La carezza del papa che cambiò il mondo nel ricordo di un cronista

“E quando tornerete a casa stasera, date una carezza ai vostri bambini… e dite: questa è la carezza del papa!” (Giovanni XXIII, 11 ottobre 1962)

* * *

di Gian Franco Svidercoschi
in “Jesus” del gennaio 2013

È una emozione che ritorna di continuo, sistematicamente, da cinquant’anni. Ogni volta che
riascolto la voce di Giovanni XXIII, mentre pronunciava il suo «discorso alla luna», sento subito un
brivido che corre lungo la schiena. E il mio cuore entra in fibrillazione…

Quel mattino dell’ 11 ottobre del 1962, per me, era stato massacrante. Lavoravo come “vaticanista”
per una agenzia di stampa, l’Ansa. E avevo dovuto “telefonare” in redazione, praticamente in diretta,
l’intera cerimonia di apertura del Concilio Vaticano II. Una esperienza che non dimenticherò mai.
Era stato tutto così straordinario. Tutto così nel segno della novità, una incredibile novità.
Prima, in piazza San Pietro, quell’interminabile fila di mitre bianche, di facce nere e gialle, di razze
e lingue le più diverse, dove si rispecchiava anche visibilmente l’universalità del cattolicesimo. Poi,
in basilica, gli osservatori delle Chiese cristiane, gli ex eretici, gli ex fratelli-che-hanno-sbagliato da
riportare all’ovile. E i tanti capi di Stato e di governo, ma stavolta solo come invitati, e non più
come succedeva quando il potere temporale condizionava i Concili e la libertà della Chiesa. Infine,
il discorso di papa Roncalli. Un discorso aperto, coraggioso, illuminante: la critica ai «profeti di
sventura», la distinzione tra il depositum fldei e la sua formulazione, la «medicina della
misericordia» anziché le condanne e gli anatemi di una volta.

Percepivi nell’aria che era la fine di un’epoca. Ma come sarebbe maturata la nuova stagione che
stava appena sbocciando? In quel momento, nemmeno il Papa che l’aveva inaugurata, un Papa di 77
anni ma abitato dallo Spinto, poteva immaginarlo. Oltretutto, c’erano dei segni contraddittori. Un
rito fastoso, di altri tempi, e che si svolgeva al chiuso, nei “sacri recinti”, quindi lontano dal popolo
comune e dalla storia. E le aggiunte —preoccupate di riaffermare la continuità con il passato — che
il Pontefice aveva dovuto introdurre nel suo discorso ufficiale su pressione della Curia romana
conservatrice.

Ed ecco perché il Vaticano II —per me — cominciò realmente soltanto la sera. Cominciò con quelle
parole improvvisate che Giovanni XXIII rivolse alla folla in piazza. Parole semplici, trasparenti,
affettuose, le stesse parole della gente, dell’esistenza quotidiana, fatta di gioie e di dolori, di piccole
grandi cose; parole che invece la Chiesa per tanto tempo non aveva più usato. Ebbene,
pronunciandole di nuovo, Roncalli mise fine al lungo penoso isolamento della gerarchia
ecclesiastica dal popolo, dai suoi problemi, dalla sua vita. La Chiesa, cioè, riprese a camminare
accanto agli uomini e alle donne di tutto il mondo.

A quel punto, l’avventura del Concilio poteva finalmente partire, aveva davanti a sé la strada già
tracciata. E anch’io (avevo ventisei anni), tornato a casa, feci una carezza a mio figlio. E capii che,
se la Chiesa stava cambiando, anche la mia vita, e non solo quella professionale, sarebbe stata
diversa.

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