Agostino e Monica. Un dialogo fra madre e figlio, con lo sguardo rivolto alle cose del cielo

Agostino e la madre Monica ad Ostia. Un dialogo fra madre e figlio, con lo sguardo rivolto alle cose del cielo

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Cosa significa avere lo sguardo rivolto alle cose del cielo? È veramente possibile desiderare il cielo più di quanto si desideri rimanere in questa vita? Non è che Dio, nelll’altra vita, ci porterà vita le cose e le persone a cui siamo più legati, quelle che abbiamo ricevuto proprio per un suo dono? Una prima risposta può essere quella “concettuale”. L’essere in Dio comporta il godimento pieno della sua presenza , in Lui, di tutto ciò che Lui ci ha dato durante la nostra vita. Non è forse detto in molte forme, nella liturgia dei defunti, che viviamo nell’attesa di ricongiungerci con i nostri cari che ci hanno lasciato? ma c’è una risposta più “nobile”, meno attaccata alle cose della terra.

C’è una bellezza indescrivibile che invade l’animo di colui che, pur vivendo la cittadinanza in questo mondo, tiene ormai lo sguardo fisso all’eternità. Per vivere questa esperienza non occorrono virtù eroiche. Occorre lasciarsi conquistare da Dio, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, fino a quando ameremo con il più autentico amore i nostri cari, e li sentiremo perfino più nostri… Più vicini, proprio perché il nostro sguardo sarà radicato in Dio. Più il nostro sguardo sprofonda nella contemplazione di Dio… più sentiamo dentro di noi l’alito del suo Spirito… più noi sentiamo di appartenere al Lui, più acquistano valore autentico le cose e le persone. Perché Dio è il nostro “tutto”. Non c’è persona umana che possa darci la gioia che solo Dio può darci. Per due motivi: primo, le persone che Dio ci regala sono raggi della gioia che vengono dal suo cuore, ma non sono la sorgente. Ci rallegrano, ma non ci tolgono l’anelito di un compimento definitivo dell’esistenza; secondo, perché Dio è la sorgente stessa della gioia, e non semplicemente un suo raggio.

E.C.

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Dalle «Confessioni» di sant’Agostino, vescovo
(Lib. 9, 10-11; CSEL 33, 215-219)

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Era ormai vicino il giorno in cui ella sarebbe uscita da questa vita, giorno che tu conoscevi mentre noi lo ignoravamo. Per tua disposizione misteriosa e provvidenziale,avvenne una volta che io e lei ce ne stessimo soli, appoggiati al davanzale di una finestra che dava sul giardino interno della casa che ci ospitava, là presso Ostia, dove noi, lontani dal frastuono della gente, dopo la fatica del lungo viaggio, ci stavamo preparando ad imbarcarci. Parlavamo soli con grande dolcezza e, dimentichi del passato, ci protendevamo verso il futuro, cercando di conoscere alla luce della Verità presente, che sei tu, la condizione eterna dei santi, quella vita cioè che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore d’uomo (cfr. 1 Cor 2, 9). Ce ne stavamo con la bocca anelante verso l’acqua che emana dalla tua sorgente, da quella sorgente di vita che si trova presso di te. Dicevo cose del genere, anche se non proprio in tal modo e con queste precise parole. Tuttavia, Signore, tu sai che in quel giorno, mentre così parlavamo e, tra una parola e l’altra, questo mondo con tutti i suoi piaceri perdeva ai nostri occhi ogni suo richiamo, mia madre mi disse: «Figlio, quanto a me non trovo ormai più alcuna attrattiva per questa vita. Non so che cosa io stia a fare ancora quaggiù e perché mi trovi qui. Questo mondo non è più oggetto di desideri per me. C’era un solo motivo per cui desideravo rimanere ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico, prima di morire. Dio mi ha esaudito oltre ogni mia aspettativa, mi ha concesso di vederti al suo servizio e affrancato dalle aspirazioni di felicità terrene. Che sto a fare qui?».

Non ricordo bene che cosa io le abbia risposto in proposito. Intanto nel giro di cinque giorni o poco più si mise a letto con la febbre. Durante la malattia un giorno ebbe uno svenimento e per un pò di tempo perdette i sensi. Noi accorremmo, ma essa riprese prontamente la conoscenza, guardò me e mio fratello in piedi presso di lei, e disse, come cercando qualcosa: «Dove ero»?

Quindi, vedendoci sconvolti per il dolore, disse: «Seppellire qui vostra madre». Io tacevo con un nodo alla gola e cercavo di trattenere le lacrime. Mio fratello, invece, disse qualche parola per esprimere che desiderava vederla chiudere gli occhi in patria e non in terra straniera. Al sentirlo fece un cenno di disapprovazione per ciò che aveva detto. Quindi rivolgendosi a me disse: «Senti che cosa dice?». E poco dopo a tutti e due: «Seppellirete questo corpo, disse, dove meglio vi piacerà; non voglio che ve ne diate pena. Soltanto di questo vi prego, che dovunque vi troverete, vi ricordiate di me all’altare del Signore».

Quando ebbe espresso, come poté, questo desiderio, tacque. Intanto il male si aggrava ed essa continuava a soffrire.

In capo a nove giorni della sua malattia, l’anno cinquantaseiesimo della sua vita, e trentatreesimo della mia, quell’anima benedetta e santa se ne partì da questa terra.

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