Conclave 2013. Cos’è che sfugge della Chiesa al mondo?

Per molti operatori dell’informazione ed esponenti del mondo della politica, le vicende Chiesa sono solo una questione politica. Politica ecclesiastica. L’ambito è diverso ma le categorie con cui descrivere il fenomeno sarebbe uguale. Politica come conquista di conquista e spartizione di potere, alleanze interne, guerra fra contrapposte correnti. Finanza, Ior, privilegi, ecc. Tutto qui. Solo questo. Il conclave, dunque, non sarebbe altro che una riunione segreta di cardinali, i quali devono trovare tutti gli accordi possibili per ristabilire gli equilibri interni della Chiesa, in modo tale che tutti tornino a casa contenti. L’elezione del Papa rappresenta la convergenza dei vari interessi e il ristabilimento di tali equilibri. Ammettiamo, per pura speculazione, che tutto ciò sia vero. Ciò che ai media sfuggirà e risulterà sempre incomprensibile è che, nelle cose della Chiesa, per quanto il fattore umano possa sembrare determinante e risolutivo, il fattore fede gioca un ruolo più potente e determinante rispetto a qualsiasi altro fattore. Se, dall’altra parte, si tenderebbe, non senza semplicismo, a credere che l’unico protagonista delle cose di Chiesa, e quindi di un conclave, sia solo lo Spirito Santo, come se la fragilità degli uomini non concorresse a opporre le sue resistenze, (“alla fine sarà lo Spirito Santo a decidere“), si dimentica che la vita e la storia della Chiesa sono un costante intreccio fra l’azione dello Spirito e l’azione umana. La verità è che in questo intreccio fra umano e divino, fra calcoli umani e proiezioni della fede, è proprio quest’ultimo fattore a fare delle cose di Chiesa, e quindi, soprattutto, di un conclave, un evento che sfugge irriducibile a qualsiasi calcolo elaborato con i linguaggi della politica. Inoltre, l’immagine di una Chiesa che sia solo complotti, potere, finanza e corruzione e che, dentro il conclave, cerca il candidato migliore per garantire la “pax vaticana”, rappresenta solo un bisogno di chi deve, ad ogni costo, ridurre le vicende della Chiesa alle logiche del mondo. La fede rappresenta quel fattore determinante tale da obbligare a leggere tutto con nuovi parametri. Anche se l’avessero in pochi. E, grazie a Dio, questo non è il caso

E.C.

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Categorie sofisticate (e politiche) invece che spirituali

L’attenzione riservata in questi giorni dai mass-media alle vicende interne della Chiesa, al suo massimo livello, è del tutto comprensibile ma non può non lasciar pensare. Perché dall’insieme degli interventi – molti dei quali animano un chiacchiericcio inutile, altri invece risultano essere più meditati e costruttivi – sembra di cogliere che gli operatori della comunicazione vengono spesso a leggere temi e problemi della comunità cattolica e della istituzione ecclesiastica con lenti inadatte, quando non deformanti.

Riflessioni già sviluppate su queste pagine hanno sottolineato come, in sostanza, emerga una diffusa – ancorché, per fortuna, non generale – tendenza a interpretare le vicende interne della Chiesa secondo categorie magari sofisticate, ma elaborate per capire la società civile, o meglio ancora secondo schemi interpretativi della politica. Arrivare a ridurre i fatti in termini di potere, di parti, di correnti, di interessi finanziari, di lotte intestine significa infatti concepire la comunità ecclesiale come una qualsiasi istituzione politica o, addirittura, come una multinazionale, con le fisiologie che queste realtà presentano e le patologie che possono manifestare.

Ma è evidente che applicare i canoni interpretativi della politica o della vita economica a una realtà che è diversa, profondamente diversa, significa da un lato avere una falsata rappresentazione di questa e, al contempo, trasmettere all’opinione pubblica una immagine lontana dal reale. E ciò, anche a prescindere da qualsiasi dietrologismo, cioè dal sospetto – che qui non vogliamo assolutamente avanzare – della sussistenza di una lucida e determinata volontà di presentare una raffigurazione diversa delle cose. Non se ne fa dunque una colpa, né si vuol addebitare qualcosa a qualcuno; ma ciò non toglie il rammarico di vedere in tanti casi l’incapacità di cogliere il proprio di una realtà profondamente eterogenea rispetto alle cose mondane.

Evidentemente anche la Chiesa, nella sua dimensione storica di comunità di uomini, conosce in ciò che non è di fede, o che non attiene all’inderogabilità dei princìpi morali, diversità di opinioni, visioni diverse del modo con cui concretamente perseguire il mandato affidatole, diverse modalità di reagire alle provocazioni che la modernità le rivolge o di accogliere le istanze che da questa vengono, differenti valutazioni attorno a ciò che è più o meno opportuno, scelte tra varie strategie d’azione, valutazione sugli uomini più idonei a determinati uffici. La Chiesa, ben al di là della percezione che molti ne hanno, non è mai stata un monolite assolutistico ma è segnata da una pluralità di istanze collegiali ed elettive: il suo stesso capo supremo, il Papa, è eletto. E non è un caso che nell’età medievale siano stati proprio i canonisti, per le esigenze interne all’istituzione ecclesiastica, a trovare le ragioni di legittimazione del principio maggioritario, quale strumento di formazione della volontà nelle assemblee.

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Ma le differenze con le realtà mondane fanno aggio su qualsivoglia analogia. Il fine della Chiesa è spirituale, non temporale; il suo non è un potere politico o economico, ma un servizio; la sua forza è una croce dalla quale, lo si è visto proprio in questi giorni, comunque non si discende. Davvero uno dei problemi della Chiesa nel mondo contemporaneo è la difficoltà di dialogo con un potere in continua ascesa: quello massmediale. E non solo perché essa non riuscirebbe a farsi sempre comprendere negli odierni “linguaggi”; ma anche, reciprocamente, perché i mezzi di comunicazione sociale, che di tali linguaggi sono i principali facitori, hanno frequenti e oggettive difficoltà a cogliere la verità della Chiesa.

Giuseppe Dalla Torre

(Avvenire 9 marzo 2013)

 

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A New York, come ovunque, emergono infine i veri interrrogativi

La domanda sulla Chiesa che scava nel nostro profondo

Lei in metropoli-tana scendendo dalla 86ma verso Downtown mi dice: «Ho visto un cardinale in tv, non ricordo come si chiama. Gli chiedevano se ora la Chiesa sarà più progressista o qualcosa del genere. E lui diceva che il compito della Chiesa è custodire l’annuncio del Vangelo».Poi la mia amica fa una pausa. «Non ho capito cosa volesse dire… Me lo spieghi?». Come la viaggiatrice, che sulla linea rossa attraversa i sotterranei della Grande Mela, ho sentito tanti in questi giorni passati tra università, letture di poesia, ritrovi con amici e nuovi incontri. In ogni dove e anche qui a New York, si fanno domande attorno alla Chiesa. A proposito di questa “cosa” che è salita alla ribalta per il gesto “strano” del suo capo. In quel vuoto lasciato da Benedetto si sono infilate un sacco di domande, di questioni. A tavola, in viaggio, nelle pause del lavoro, nelle aule, su Facebook, su Twitter, ovunque si conversi dal vivo o in virtuale. A volte solo poche battute superficiali, spesso la ripetizione di vecchi schemi ritriti, come quello del giornalista visto dalla mia amica. Ma altre volte, non poche, una sincera curiosità.È stato sempre così. Il cristianesimo fa sempre discutere. Anche quando si pensa di sapere già di che cosa si tratta, capita qualcosa che te lo fa “scoprire” di nuovo. Immagino che nelle bettole, nelle aule, nei mercati di duemilatredici anni fa a Betania, a Gerusalemme, a Cafarnao doveva accadere qualcosa del genere. «Che cosa sta succedendo?» «Chi è che deve venire?». E allora come ora non manca chi cerca in modo farisaico di tenere occulto il nocciolo della questione. Gesù accusava i Farisei di nascondere Dio al popolo dietro i fumi dei loro discorsi, dei loro sofismi, delle loro leggi pesanti e astruse.

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Anche oggi si vede un formicolare di chiacchiericcio farisaico. Gente che non intende il nocciolo della questione, ovvero il significato della presenza della Chiesa nella storia umana, e cerca di confondere le persone con piccoli giochi di fumo. Ma l’esperienza del “colpo” e della curiosità successive sono più forti di ogni trucco. E oggi come allora la domanda su questa strana presenza si insegue e si dirama. Per nuove bettole e città, per nuovi mercati e nuove aule, tra templi e grattacieli. In un mondo pagano e religiosissimo come duemila anni fa, irrompe una cosa strana. È soprattutto una grande chance per i cristiani di testimoniare l’essenziale. Il motivo per cui la Chiesa fa parlare di sé è sempre e comunque, nel bene e nel male, legata alla sua natura di “sposa”.Di una insomma che è legata a un Altro. E che esiste solo per un motivo: annunciare che Cristo è vivo. La si ama e la si odia per questo. Perché i nostri limiti e orrori nascondono la sua luce, o perché si preferiscono luci di idoli artificiali e non si sopporta la sua stessa esistenza, come si vede in molti casi crescenti di persecuzione e di insofferenza. Ci sono poi quelli che a volte in modo buffo si impancano a esperti e spiegano a uditori improvvisati i misteri di una storia millenaria, le “regole”, i retroscena.

Fanno quasi tenerezza. Magari fino a qualche tempo fa se ne fregavano altamente di qualsiasi cosa accadesse o dicesse il Papa (o altre voci della Chiesa, consacrate o laiche) e ora fanno quelli che la sanno lunga… Ma resta il fatto di una strana inquietudine, di una domanda, che s’è aperta, vasta, diffusa, imprevista. Anche quando è confusa porta attaccate – come le radici nascoste di un bulbo quando lo si estrae – le domande più profonde di ogni persona viva. Quelle sul proprio destino, su cosa è stare qui, soffrire, amare, morire, stare soli o insieme, orfani o figli, creature o pezzi di nulla. E cosa c’entra con tutto questo lo strano Nazareno…

 

Davide Rondoni

(Avvenire 11 marzo 2013)

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