Continua la strage dei cristiani. Il Direttore di Missioni Consolata: riscoprire questa storia di fede nel sangue, sulla scia di Paolo VI che canonizzò i Santi d’Uganda GEROLAMO
FAZZINI – Vatican Insider 9/07/2014
MILANO Il 9 luglio 1989, esattamente 25 anni fa, nei pressi della cattedrale, veniva ucciso monsignor Salvatore Colombo, vescovo di Mogadiscio, capitale della Somalia. Con ogni probabilità il responsabile (a oggi impunito) va cercato nelle file dei fondamentalisti musulmani. A un quarto di secolo di distanza, sono gli estremisti islamici del famigerato gruppo Boko Haram a seminare morte in Nigeria e nelle zone confinanti. L’ultima strage è di pochi giorni fa: un centinaio di vittime sono morte dopo l’incendio di alcune chiese dei villaggi nei dintorni di Chibok, la stessa località (nel nord-est del paese) dove lo scorso aprile sono state rapite 270 studentesse. Insomma: «L’Africa di oggi è terra di martiri». Lo scrive a chiare lettere padre Gigi Anataloni, direttore di Missioni Consolata nell’editoriale dell’ultimo numero del mensile. Continua Anataloni, che in Africa ha svolto lunghi anni di ministero, sempre nel campo dei media: «Dall’Egitto alla Libia, dalla Somalia al Centrafrica, dalla Nigeria al Kenya, dal Sudan alla Sierra Leone, dal Rwanda alla Rd Congo (e l’elenco non è completo), migliaia di cristiani testimoniano, a prezzo della vita, la loro fede nel Dio di Gesù Cristo».
Poi il j’accuse: «Ogni tanto qualche nome attira l’attenzione dei media, come quello di Meriam, la madre sudanese, o quelli dei due missionari rapiti e liberati in Cameroon. La maggior parte, centinaia (forse addirittura migliaia) di cristiani spariscono nell’anonimato dei massacri di massa o dell’indifferenza generalizzata». In effetti, a parte alcune pubblicazioni specialistiche (da ricordare quelle a firma del comboniano Neno Contran, missionario e giornalista), il martirologio africano è poco noto. «Per anni l’Africa è stata timida a parlare dei suoi martiri – osserva Anataloni – Chi ha mai sentito parlare dei 149 “martiri di Mombasa”, uccisi nel 1631? Chi ha mai considerato come martiri gli innumerevoli cristiani uccisi nei secoli in Egitto o quelli rapiti, venduti e schiavizzati in Etiopia? E le vittime dei Simba (1964) in Congo? I 70 martiri Kikuyu uccisi dai Mau Mau tra il 1951 e il 1954? E i martiri di Guiua in Mozambico (uccisi tra il 1975 e il 1992)?».
Ora – sottolinea padre Anataloni – si presenta un’occasione speciale per riscoprire questa storia luminosa di fede e di sangue. «L’8 ottobre 1964, cinquanta anni fa, papa Paolo VI dichiarava santi i 22 martiri d’Uganda, uccisi tra il 1885 e il 1887 per ordine di re Mwanga II, e scriveva: “Questi Martiri Africani aggiungono all’albo dei vittoriosi, qual è il Martirologio, una pagina tragica e magnifica, veramente degna di aggiungersi a quelle meravigliose dell’Africa antica, che noi moderni, uomini di poca fede, pensavamo non potessero avere degno seguito mai più. […] Questi Martiri Africani aprono una nuova epoca; oh! non vogliamo pensare di persecuzioni e di contrasti religiosi, ma di rigenerazione cristiana e civile. L’Africa, bagnata dal sangue di questi Martiri, primi dell’èra nuova (oh, Dio voglia che siano gli ultimi, tanto il loro olocausto è grande e prezioso!), risorge libera e redenta”». Commenta Anataloni: «Paolo VI si augurava un’Africa risorta, libera e redenta. Un auspicio che si scontra ancora oggi con una dura realtà di violenza, sfruttamento, ingiustizie e guerre. Che il sangue di tanti uomini e donne pacifici, nonviolenti, inermi e innamorati di Dio, sia davvero fecondo di pace, giustizia e armonia per tutta l’Africa».
Michela: «Forse ci deve essere qualcosa in più nella fede, che i cristiani di qui non fanno vedere, se in Nigeria non mollano e accettano di rischiare la morte»
A colpirmi stavolta non è il solito atteggiamento di opposizione pregiudiziale al cristianesimo, o la richiesta classica di una religione più libera, o semplicemente l’indifferenza che una parte degli studenti si ritrova addosso. A colpirmi è la strana mescolanza di ammirazione e sorpresa che li ha colti.
Ho costruito un power point con le ultime sei notizie delle stragi nelle Chiese cristiane della Nigeria. E l’ho presentato alla classe. Mi aspettavo reazioni del tipo: “Farsi ammazzare per una messa è da scemi”, che già l’hanno scorso era venuta fuori in una discussione dopo i primi attentati. O un distaccato interesse formale, come si potrebbe trovare di fronte a tante altre stragi di innocenti a cui ci siamo abituati.
Invece mi hanno stupito. Ancora una volta. “Ma come prof, mi faccia capire. Questi da un anno rischiano di morire tutte le volte che vanno a messa e continuano ad andarci?” “Si, Lorenzo, è esattamente così”. “Non ci credo, prof. – interviene Michela – Cioè esistono ancora persone che sono disposte a morire per una fede che non si sa neanche bene se sia vera o inventata?” “Evidentemente – faccio io – per loro è molto vera e anche molto reale. E forse sperimentandola si sono resi conto che è davvero il senso della loro vita ed è fondata su un fatto altrettanto incredibile quanto il loro comportamento: che Gesù è risorto”. “Boh, se ci penso sul serio, prof, sono stupita” ancora Michela. “Ma in positivo o in negativo?” – le chiedo. “In positivo, certo. Cavolo, forse ci deve essere qualcosa in più nella fede, che i cristiani di qui non fanno vedere, se loro non mollano e accettano di rischiare la morte”.
Ecco proprio questa frase mi risuona dentro da qualche giorno. Soprattutto dopo l’ennesima, crudele e assurda strage di domenica 25 novembre, che non è entrata nemmeno nel mio power point. E di cui si fatica a trovare traccia nei siti “all news” appena il giorno dopo. “Ci deve essere qualcosa in più che i cristiani di qui non fanno vedere”. Cosa facciamo vedere qui? Cosa faccio vedere io? Un po’ di crisi mi arriva addosso. Non quella economica, ma quella del senso della mia e nostra, presenza tra di loro e nel mondo.
Intanto perché mi confermo nell’idea che già avevo da tempo: non basta più essere cristiani normali, ordinari, che ci provano dentro ai loro ambiti a rendere testimonianza di Gesù risorto. Che sperano, attraverso l’organizzazione e le strutture della Chiesa, di far “trasparire” Gesù. E io sono uno di questi. Forse davvero dovrei lasciarmi afferrare compiutamente dalla fede in Lui perché la gioia di questo incontro travalichi la mia pelle e i miei occhi e sia un segno che sconcerta e scuote, come la testimonianza di questi martiri. Ci sto lavorando, anzi cerco di far si che Lui ci lavori.
Secondo. Ho avuto modo di chiacchierare, pochi giorni fa, con il vescovo di Carpi mons. Francesco Cavina, sull’esperienza del terremoto, e su come quella Chiesa se la sta vivendo. Una cosa che mi ha colpito è stato il chiaro riconoscimento, da parte sua, che a volte le strutture della Chiesa “nascondono” la bellezza di Gesù Cristo invece di mostrarla. E che quando le strutture non ci sono più, paradossalmente l’amore e la condivisione si vedono di più.
“L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono” (Sal 48,13). Traduco rovesciando: la fede, di fronte alle tragedie della vita finalmente riesce a mostrare la “differenza cristiana”. Se parto da qui allora dovrei quasi concludere che come cristiani, in Occidente, stiamo troppo bene. Ce la passiamo troppo comoda. E allora le vere o presunte aggressioni al cristianesimo, che qui da noi ci affanniamo ad individuare, potremmo sentirle come occasione di grazia. E invece di combatterle dovremmo interrogarci su come queste aggressioni ci chiedono di dare testimonianza a Dio. Facile dirlo qui dietro uno schermo. Impossibile, almeno per me, dirlo di fronte a chi sul serio gioca la sua vita per Lui, in Africa ad esempio, e che, come Lui, non si tira indietro di fronte alla follia ideologica.
Michela alla fine lo ha ammesso: “credo davvero che se un cristiano fosse disposto a morire per Gesù ci potrei anche credere”. E allora le nostre, e anche le mie, elucubrazioni sulla nuova evangelizzazione impallidiscono di fronte alla forza di questi cristiani nigeriani. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Allora alcune domande mi si impongono. Noi qui, quanti modi potremmo avere per morire per Cristo e i suoi amici? Quanti di noi smetterebbero di andare a messa se in ballo ci fosse la nostra vita?
Paradossale lo so. Eppure andando a messa lo viviamo anche noi: “questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”…
Un viso che trasmetteva bellezza e insieme sofferenza. Aveva solo 17 anni. Aveva partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008. Rappresentava la Somalia. E lo ha fatto in ogni senso. Il suo corpo esile e senza muscolatura, sembrava quasi malato, in confronto a quello delle altre atlete, contro le quali avrebbe corso la gara dei 100 metri. Allo sparo della pistola lei rimane subito indietro a tutte. Il distacco è abissale. Ma Samia corre… corre come se la medaglia che lei deve conquistare non fosse quella d’oro olimpionica, ma quella della speranza di un futuro che in patria le viene negato. In Somalia non aveva né le attrezzature né le condizioni sanitarie per allenarsi e sperare in una gara competitiva. La sua Somalia è prostrata dalla fame. I bambini muoiono di fame ogni giorno.
Quando le altre atlete tagliavano il traguardo, lei era di gran lunga indietro, annaspando, 10 secondi in ritardo rispetto alla vincitrice, che in termini olimpionici significano un’eternità, mentre la platea si alzava in piedi e faceva il tifo per lei. In quel momento, la sconfitta di una ragazza apriva la porta ad un miracolo.
Il popolo cinese si alzava in piedi per rendere omaggio ad un’atleta che non aveva alcuna speranza di vincere, ma che aveva compiuto un grande gesto. Voleva rappresentare la sua Somalia. Lo ha fatto in ogni senso, mostrando al mondo, nella sua carne fiacca, le condizioni disperate di un popolo ridotto alla fame, e la voglia di vivere, non solo sua, ma del suo popolo.
La sua vicenda non termina a Pechino. Termina al largo di Malta, su un barcone, dove troveranno esanime il suo cadavere. All’inizio del 2012 lascia la Somalia per attraversare l’Etiopia, il Sudan, la Libia e tenta la traversata per raggiungere l’Europa, nella speranza, da quanto dicono le fonti, di trovare un allenatore e partecipare alle olimpiadi di Londra. Morirà a largo delle coste di Malta su un barcone pieno di immigrati clandestini.
La sua storia diventa simbolo della tragedia di un popolo. Ma nel nostro tempo e nel nostro mondo globalizzato non esiste tragedia di un popolo che non sia tragedia di tutta la famiglia umana. Samir ha perso la sua corsa. E in lei ha perso tutta quella parte di umanità che è annegata lungo le coste del primo mondo, in cerca di salvezza. Abbiamo perso tutti. Tuttavia, è una sconfitta che può trasformarsi in una occasione di riflessione, e di conversione. Si può fare… per Samir… per tutti coloro che sono morti c0me lei… per tutti coloro che gridano al mondo opulento d’Occidente e chiedono aiuto… Si può fare. Un mondo migliore è possibile. Deve nascere prima nei cuori e poi nei programmi politico-economici. Ma se non nasce nei cuori. Sarà di nuovo una sconfitta. E avremmo perso di nuovo. Perché senza l’amore un mondo migliore non sarà possibile.
(EC)
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di Juan José Mateo
Duran Farah, presidente del Comitato Olimpico somalo, ricorda la connazionale Samia Yusuf, atleta annegata mentre cercava di sbarcare in Italia.
Quattro anni prima di morire annegata durante un viaggio su un barcone con destinazione Italia, la velocista Samia Yusuf ha sfilato alla cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Pechino, nei quali Duran Farah, campione somalo, era per lei un punto di riferimento.
I due hanno vissuto quei giorni estasiati davanti alla magica struttura del Cubo d’Acqua, che accoglie le gare di nuoto; sorpresi per il gigantesco Nido d’Uccello, la casa degli atleti; pieni di progetti, di sogni, come chi si sente all’inizio di qualcosa di grande.
Il ritorno nella Somalia devastata dalla guerra è stato più che inciampare contro la dura realtà. Samia ha finito per emigrare in Etiopia. Poi in Sudan. Più tardi in Libia. Sempre cercando di raggiungere il paradiso dell’Italia. Fino a quando non è morta affogata. Farah rimane nel suo Paese. Diventa presidente del Comitato Olimpico grazie a un decesso. «Lo hanno ucciso in un attacco terroristico», racconta a proposito del suo arrivo alla presidenza del Comitato Olimpico del suo paese, riferendosi a Aden Yabarow Wiish, il predecessore morto in un attentato terroristico suicida ad aprile.
«Samia era giovane e in gamba. Una ragazza talentuosa che voleva competere e rappresentare la Somalia. È fuggita da quel paese», si lamenta Farah, in inglese e per telefono, mentre sale su un aereo. «In Somalia non c’è speranza per i giovani. Non esiste un’istruzione, non c’è futuro. Non c’è niente per cui guardare avanti. Per questo molti partono» e, continua, «Samia era una di questi giovani che decidono di andarsene. Decise di lasciare il Paese. Sfortunatamente è finita in una situazione molto difficile, critica, che riguarda anche tanti altri giovani della sua età; e quattro mesi fa, mentre stava cercando di attraversare il Mediterraneo, è annegata insieme ad altri».
Un padre assassinato. Il piatto vuoto sul tavolo come unica certezza quotidiana. I fucili di tutte le fazioni coinvolte nella guerra di Somalia disposti, ogni giorno, a tagliare la strada alle formazioni nemiche. Insulti. Grida. Rapine. La condizione della donna è uno strazio.
Tutto questo spinge la velocista specializzata nei 200 metri verso un viaggio pericoloso: prima cerca migliori impianti e allenatori in Etiopia, poi attraversa il continente alla ricerca del barcone che la porti in Italia.
Samia aveva terminato ultima la sua corsa a Pechino. Il pubblico l’aveva incoraggiata in piedi applaudendola, anche se arrivata 10 secondi dopo la vincitrice. Sebbene avesse apprezzato il gesto, la somala affermò che la scena aveva attivato il suo motore competitivo: voleva gli applausi, ha sostenuto, ma tagliando il traguardo per prima. Il viaggio è terminato nel Mediterraneo con Lampedusa a vista di binocolo, benché il Comitato Olimpico Internazionale non abbia ancora confermato ufficialmente la sua morte. In realtà tutto è cominciato a Pechino, quando Samia ha iniziato a cercare un posto che avrebbe potuto offrirle le attrezzature tecniche che dessero forma al suo sogno.
«Le condizioni di allenamento in Somalia sono pessime», afferma Farah. «Abbiamo un solo stadio in tutto il paese per allenarci. Una sola struttura adeguata, una singola pista di atletica in tutto il paese! E’ facile capire quanto sia difficile allenarsi in questo tipo di situazione», prosegue. «Non vi è alcun budget. Nessuna risorsa. In realtà è più difficile allenarsi per le donne come Samia», aggiunge, «è molto più difficile per le bambine rispetto ai maschi. Questo ha a che fare con la società somala, per la maggior parte musulmana. Ci sono persone a cui non piace vedere le bambine che corrono per le strade o indossano gioielli, e loro stesse si accorgono della disparità di trattamento».
I quattro anni trascorsi tra i Giochi Olimpici di Pechino 2008 e quelli di Londra 2012, ai quali mirava la defunta, hanno segnato pesantemente il volto di Farah. Nelle fotografie dell’ultima olimpiade, l’attuale presidente del Comitato Olimpico somalo non ha nulla a che vedere con l’atleta che quel giorno del 2008 ha salutato il mondo, molto orgoglioso di portare la bandiera del suo paese, mentre la seguiva una ragazza di 17 anni, magra, senza alcuna traccia di braccia muscolose e gambe scolpite in palestra, caratteristiche che contraddistinguono i velocisti.
«Quel giorno, Samia lo apprezzò», ricorda Farah. «Era la prima volta che lasciava la Somalia e si trovava in un posto così grande come quello stadio così bello. Era così eccitata. Pensava che quello fosse l’inizio di molte cose buone che le sarebbero accadute».
Juan José Mateo.
Articolo originale su El País, traduzione di Cristian Zinfolino
Da http://www.informarexresistere.fr/2012/08/23/il-sogno-infranto-di-samia-yusuf/#axzz256gZ0kVY
Tratto da: Il sogno infranto di Samia Yusuf | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/08/23/il-sogno-infranto-di-samia-yusuf/#ixzz256hgY7zZ
– Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!
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