già chiama sconfitta, sotterfugio, fuga, e che è invece vittoria. Non mi sento più solo, perché ancora una volta mi hai aiutato a guardare all’unica cosa che conta, l’unica di cui c’è bisogno, il Logos stesso. Una sola cosa ti chiedo. Non dare le dimissioni dalla scrittura. Continua a nutrire la nostra fede con il tuo logos. Non farlo sarebbe dare le dimissioni da un talento e il Vangelo parla chiaro in merito… Con affetto

Alessandro D’Avenia

 

Il vero potente si riconosce nell’esercizio della mitezza e della misericordia (Benedetto XVI)

 

Udienza Generale di Sua Santità Benedetto XVI nell’Aula Paolo VI del 30 gennaio 2013

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Cari fratelli e sorelle,

nella catechesi di mercoledì scorso ci siamo soffermati sulle parole iniziali del Credo: “Io credo in Dio”. Ma la professione di fede specifica questa affermazione: Dio è il Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra. Vorrei dunque riflettere ora con voi sulla prima, fondamentale definizione di Dio che il Credo ci presenta: Egli è Padre.

Non è sempre facile oggi parlare di paternità. Soprattutto nel mondo occidentale, le famiglie disgregate, gli impegni di lavoro sempre più assorbenti, le preoccupazioni e spesso la fatica di far quadrare i bilanci familiari, l’invasione distraente dei mass media all’interno del vivere quotidiano sono alcuni tra i molti fattori che possono impedire un sereno e costruttivo rapporto tra padri e figli.

La comunicazione si fa a volte difficile, la fiducia viene meno e il rapporto con la figura paterna può diventare problematico; e problematico diventa così anche immaginare Dio come un padre, non avendo modelli adeguati di riferimento. Per chi ha fatto esperienza di un padre troppo autoritario ed inflessibile, o indifferente e poco affettuoso, o addirittura assente, non è facile pensare con serenità a Dio come Padre e abbandonarsi a Lui con fiducia.

Ma la rivelazione biblica aiuta a superare queste difficoltà parlandoci di un Dio che ci mostra che cosa significhi veramente essere “padre”; ed è soprattutto il Vangelo che ci rivela questo volto di Dio come Padre che ama fino al dono del proprio Figlio per la salvezza dell’umanità. Il riferimento alla figura paterna aiuta dunque a comprendere qualcosa dell’amore di Dio che però rimane infinitamente più grande, più fedele, più totale di quello di qualsiasi uomo.

«Chi di voi, – dice Gesù per mostrare ai discepoli il volto del Padre – al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono» (Mt 7,9-11; cfr Lc 11,11-13). Dio ci è Padre perché ci ha benedetti e scelti prima della creazione del mondo (cfr Ef 1,3-6), ci ha resi realmente suoi figli in Gesù (cfr 1Gv 3,1). E, come Padre, Dio accompagna con amore la nostra esistenza, donandoci la sua Parola, il suo insegnamento, la sua grazia, il suo Spirito.

Egli – come rivela Gesù – è il Padre che nutre gli uccelli del cielo senza che essi debbano seminare e mietere, e riveste di colori meravigliosi i fiori dei campi, con vesti più belle di quelle del re Salomone (cfr Mt 6,26-32; Lc 12,24-28); e noi – aggiunge Gesù – valiamo ben più dei fiori e degli uccelli del cielo! E se Egli è così buono da far «sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e … piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45), potremo sempre, senza paura e con totale fiducia, affidarci al suo perdono di Padre quando sbagliamo strada. Dio è un Padre buono che accoglie e abbraccia il figlio perduto e pentito (cfr Lc 15,11ss), dona gratuitamente a coloro che chiedono (cfr Mt 18,19; Mc 11,24; Gv 16,23) e offre il pane del cielo e l’acqua viva che fa vivere in eterno (cfrGv 6,32.51.58).

Perciò l’orante del Salmo 27, circondato dai nemici, assediato da malvagi e calunniatori, mentre cerca aiuto dal Signore e lo invoca, può dare la sua testimonianza piena di fede affermando: «Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto» (v. 10). Dio è un Padre che non abbandona mai i suoi figli, un Padre amorevole che sorregge, aiuta, accoglie, perdona, salva, con una fedeltà che sorpassa immensamente quella degli uomini, per aprirsi a dimensioni di eternità.

«Perché il suo amore è per sempre», come continua a ripetere in modo litanico, ad ogni versetto, il Salmo 136 ripercorrendo la storia della salvezza. L’amore di Dio Padre non viene mai meno, non si stanca di noi; è amore che dona fino all’estremo, fino a sacrificio del Figlio. La fede ci dona questa certezza, che diventa una roccia sicura nella costruzione della nostra vita: noi possiamo affrontare tutti i momenti di difficoltà e di pericolo, l’esperienza del buio della crisi e del tempo del dolore, sorretti dalla fiducia che Dio non ci lascia soli ed è sempre vicino, per salvarci e portarci alla vita eterna.

È nel Signore Gesù che si mostra in pienezza il volto benevolo del Padre che è nei cieli. È conoscendo Lui che possiamo conoscere anche il Padre (cfr Gv 8,19; 14,7), è vedendo Lui che possiamo vedere il Padre, perché Egli è nel Padre e il Padre è in Lui (cfr Gv 14,9.11). Egli è «immagine del Dio invisibile» come lo definisce l’inno della Lettera ai Colossesi, «primogenito di tutta la creazione… primogenito di quelli che risorgono dai morti», «per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati» e la riconciliazione di tutte le cose, «avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (cfr Col 1,13-20).

La fede in Dio Padre chiede di credere nel Figlio, sotto l’azione dello Spirito, riconoscendo nella Croce che salva lo svelarsi definitivo dell’amore divino. Dio ci è Padre dandoci il suo Figlio; Dio ci è Padre perdonando il nostro peccato e portandoci alla gioia della vita risorta; Dio ci è Padre donandoci lo Spirito che ci rende figli e ci permette di chiamarlo, in verità, «Abbà, Padre» (cfr Rm 8,15). Perciò Gesù, insegnandoci a pregare, ci invita a dire “Padre nostro” (Mt 6,9-13; cfr Lc 11,2-4).

La paternità di Dio, allora, è amore infinito, tenerezza che si china su di noi, figli deboli, bisognosi di tutto. Il Salmo 103, il grande canto della misericordia divina, proclama: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso coloro che lo temono, perché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (vv. 13-14). E’ proprio la nostra piccolezza, la nostra debole natura umana, la nostra fragilità che diventa appello alla misericordia del Signore perché manifesti la sua grandezza e tenerezza di Padre aiutandoci, perdonandoci e salvandoci.

E Dio risponde al nostro appello, inviando il suo Figlio, che muore e risorge per noi; entra nella nostra fragilità e opera ciò che da solo l’uomo non avrebbe mai potuto operare: prende su di Sé il peccato del mondo, come agnello innocente, e ci riapre la strada verso la comunione con Dio, ci rende veri figli di Dio. È lì, nel Mistero pasquale, che si rivela in tutta la sua luminosità il volto definitivo del Padre. Ed è lì, sulla Croce gloriosa, che avviene la manifestazione piena della grandezza di Dio come “Padre onnipotente”.

Ma potremmo chiederci: come è possibile pensare a un Dio onnipotente guardando alla Croce di Cristo? A questo potere del male, che arriva fino al punto di uccidere il Figlio di Dio? Noi vorremmo certamente un’onnipotenza divina secondo i nostri schemi mentali e i nostri desideri: un Dio “onnipotente” che risolva i problemi, che intervenga per evitarci le difficoltà, che vinca le potenze avverse, cambi il corso degli eventi e annulli il dolore.

Così, oggi diversi teologi dicono che Dio non può essere onnipotente altrimenti non potrebbe esserci così tanta sofferenza, tanto male nel mondo. In realtà, davanti al male e alla sofferenza, per molti, per noi, diventa problematico, difficile, credere in un Dio Padre e crederlo onnipotente; alcuni cercano rifugio in idoli, cedendo alla tentazione di trovare risposta in una presunta onnipotenza “magica” e nelle sue illusorie promesse.

Ma la fede in Dio onnipotente ci spinge a percorrere sentieri ben differenti: imparare a conoscere che il pensiero di Dio è diverso dal nostro, che le vie di Dio sono diverse dalle nostre (cfr Is 55,8) e anche la sua onnipotenza è diversa: non si esprime come forza automatica o arbitraria, ma è segnata da una libertà amorosa e paterna.

In realtà, Dio, creando creature libere, dando libertà, ha rinunciato a una parte del suo potere, lasciando il potere della nostra libertà. Così Egli ama e rispetta la risposta libera di amore alla sua chiamata. Come Padre, Dio desidera che noi diventiamo suoi figli e viviamo come tali nel suo Figlio, in comunione, in piena familiarità con Lui.

La sua onnipotenza non si esprime nella violenza, non si esprime nella distruzione di ogni potere avverso come noi desideriamo, ma si esprime nell’amore, nella misericordia, nel perdono, nell’accettare la nostra libertà e nell’instancabile appello alla conversione del cuore, in un atteggiamento solo apparentemente debole – Dio sembra debole, se pensiamo a Gesù Cristo che prega, che si fa uccidere.

Un atteggiamento apparentemente debole, fatto di pazienza, di mitezza e di amore, dimostra che questo è il vero modo di essere potente! Questa è la potenza di Dio! E questa potenza vincerà! Il saggio del Libro della Sapienza così si rivolge a Dio: «Hai compassione di tutti, perché tutto puoi; chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono… Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita» (11,23-24a.26).

Solo chi è davvero potente può sopportare il male e mostrarsi compassionevole; solo chi è davvero potente può esercitare pienamente la forza dell’amore. E Dio, a cui appartengono tutte le cose perché tutto è stato fatto da Lui, rivela la sua forza amando tutto e tutti, in una paziente attesa della conversione di noi uomini, che desidera avere come figli. Dio aspetta la nostra conversione.

L’amore onnipotente di Dio non conosce limiti, tanto che «non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Rm 8,32). L’onnipotenza dell’amore non è quella del potere del mondo, ma è quella del dono totale, e Gesù, il Figlio di Dio, rivela al mondo la vera onnipotenza del Padre dando la vita per noi peccatori. Ecco la vera, autentica e perfetta potenza divina: rispondere al male non con il male ma con il bene, agli insulti con il perdono, all’odio omicida con l’amore che fa vivere.

Allora il male è davvero vinto, perché lavato dall’amore di Dio; allora la morte è definitivamente sconfitta perché trasformata in dono della vita. Dio Padre risuscita il Figlio: la morte, la grande nemica (cfr 1 Cor 15,26), è inghiottita e privata del suo veleno (cfr 1 Cor 15,54-55), e noi, liberati dal peccato, possiamo accedere alla nostra realtà di figli di Dio.

Quindi, quando diciamo “Io credo in Dio Padre onnipotente”, noi esprimiamo la nostra fede nella potenza dell’amore di Dio che nel suo Figlio morto e risorto sconfigge l’odio, il male, il peccato e ci apre alla vita eterna, quella dei figli che desiderano essere per sempre nella “Casa del Padre”. Dire «Io credo in Dio Padre onnipotente», nella sua potenza, nel suo modo di essere Padre, è sempre un atto di fede, di conversione, di trasformazione del nostro pensiero, di tutto il nostro affetto, di tutto il nostro modo di vivere.

Cari fratelli e sorelle, chiediamo al Signore di sostenere la nostra fede, di aiutarci a trovare veramente la fede e di darci la forza di annunciare Cristo crocifisso e risorto e di testimoniarlo nell’amore a Dio e al prossimo. E Dio ci conceda di accogliere il dono della nostra filiazione, per vivere in pienezza le realtà del Credo, nell’abbandono fiducioso all’amore del Padre e alla sua misericordiosa onnipotenza che è la vera onnipotenza e salva.

50 anni fa il Concilio. «Fu una giornata splendida» ricorda Benedetto XVI

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da “L’Osservatore Romano ” – 11 ottobre 2012

Fu una giornata splendida quando, l’11 ottobre 1962, con l’ingresso solenne di oltre duemila Padri conciliari nella Basilica di San Pietro a Roma, si aprì il Concilio Vaticano II. Nel 1931 Pio XI aveva dedicato questo giorno alla festa della Divina Maternità di Maria, in memoria del fatto che millecinquecento anni prima, nel 431, il concilio di Efeso aveva solennemente riconosciuto a Maria tale titolo, per esprimere così l’unione indissolubile di Dio e dell’uomo in Cristo. Papa Giovanni XXIII aveva fissato per quel giorno l’inizio del concilio, al fine di affidare la grande assemblea ecclesiale, da lui convocata, alla bontà materna di Maria, e ancorare saldamente il lavoro del concilio nel mistero di Gesù Cristo. Fu impressionante vedere entrare i vescovi provenienti da tutto il mondo, da tutti i popoli e razze: un’immagine della Chiesa di Gesù Cristo che abbraccia tutto il mondo, nella quale i popoli della terra si sanno uniti nella sua pace.

Fu un momento di straordinaria attesa. Grandi cose dovevano accadere. I concili precedenti erano stati quasi sempre convocati per una questione concreta alla quale dovevano rispondere. Questa volta non c’era un problema particolare da risolvere. Ma proprio per questo aleggiava nell’aria un senso di attesa generale: il cristianesimo, che aveva costruito e plasmato il mondo occidentale, sembrava perdere sempre più la sua forza efficace. Appariva essere diventato stanco e sembrava che il futuro venisse determinato da altri poteri spirituali. La percezione di questa perdita del presente da parte del cristianesimo e del compito che ne conseguiva era ben riassunto dalla parola “aggiornamento”. Il cristianesimo deve stare nel presente per potere dare forma al futuro. Affinché potesse tornare a essere una forza che modella il domani, Giovanni XXIII aveva convocato il concilio senza indicargli problemi concreti o programmi. Fu questa la grandezza e al tempo stesso la difficoltà del compito che si presentava all’assemblea ecclesiale.

I singoli episcopati indubbiamente si avvicinarono al grande avvenimento con idee diverse. Alcuni vi giunsero più con un atteggiamento d’attesa verso il programma che doveva essere sviluppato. Fu l’episcopato centroeuropeo – Belgio, Francia e Germania – ad avere le idee più decise. Nel dettaglio l’accento veniva posto senz’altro su aspetti diversi; tuttavia c’erano alcune priorità comuni. Un tema fondamentale era l’ecclesiologia, che doveva essere approfondita dal punto di vista della storia della salvezza, trinitario e sacramentale; a questo si aggiungeva l’esigenza di completare la dottrina del primato del Concilio Vaticano I attraverso una rivalutazione del ministero episcopale. Un tema importante per gli episcopati centroeuropei era il rinnovamento liturgico, che Pio XII aveva già iniziato a realizzare. Un altro accento centrale, specialmente per l’episcopato tedesco, era messo sull’ecumenismo: il sopportare insieme la persecuzione da parte del nazismo aveva avvicinato molto i cristiani protestanti e quelli cattolici; ora questo doveva essere compreso e portato avanti anche a livello di tutta la Chiesa. A ciò si aggiungeva il ciclo tematico Rivelazione-Scrittura-Tradizione-Magistero. Tra i francesi si mise sempre più in primo piano il tema del rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno, ovvero il lavoro sul cosiddetto “Schema XIII”, dal quale poi è nata la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Qui veniva toccato il punto della vera aspettativa del concilio. La Chiesa, che ancora in epoca barocca aveva, in senso lato, plasmato il mondo, a partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre più evidente in un rapporto negativo con l’età moderna, solo allora pienamente iniziata. Le cose dovevano rimanere così? La Chiesa non poteva compiere un passo positivo nei tempi nuovi? Dietro l’espressione vaga “mondo di oggi” vi è la questione del rapporto con l’età moderna. Per chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna. Questo non è riuscito nello “Schema XIII”.

Sebbene la Costituzione pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del “mondo” e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale.

Inaspettatamente, l’incontro con i grandi temi dell’età moderna non avvenne nella grande Costituzione pastorale, bensì in due documenti minori, la cui importanza è emersa solo poco a poco con la ricezione del concilio. Si tratta anzitutto della Dichiarazione sulla libertà religiosa, richiesta e preparata con grande sollecitudine soprattutto dall’episcopato americano. La dottrina della tolleranza, così come era stata elaborata nei dettagli da Pio XII, non appariva più sufficiente dinanzi all’evolversi del pensiero filosofico e del modo di concepirsi dello Stato moderno. Si trattava della libertà di scegliere e di praticare la religione, come anche della libertà di cambiarla, in quanto diritti fondamentali alla libertà dell’uomo. Dalle sue ragioni più intime, una tale concezione non poteva essere estranea alla fede cristiana, che era entrata nel mondo con la pretesa che lo Stato non potesse decidere della verità e non potesse esigere nessun tipo di culto. La fede cristiana rivendicava la libertà alla convinzione religiosa e alla sua pratica nel culto, senza con questo violare il diritto dello Stato nel suo proprio ordinamento: i cristiani pregavano per l’imperatore, ma non lo adoravano. Da questo punto di vista si può affermare che il cristianesimo, con la sua nascita, ha portato nel mondo il principio della libertà di religione. Tuttavia, l’interpretazione di questo diritto alla libertà nel contesto del pensiero moderno era ancora difficile, poiché poteva sembrare che la versione moderna della libertà di religione presupponesse l’inaccessibilità della verità per l’uomo e che, pertanto, spostasse la religione dal suo fondamento nella sfera del soggettivo. È stato certamente provvidenziale che, tredici anni dopo la conclusione del concilio, Papa Giovanni Paolo II sia arrivato da un Paese in cui la libertà di religione veniva contestata dal marxismo, vale a dire a partire da una particolare forma di filosofia statale moderna. Il Papa proveniva quasi da una situazione che assomigliava a quella della Chiesa antica, sicché divenne nuovamente visibile l’intimo ordinamento della fede al tema della libertà, soprattutto la libertà di religione e di culto.

Il secondo documento che si sarebbe poi rivelato importante per l’incontro della Chiesa con l’età moderna è nato quasi per caso ed è cresciuto in vari strati. Mi riferisco alla dichiarazione Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane. All’inizio c’era l’intenzione di preparare una dichiarazione sulle relazioni tra la Chiesa e l’ebraismo, testo diventato intrinsecamente necessario dopo gli orrori della shoah. I Padri conciliari dei Paesi arabi non si opposero a un tale testo, ma spiegarono che se si voleva parlare dell’ebraismo, allora si doveva spendere anche qualche parola sull’islam. Quanto avessero ragione a riguardo, in occidente lo abbiamo capito solo poco a poco. Infine crebbe l’intuizione che fosse giusto parlare anche di altre due grandi religioni – l’induismo e il buddhismo – come pure del tema religione in generale. A ciò si aggiunse poi spontaneamente una breve istruzione relativa al dialogo e alla collaborazione con le religioni, i cui valori spirituali, morali e socio-culturali dovevano essere riconosciuti, conservati e promossi (cfr n. 2). Così, in un documento preciso e straordinariamente denso, venne inaugurato un tema la cui importanza all’epoca non era ancora prevedibile. Quale compito esso implichi, quanta fatica occorra ancora compiere per distinguere, chiarire e comprendere, appaiono sempre più evidenti. Nel processo di ricezione attiva è via via emersa anche una debolezza di questo testo di per sé straordinario: esso parla della religione solo in modo positivo e ignora le forme malate e disturbate di religione, che dal punto di vista storico e teologico hanno un’ampia portata; per questo sin dall’inizio la fede cristiana è stata molto critica, sia verso l’interno sia verso l’esterno, nei confronti della religione.

Se all’inizio del concilio avevano prevalso gli episcopati centroeuropei con i loro teologi, durante le fasi conciliari il raggio del lavoro e della responsabilità comuni si è allargato sempre più. I vescovi si riconoscevano apprendisti alla scuola dello Spirito Santo e alla scuola della collaborazione reciproca, ma proprio in questo modo si riconoscevano come servitori della Parola di Dio che vivono e operano nella fede. I Padri conciliari non potevano e non volevano creare una Chiesa nuova, diversa. Non avevano né il mandato né l’incarico di farlo. Erano Padri del concilio con una voce e un diritto di decisione solo in quanto vescovi, vale a dire in virtù del sacramento e nella Chiesa sacramentale. Per questo non potevano e non volevano creare una fede diversa o una Chiesa nuova, bensì comprenderle ambedue in modo più profondo e quindi davvero “rinnovarle”. Perciò un’ermeneutica della rottura è assurda, contraria allo spirito e alla volontà dei Padri conciliari

Nel cardinale Frings ho avuto un “padre” che ha vissuto in modo esemplare questo spirito del concilio. Era un uomo di forte apertura e grandezza, ma sapeva anche che solo la fede guida ad uscire all’aperto, a quell’ampio orizzonte che rimane precluso allo spirito positivistico. È questa fede che voleva servire con il mandato ricevuto attraverso il sacramento dell’ordinazione episcopale. Non posso che essergli sempre grato per aver portato me – il professore più giovane della Facoltà teologica cattolica dell’università di Bonn – come suo consulente alla grande assemblea della Chiesa, permettendomi di essere presente in questa scuola e percorrere dall’interno il cammino del concilio.

(…)

Castel Gandolfo, nella festa del santo vescovo Eusebio di Vercelli 2 agosto 2012

BENEDETTO XVI

Quando Benedetto XVI rispose a sette domande in diretta TV rivoltegli da persone dei vari continenti

Sette domande su Dio, sul dolore, sull’anima, su Gesù…. Per la prima volta nella storia, un pontefice ha scelto di rispondere ad alcune domande in una trasmissione televisiva.

Il 22 aprile 2011, per la prima volta nella storia, il Papa ha partecipato ad una trasmissione televisiva. Nel programma “A Sua Immagine – Speciale Venerdì Santo”, in onda su Rai Uno, Benedetto XVI ha risposto a sette domande, che gli sono arrivate da Giappone, Costa d’Avorio, Iraq, Italia.

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A volte, fra le distrazioni della vita, la nostra coscienza riesce a portarci alle radici delle grandi domande che albergano nel profondo del cuore di ogni persona, e a farci esprimere qualcuna di esse che arriva alla superficie della nostra anima con maggiore chiarezza. E allora sospendiamo per un attimo le nostre faccende, guardiamo al mistero della vita e lasciamo che quelle domande vengano fuori. E poi speriamo che qualcuno possa darcene la risposta. Sappiamo che la fede ci aiuta ad affrontare queste domande, e a volte ha anche risposte chiare, ma il più delle volte le domande riguardano il mistero della vita e non vi sono risposte immediate e definitive. La risposta è la fede. Non la fede che annulla lo spirito di ricerca e si trincera dietro quella che spesso è l’arroganza delle certezze assolute, ma la fede umile che, mentre lascia aperta la domanda, accende nel cuore il desiderio di andare alla ricerca della risposta. La fede ci dice che tale risposta è in Dio, e allora il nostro cuore è attratto dalla sorgente che è Dio. Ma non bisogna cadere nell’errore che Dio da la risposta materiale a tutte le domande, né farlo credere. Spesso sentiamo dire che “Dio è la risposta a tutte le tue domande”. Mentre sappiamo che, nella fede, Egli lo è, non possiamo usare quesat risposta per chiudere la faticosa ricerca dell’animo tormentato in cerca di risposte, come se, poiché vive nel dubbio, vive nel peccato. Se questo è l’approccio, allora un vero credente non può che reagire dicendo che Dio non è una equazione matematica o un algoritmo che, applicato, produce in sé la risposta razionale a tutte le nostre domande. Anzi, nel cammino della vita è molto più affascinante la scoperta che la pretesa del possesso della risposta. E Dio è contemplato come un mistero di amore che, nel suo profondo, porta tutte le risposte che tormentano l’uomo dal giorno in cui è stato creato. (E.C.)

(I testi che seguono sono tratti dall’agenzia di stampa SIR – http://www.agensir.it/pls/sir/v3_s2doc_a.a_autentication?target=3&tema=Anticipazioni&oggetto=215398&rifi=guest&rifp=guest. I video sono tratti dalla trasmissione “A Sua Immagine”, del 22 aprile 2011)

Prima domanda. Progetto d’amore. “Perché voi dovete soffrire tanto, mentre altri vivono in comodità? E non abbiamo le risposte, ma sappiamo che Gesù ha sofferto come voi, innocente, che il Dio vero, che si mostra in Gesù, sta dalla vostra parte”. Lo ha detto Benedetto XVI, rispondendo alla domanda di Elena, una bambina giapponese di sette anni, sul terremoto che ha colpito il Giappone. È molto importante capire che “Dio sta dalla vostra parte” e che “nel mondo, nell’universo, tanti sono con voi, pensano a voi, fanno per quanto possono qualcosa per voi, per aiutarvi. Ed essere consapevoli che, un giorno, io capirò che questa sofferenza non era vuota, non era invano, ma che dietro di essa c’è un progetto buono, un progetto di amore”.

 

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Seconda domanda. L’anima c’è. “Certamente l’anima è ancora presente nel corpo. La situazione, forse, è come quella di una chitarra le cui corde sono spezzate, così non si possono suonare. Così anche lo strumento del corpo è fragile, è vulnerabile, e l’anima non può suonare, per così dire, ma rimane presente”. Ha risposto così Benedetto XVI alla domanda di una donna italiana, madre di un figlio in stato vegetativo dalla Pasqua del 2009, che chiede se l’anima abbia abbandonato il corpo del figlio. “Sono anche sicuro – ha chiarito il Papa – che quest’anima nascosta sente in profondità il vostro amore, anche se non capisce i dettagli, le parole”, “perciò questa vostra presenza, cari genitori, cara mamma, accanto a lui, ore ed ore ogni giorno, è un atto vero di amore di grande valore, perché questa presenza entra nella profondità di quest’anima nascosta”.

 

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Terza domanda. Una storia comune. “Prego ogni giorno per i cristiani in Iraq”. Lo ha detto Benedetto XVI, rispondendo alla domanda rivolta da giovani di Baghdad, che chiedono come convincere i cristiani perseguitati a non emigrare. Per il Papa, occorre fare “il possibile perché possano rimanere, perché possano resistere alla tentazione di migrare”. La Santa Sede “è in permanente contatto con le diverse comunità, non solo con le comunità cattoliche, con le altre comunità cristiane, ma anche con i fratelli musulmani, sia sciiti, sia sunniti. E vogliamo fare un lavoro di riconciliazione, di comprensione, anche con il governo, aiutarlo in questo cammino difficile di ricomporre una società lacerata. Perché questo è il problema, che la società è profondamente divisa”. Si deve ricostruire la “consapevolezza” che, nella diversità, c’è “una storia in comune”.

 

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Quarta domanda. Rinunciare alla violenza. Rispondendo a Bintù, una donna musulmana della Costa d’Avorio, che chiede un consiglio per il suo Paese, il Papa ha invitato a tutte le parti “a rinunciare alla violenza, a cercare le vie della pace. Non potete servire la ricomposizione del vostro popolo con mezzi di violenza, anche se pensate di avere ragione. L’unica via è rinunciare alla violenza, ricominciare con il dialogo, con tentativi di trovare insieme la pace, con la nuova attenzione l’uno per l’altro, con la nuova disponibilità ad aprirsi l’uno all’altro”.

 

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Quinta domanda. Redenzione per tutti. La discesa dell’anima di Gesù “è un viaggio dell’anima”, infatti la sua anima “è sempre in contatto con il Padre, ma nello stesso tempo quest’anima umana si estende fino agli ultimi confini dell’essere umano. In questo senso va in profondità, va ai perduti”. Lo ha spiegato il Pontefice, rispondendo a una domanda se come Gesù, dopo la morte, anche a noi discenderemo agli Inferi, prima di salire al Cielo. Questa parola della discesa del Signore agli Inferi “vuol soprattutto dire che anche il passato è raggiunto da Gesù, che l’efficacia della Redenzione non comincia nell’anno zero o trenta, ma va anche al passato, abbraccia il passato, tutti gli uomini di tutti i tempi”.

 

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Sesta domanda. La materia e l’eternità. “Non possiamo definire il corpo glorioso perché sta oltre le nostre esperienze”, ma Gesù ci ha dato dei segni per capire “in quale direzione dobbiamo cercare questa realtà”. Lo ha affermato Benedetto XVI, rispondendo ad una domanda su cosa significa che dopo la Risurrezione il corpo di Cristo è glorioso. “Gesù non ha lasciato il suo corpo alla corruzione, ci ha mostrato che anche la materia è destinata all’eternità, che realmente è risorto, che non rimane una cosa perduta”, ha evidenziato il Papa. Quindi “c’è una condizione nuova, diversa, che noi non conosciamo, ma che si mostra” in Gesù ed “è la grande promessa per noi tutti che c’è un mondo nuovo, una vita nuova, verso la quale noi siamo in cammino”. Gesù “è un vero uomo, non un fantasma, che vive una vera vita, ma una vita nuova che non è più sottomessa alla morte e che è la nostra grande promessa”.

 

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Settima domanda. Maria. L’ultima domanda al Papa è stata su Maria, sotto la croce, affidata da Gesù a Giovanni. “Gesù – ha chiarito – affida tutti noi, tutta la Chiesa, tutti i discepoli futuri, alla madre e la madre a noi”. E d’altra parte “la Madre è immagine della Chiesa, della Madre Chiesa, e affidandoci a Maria dobbiamo anche affidarci alla Chiesa”.

 

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